Archivio | giugno 2017

E come un sogno la vita vola. Lettere 1835-1848 di Patrick Branwell Brontë.

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A cura di Alessandranna d’Auria, edizioni flower-ed, 2017

 

Finalmente si fa luce anche su questo membro del formidabile quartetto dei fratelli Brontë!

Chissà quale magico incrocio di genialità artistica spirava sulla canonica di Haworth trasportato dalle correnti del Vento del Nord che ne ha fatto l’inospitale culla di creatività artistica a insaputa degli stessi irrequieti e insoddisfatti abitanti.

Uno di loro in particolare sperimentò sulla sua pelle un destino che non corrispose alle attese: votato sin da piccolo agli allori della fama e della gloria dovette confessare la propria inettitudine e fragilità deponendo anzitempo le armi.

La vita si è accanita con Patrick Branwell Brontë orgoglio del padre e delle sorelle che in lui rimettevano tutte le loro speranze, e che non seppe reggere il peso di tante aspettative, quelle degli altri e le sue.

Quel suo grande desiderio d’azione tradiva un appetito smisurato che gli fu fatale.

Tutto molto bello ma io ho una scarsa considerazione di me stesso e un grande desiderio di azione (lettera del 9 giugno 1842 da Haworth)

Figura relegata nel dimenticatoio dell’insuccesso, su di lui non si sono accesi i riflettori degli studiosi di letteratura per un dovuto riconoscimento. Questo volume delle lettere, mentre ne mette a nudo le aspirazioni e le speranze frustrate, oltre che le cadute, gli restituisce almeno la dignità delle intenzioni e la ricercatezza della preparazione, sebbene infruttifere.

Leggo per la stessa ragione per cui mangio e bevo, perché è un desiderio naturale. Ho scritto per lo stesso principio per cui si parla -per impulso e sentimento, non potevo farne a meno perché ciò scaturisce dal mio essere… Ho l’aspirazione signore di farmi posto nel mondo e per questo non confido solo nella poesia, quella deve spingere il vascello ma non farlo veleggiare per sempre. Spero di farmi conoscere per degli scritti solidi, anche scientifici, per una linea di condotta forte e ferma, ciò darebbe al mondo un’ulteriore ragione di attenzione; allora la poesia coronerebbe di splendore un nome glorioso (lettera del 19 gennaio 1837 a William Wordsworth)

Il contenuto di questa lettera a William Wordsworth del 1837 può considerarsi il suo manifesto letterario per cui anche ingenuamente -e con scarso senso pratico- si vedeva destinato a una brillante carriera; poi il facile entusiasmo e l’ardore dei primi appelli, lasciano il posto ad accenti accorati e vibranti nelle lettere degli anni successivi, quando la dura realtà sta cominciando a incrinare qualche sogno, a riportare a terra qualche volo da novello Icaro.

La sorella Charlotte, che era stata sin dall’inizio compagna di giochi e dei primi esperimenti letterari, data la vicinissima età, fu forse quella che lo giudicò con severità (ma anche Constantin Héger era sposato!), mentre Emily gli dimostrò tacita comprensione. E Anne? Anne fu la sua vera confidente di un segreto che non osavano rivelare nemmeno fra loro. Occorrerebbe rileggere La signora di Wildfell Hall per rivivere insieme a lei la vivida impressione ricevuta dal crescendo di degrado morale del fratello.

Nelle lettere di lui, di contenuto amicale o professionale o artistico, nessun riferimento diretto alle sorelle, alla famiglia, ma forse una generale comprensione di tutto ciò che costituiva un vincolo soffocante o troppo pressante nella considerazione di Haworth, come una prigione da cui fuggire, da cui liberarsi in quanto sinonimo di isolamento, inattività, alienazione.

Ma sento che la mia guarigione dalla quasi alienazione è ritardata dal non aver niente da ascoltare eccetto i lamenti del vento tra vecchi camini e alberi secchi, niente da guardare eccetto colline di erica attraversate quando la vita da me aveva tutto da sperare e niente di che dolersi… La quiete è una cura eccellente, ma nessuna medicina dovrebbe persistere dopo la guarigione del paziente (L. del 22 maggio 1842 da Haworth, presso Bradford).

