Archivio | settembre 2019

Pat di Silver Bush

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Non è un libro di grandi avventure questo ma di profondi sentimenti tanto quanto profonde sono le radici che legano Pat alla sua adorata casa chiamata Silver Bush.

Patricia, detta Pat, è una bambina molto dolce, legatissima ai suoi affetti e ai suoi luoghi, capace di fortissimo trasporto e nemica di qualsiasi cambiamento, anche il taglio dei baffi del suo papà.

Come le altre eroine di Lucy Maud Montgomery vive in modo talmente intenso il contatto con la natura da voler dare un nome agli alberi, alle colline, alle radure, che la circondano, credendo nella loro personificazione.

Nell’angolo dal quale entravano c’erano due piccoli abeti rossi a lei cari, uno appena più alto dell’altro: fratello e sorella, proprio come lei e Sidney. Li avevano istintivamente soprannominati Regina del Bosco e Principessa delel Felci. O sarebbe meglio dire che Pat lo aveva fatto. Adorava dare un nome alle cos. Ciò le rendeva umane -umane come le persone che amavi.

(la prima edizione)

A ogni protagonista la scrittrice ha cercato di regalare una sua caratteristica specifica e Pat sembra essere uscita dalla penna di Lucy Maud per celebrare il suo grande amore per i luoghi della sua infanzia, trascorsa nella fattoria di Cavendish con i nonni materni, nell’Isola del Principe Edoardo.  La sua è una vera e propria dichiarazione d’amore:

 In quel momento, il sole irruppe attraverso una nuvola nera e riversò una marea di splendore su Silver Bush. Pat comprese ancora una volta quanto fosse bella la sua casa, accoccolata sotto la nebulosa collina blu e circondata da alberi dorati… Fu penetrata nel profondo da quel repentino e squisito spasimo che sempre la bellezza le suscitava -che sempre le avrebbe donato. Era quasi angoscioso in quei momenti… tuttavia quel dolore era paradisiaco.

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Rispetto alle altre, il senso di appartenenza di Pat a Silver Bush è molto più esclusivo e totalizzante, non a caso l’ultimo capitolo si intitola: “La castellana di Silver Bush”.

Pat è una bambina semplice, che si sazia di cose buone e belle, si accontenta di poco perché sa trarre il massimo da tutto ciò che ha, forte dell’amore della sua famiglia e di Judy, la donna che l’ha cresciuta a forza di manicaretti e storie più o meno sensazionali, la cui saggezza accumulata con l’esperienza è scambiata per potere magico.

Judy è talmente convincente da convertire anche i più scettici ai suoi insegnamenti di vita che si basano sia su racconti streghe sia su aneddoti del passato:

“Se non credi a niente, come puoi trovare la vita divertente?”

Pat non si sente mai sola perché oltre ai suoi fratelli e sorelle incontrerà presto degli amici, Jingle e Bets, insieme ai quali imparerà ad accettare sia i doni che i duri insegnamenti che la vita può riservare.

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Nell’introduzione al romanzo, di Lorenza Ricci, ho letto un’osservazione molto giusta e speciale: questo, come altri della scrittrice canadese, è sicuramente un libro per ragazzi ma solo un lettore adulto può condividere fino in fondo i sentimenti della protagonista.

Come Lucy Maud riesca a trasmettere la serenità ma anche la nostalgia per un passato ormai  è qualcosa che raramente si incontra e non a tutti gli scrittori è dato saper creare, tramutando  le parole in semplici emozioni e facendo diventare il mondo di Pat il nostro.

C’è un’ora speciale a Silver Bush che Pat amava particolarmente e che chiama “l’ora indistinta”, appuntamento al quale vorrò tornare spesso ripensando a lei:

Il sole era tramontato. A Pat piaceva restare a osservare la sua gloria che, da occidente si rifletteva sulle finestre della dimora dello zio Tom oltre la Stradina che Sospira. Era, tra quelle della fattoria, l’ora che amava di più. Le foglie dei pioppi frusciavano come seta dopo il tramonto; il cortile sottostante si riempiva, d’un tratto, di cari, rotondi e pelosi micini…

 

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Naturalmente c’è anche un seguito, Mistress Pat, che aspetto di leggere!

 

Sinossi:

Sull’Isola del Principe Edoardo, un luogo di limpida bellezza, c’è una vecchia e adorabile tenuta incastonata fra betulle d’argento, è la fattoria di Silver Bush, dove la piccola Patricia Gardiner vive felicemente insieme alla sua famiglia.

Per Pat nulla al mondo è più̀ prezioso della sua casa e della natura incontaminata che la circonda, dove si avventura insieme agli amici Jingle e Bets alla scoperta di incantevoli angoli nascosti, per poi fare ritorno nell’amata cucina di Silver Bush; qui l’aspetta la simpatica governante Judy Plum, sempre pronta a sfornare qualche prelibatezza e a raccontare incredibili storie.