Tra mille difficoltà incontrate nel reperimento delle fonti, conquista la nutrita bibliografia e il commento pedissequo e attento di ogni blocco di lettere raccolte per anni, corredato da commento finale conclusivo. Il tutto rende l’epistolario unico e prezioso nel suo genere e introduce alla lettura della prima bibliografia su Patrick Branwell Brontë tradotta in italiano, sempre edita da flower-ed, di Alice Law.

Eccone la suggestiva e romantica cover in anteprima:

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L’arte epistolare

4976La forma epistolare rappresenta il genere narrativo principale del Settecento letterario tipico soprattutto di quei romanzi cd. di formazione che ripercorrono l’iter di maturazione del protagonista attraverso un percorso che è più interiore che spaziale (cfr. Goethe, I dolori del giovane Werther; Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis; Richardson: Pamela, Clarissa; Fanny Burney: Evelina; Choderlos de Laclos: Le relazioni pericolose, etc).

Questa forma conferisce realismo alla storia  e consente l’analisi psicologica del personaggio: il lettore assiste così in diretta al suo svolgersi coinvolto emotivamente nel mondo interiore del personaggio a lui disvelato dallo sfogo confidenziale della lettera. In quei romanzi poi laddove la struttura è incrociata, ossia i destinatari delle lettere cambiano così come i mittenti, la posizione super partes che raccoglie tutti i punti di vista permette di avere sugli avvenimenti una padronanza simile a quella data dalla rappresentazione teatrale (cd. Metodo Richardson).
La centralità riconosciuta a questa forma stilistica riflette l’importanza sociale di tale strumento di comunicazione: la corrispondenza epistolare informava di sé sia i costumi e le usanze,  fin nei più piccoli aspetti di  vita quotidiana, dato che era l’unico mezzo per dare proprie notizie e riceverne, prendere accordi, fare progetti, senza distinzioni di sesso tra uomo o donna (se non nello stile).
Uno spaccato di vita inglese, che potrebbe essere esteso anche ad altre realtà dell’epoca,  può confermare come questa attività  comportasse il suo bel daffare perché oltre ad essere un impegno giornaliero rappresentava anche un dovere da cui non ci si poteva esimere e ad essa ci si dedicava quando, appena dopo colazione, si aspettava l’ora delle visite, o si approfittava di qualche momento di solitudine. Dato che  vigeva un fiscalissimo regime di affrancatura ed il costo della lettera non era propriamente economico, non si sprecava nessuno spazio del foglio rubando a volte un po’ di spazio della busta e, quando si poteva, si approfittava di qualche  franchigia o più frequentemente ancora si affidava a qualche visitatore di passaggio o meglio, a qualche familiare che se ne facesse latore, a patto che non rovinasse la sorpresa anticipandone con il proprio racconto il contenuto.
Trattandosi di una vera e propria arte, si poneva particolare attenzione  e cura alla calligrafia, alla debolezza o pesantezza della penna d’oca e alla lunghezza del testo, prima ancora che alla sostanza o corposità degli argomenti.  La carta listata non rispondeva ad esigenze ornamentali quanto di ordine: i  più precisi tracciavano righe per indirizzare la scrittura.
Poiché le lettere erano lette e rilette pubblicamente, il loro contenuto riguardava generalmente osservazioni convenzionali sul tempo e piccoli e grandi avvenimenti quotidiani, aggiornamenti sulle condizioni di familiari e conoscenti; difficilmente potevano custodire una confidenza intima che si preferiva bisbigliare ad un orecchio discreto di persona. E’ comprensibile che,  fornendo materia di conversazione, ricevere poca posta poteva risultare deludente.
Non esistendo buste da incollare, anche per ripiegare e sigillare le lettere ci voleva maestria, accuratezza nel far combaciare i lembi del foglio e nel far cadere la ceralacca di chiusura al posto giusto.
Inutile dire che tutto questo oggi è superato e quasi non si trovano più in commercio i set di carta da lettera (se non come articoli vintage), benché meno quella romanticamente profumata.
Per una diffidenza tipicamente moderna si evita di affidare alla scrittura i propri sentimenti – o verità in genere – che potrebbero compromettere. Verba volant, scripta manent.