L’infanzia spensierata non può̀ durare per sempre, il tempo porta inevitabilmente con sé imprevedibili cambiamenti… e, per quanto tenti di opporsi, Pat si trova alle prese con l’avventura più̀ bella e difficile di tutte: crescere.

 

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Il giardino delle rose di Elizabeth von Arnim

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Questo breve racconto è incentrato sul giardino.

Esso è l’elemento dominante della poetica e della scrittura di Elizabeth von Arnim. Potremmo dire che non c’è altro luogo in cui ella si trovi così bene  nel suo elemento.

Attorno al giardino delle rose ruotano le vicende di due fidanzati e la madre di lei.

Incuneato tra questi due giardinetti c’era il piccolo paradiso di Annie, fresco e squisito dopo la pioggia, curato all’inverosimile, trapunto di piselli odorosi e scuro per le viole del pensiero porpora, e con lei non faceva che aggiungere altra grazia, col vestito fresco di bucato, in attesa del fidanzato.

 

Nel volgere di poche pagine e dell’ancor più scarna trama assistiamo al drammatico epilogo che lascia di sasso.

Si racconta qui la storia di Annie, giovane sarta con la grande  passione dei fiori, costantemente distratta dalle cure del suo giardino dalle due persone che le sono più vicine: la madre, sempre bisognosa di attenzioni, e il fidanzato William, che su di lei ha precisi progetti: almeno sei figli.

Lo sguardo di Annie vagò alla finestra e alla rosa solitaria, e il suo umore ebbe un’impennata. Oh, come la amava, come amava tutti quei cari fiori! Molto più di quanto amasse sua madre e William. Perché mai avrebbe dovuto amare William? Con lei era gentile, ma solo per tornaconto, perché la voleva in moglie. Ma Annie non voleva nel modo più assoluto né lui né nessun altro, e trovava estenuante dover sempre mostrarsi affezionata.
Ancora una volta Elizabeth von Arnim ci delizia con la sottile ironia e la grande verve narrativa che l’hanno resa un’autrice amatissima dal grande pubblico.

 

Annie stremata, chinò il capo. Che tormento essere in una stanza così piccola con delle voci così alte! Sempre, e come al solito, a ripetere le stesse cose: la madre a lagnarsi , e William a difendere lei. Succedeva così ogni volta che lui veniva a trovarla, ed era gentile da parte di lui prendere le sue difese ma… quanto meglio sarebbe stato se lui avesse evitato di rispondere, forse ci sarebbe stata un po’ di pace.

 

Ne Il Giardino delle rose  ritroviamo i tipici temi von arnimiani della libertà della donna, della sua insofferenza verso i vincoli parentali e matrimoniali, del desiderio di spazi e momenti «tutti per sé» difficilmente riconosciuti dalla più stretta cerchia familiare.

 

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China sulla rosa semiaperta in un’estasi di felicità ed eccitazione, Annie era molto più concentrata su di essa che non su di lui. Era già perfetta: il più delicato dei boccioli di un color crema orlato di rosa, con i petali esterni che si arrotolavano all’infuori a mostrare il cuore vellutato. Nel piccolo giardino Annie aveva duecento arbusti nani di rosa tea, di cui cinquanta erano Maria van Houtte. Erano pieno di boccioli e proprio non riusciva a immaginare come sarebbe stato quando fossero tutti fioriti.

 

Una donna che non si conformi alle regole della società che la vuole deputata a sposarsi e a fare figli, non solo non trova accettazione (e viene considerata “una svitata”) ma anche nessuna comprensione, nemmeno – e direi quasi soprattutto- da parte della stessa madre.

Un delizioso cammeo, dallo stile inconfondibile di Elizabeth von Arnim, di una squisita prosa floreale che svela ancora di più il contrasto con l’insofferenza per la decretata sottomissione femminile alle regole sociali.

 

 

 

 

Maud Goodman, pittrice inglese

(“Silenzio, o Un momento di ozio”)

Nata Matilda, nel 1853  da genitori ebrei,Manchester, in Inghilterra.

 A causa della morte della sua madre, è stata in seguito cresciuta e incoraggiata nella sua ricerca dell’educazione artistica dalla sua matrigna, anche lei ebrea.

Ha studiato arte a Londra alla School of Art di South Kensington e fu allieva di Edward Poynter 

Il suo successo fu consacrato dal fratello di Dante Gabriel Rossetti, William Michael Rossetti, il quale nel 1876, commentò che c’era qualcosa “al di sopra del comune nel colore e nel tono” nell’opera di Maude.

Lei aveva infatti esposto il suo primo olio su tela alla Royal Academy Summer Exhibition di Londra  e avrebbe proseguito nel suo lavoro, per altre 54 opere, fino al 1901.

Anche dopo aver sposato Arthur Scanes nel 1882, continuò ad assumere il suo nome da nubile come pittrice.

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(“Io sono un bambino”)

 

Ha illustrato varie edizioni di libri e cartoline di Raphael Tuck & Sons per bambini, anche contenenti poesie fornite da suo marito, Arthur Scanes.

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C’era stato un piccolo malinteso riguardo il suo nome quando aveva firmato i suoi dipinti “M. Goodman”, con il risultato che era indicata dal “The Athenaeum” come Mr. M. Goodman e ottenendo  una recensione favorevole in quel contesto. In seguito, tuttavia, quando  si venne a conoscenza dell’equivoco, la rivista non fece molto più menzione di Miss M. Goodman o della sua arte. 

 

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(“Santa Claus”)

La critica più scontata ricevuta è di essere una pittrice eccessivamente stucchevole di bambini idealizzati in contesti arcadici ma è stata anche più volte menzionata nel libro di WL George, “The Intelligence of Women” , del 1916, come uno dei maggiori talenti artistici femminili.

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(“La lezione di danza”)

La sua arte è stata sicuramente apprezzata da Edward Morgan Forster  che la cita in due suoi romanzi. In  Passaggio in India , la dottoressa Aziz avrebbe appeso i suoi quadri alle pareti dell’appartamento del signor Fielding se l’avesse avuto. in Howards End, “uno dei capolavori di Maud Goodman” faceva parte della decorazione dell’appartamento di Leonard Bast. 

 

L’ho trovata semplicemente deliziosa e molto vicina a Kate Greenaway che pure adoro.

 

Goethe e l’Umbria

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Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) rimase incantato dal paesaggio dell’Umbria, dalle sue bellezze naturali e paesaggistiche. Egli arrivò in Umbria da Firenze nell’ottobre del 1786, e visitò Perugia, Assisi, Foligno, Spoleto e Terni: “In un mattino incantevole lasciai Perugia e provai la felicità di essere nuovamente solo. La città è in bella posizione, la vista del lago straordinariamente amena: mi sono ben impresso nella mente quelle visioni”, annotò il poeta nel suo diario.

Anche il Tempio di Minerva ad Assisi colpì l’immaginario di Goethe che una volta giunto sul luogo, accompagnato da un giovane del posto, scrisse: “Finalmente giungemmo alla città veramente antica ed, ecco, davanti ai miei occhi, quell’illustre monumento, il primo completo monumento dell’antichità che io contemplavo”. Celebre è anche la frase con cui il poeta, nel suo taccuino di viaggio in Italia, manifestò il suo apprezzamento verso il Ponte delle Torri di Spoleto e verso l’utilità civica delle opere architettoniche antiche: “L’arte architettonica degli antichi è veramente una seconda natura, che opera conforme agli usi e agli scopi civili. È così che sorge l’anfiteatro, il tempio, l’acquedotto”.

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Di passaggio a Terni il 27 ottobre del 1786, Goethe la definì una “cittadina in una posizione ridente, che ho ammirato con piacere, in un giro fatto ora. Si trova al principio di una bella pianura, fra monti di roccia calcarea. Come Bologna dalla parte opposta, così Terni al di qua si stende ai piedi di una catena di monti…“. Non poté fare a meno di stupirsi per la presenza diffusissima degli ulivi: “In un terreno molto sassoso ho visto oggi le piante d’olivo più grandi e più annose (antiche) mai viste”. Il grande scrittore tedesco si incuriosì a tal punto da fornire ai lettori del suo voluminoso “Italienische Reise” (tradotto con il titolo di “Viaggio in Italia”) anche delle informazioni sulle modalità di raccolta delle olive:”Siamo al principio della raccolta delle olive. I contadini le abbacchiano con le pertiche. Quando si annunzia un inverno precoce, il resto della raccolta si lascia sui rami fino a febbraio”.

Non ci sono prove che Goethe abbia visto le famose Cascate delle Marmore che invece avevano appassionato altri suoi colleghi stranieri, come Byron ad esempio, ma da questo schizzo che ci ha lasciato, intitolato “Bei Terni“, sembrerebbe proprio essersi spinto fino al passo della Sgurgola, sulla strada per Marmore, dove ancora oggi sorge un’edicola sacra. Il disegno è firmato Terni 1786.  Si sa che era sera quando visitò Terni e la mattina dopo prima di giorno era già in viaggio per Rom a. Preferì quindi dormire piuttosto che andare alla scoperta dei dintorni di Terni? Probabile. Certo è che fu un turista anomalo che dedicò a Firenze solo 3 ore di visita e ad Assisi ignorò la Basilica di San Francesco. 

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Furono comunque i giovani aristocratici come lui, per lo più ricchi di buona famiglia, quei pochi che all’epoca potevano permettersi il viaggio fine a se stesso e non giravano per le capitali d’Europa con una macchina fotografica al collo, ma avevano con sé pennelli, tavole, penne e quaderni, che inventarono il Tour, qualcosa che non era mai esistito prima e che un giorno sarebbe diventato quel fenomeno di massa che oggi ha guadagnato il nome di turismo.

 

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