Archivio | settembre 2017
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Il contrario delle lucertole di Erika Bianchi
Quattro generazioni, un mosaico andato in frantumi da ricomporre, il rifiuto e l’abbandono sono ferite da cui gli esseri umani non guariscono.
Il castello blu

Valancy Jane ha tutto per non essere considerata un’eroina: brutta, scialba, magra, insignificante, sfortunata. Avviata a diventare una zitella di ventinove anni, non ha attrattive fisiche né patrimoniali da proporre a un eventuale pretendente. Ammesso sempre che ce ne sia uno.
Una vita relegata a casa per via della sua salute cagionevole, repressa in ogni desiderio, istinto, minimo pensiero diverso da quello imposto dalla madre, una figura arcigna, dispotica, anaffettiva fino all’inverosimile.
Quella che ci propone Lucy Maud Montgomery è quindi una protagonista molto diversa dalla simpatica Anne o dalla incantevole Marigold, ma quando scrisse questo romanzo, verso la fine della sua carriera tra l’altro, l’autrice si proponeva di rivolgersi a un pubblico più adulto rispetto alle sue storie per ragazzi precedenti. E come Lucy Maud, avendo conseguito il successo e non avendo nulla da perdere, osa inventare un personaggio del tutto originale, sopra le righe, molto poco accattivante, così Valancy, quando scopre di essere affetta da angina pectoris, decide di non porsi più freni, di non autolimitarsi, stanca di assentire e sottomettersi a battute umilianti e cerimonie avvilenti.
Da sua abitudine, Lucy Maud Montgomery ha dotato anche Valancy, nonostante sia una ragazza più cresciutella, di una fervida immaginazione che funga da valvola di sfogo alle angherie quotidiane cui viene ingiustamente e, devo dire in qualche caso, cinicamente sottoposta.
La sua immaginazione disegna per lei un castello avvolto nella luce dello zaffiro, dove tutto emana bellezza e l’amore, di cui a Deerwood non c’è traccia, regna sovrano!
I suoi compagni inseparabili sono i libri e gli alberi del lago Mistawis, che sarebbe poi la trasposizione del lago canadese Muskoka:
Il bel vento umido che soffiava tra i boschetti di alberi selvatici dalle giovani foglie, le sfiorò il volto come la carezza di un saggio, tenero, vecchio amico. Alla sua sinistra, i pioppi nel giardino di Mrs Tredgold -Valancy riusciva a scorgerli tra la stalla e il vecchio negozio di carrozze- si stagliavano con le loro silhouette color porpora scuro contro il cielo terso, e una palpitante stella bianco latte si ergeva sopra uno di loro, come una perla viva sopra un lago verde argentato. In lontananza, oltre il Lago Mistawis gli indistinti boschetti ammantati di viola (p. 95).
La grande recriminazione di Valancy è quella di non aver avuto nemmeno un’ora di felicità per cui valesse la pena morire:
Non ho mai avuto un’ora veramente felice in tutta la mia vita… neppure una” pensò. “Sono sempre stata un’infelice incolore nullità. Ricordo id aver letto una volta da qualche parte che c’è un’ora grazie alla quale una donna potrebbe essere felice per tutta la vita se soltanto riuscisse a trovarla. Io non ho mai trovato la mia ora -mai, mai. E adesso non potrò più farlo. Se soltanto avessi trovato quell’ora, adesso sarei pronta per morire” (p. 68).
È molto ingenua Valancy, ma allo stesso tempo molto decisa a trovare la sua felicità, ingenua perché non sa che un’ora non le potrà mai bastare e perché la fame d’amore che nutre è troppo grande. Ugualmente smaniosa è la ricerca della felicità da parte di Lucy Maud Montgomery che sceglie di regalare alle sue eroine ciò che lei non potrà mai avere: con un matrimonio non riuscito alle spalle e una famiglia sfaldata, forse condensa in Barney le caratteristiche dell’uomo ideale che non è riuscita a trovare.
Un’opera di chiaro-scuro questa, che se non fosse basata su descrizioni crude e realistiche, sarebbe pervasa di aurea sognante, e se non fosse basata su una tragica sentenza, potrebbe concedere all’umorismo di certe situazioni e battute più di un sorriso.
Il tema della ragazza nubile avviata a diventare zitella e la cerchia di parenti gretti e prepotenti cui l’autrice non risparmia tramite l’irriverente Valancy i suoi strali ironici, una volta liberatasi da tutte le inutili ipocrisie, ha riportato per un attimo certe atmosfere di Jane Austen, specialista nel mettere in berlina vecchie matrone dall’alito cattivo o gentiluomini duri di comprendonio.
Nella prefazione leggo che questo libro si può considerare il manifesto poetico di Lucy Maud Montgomery che oltre a sublimare la sua condizione personale di infelicità coniugale, cercò qui di trasporre il ricordo veramente piacevole di una vacanza trascorsa a Bala, sul lago Muskoka, nell’Ontario. Le emozioni di quel soggiorno entrano prepotentemente nel libro, con delle descrizioni intense e suggestive di scenari incantevoli in cui dimenticare le sofferenze quotidiane e coincidono con i momenti più lirici della storia in cui Valancy acquisisce consapevolezza di sé e senso di appartenenza al creato.

Alla luce di tutte queste considerazioni, la storia rivisitata de Le signore di Missolungi di Colleen McCullough è uno stravolgimento che destabilizza e sconcerta, per le accuse di plagio, ma anche per una sorta di travisamento e stortura delle intenzioni dell’autrice.
Tra contaminazioni varie, comprese incursioni dal soprannaturale, la poesia de Il castello blu è svanita, evaporata insieme alle nebbie sospese sul lago.
Poesia a cui la giovane regina del castello blu è decisissima a non rinunciare:
nessun posto o luogo o casa in tutto il mondo avrebbe mai posseduto la magia del suo castello blu.
Ragione & sentimento di Stefania Bertola
Caro diario ti scrivo… di Patrizia Rinaldi e Nadia Terranova
Non va più di moda tenere un diario oggigiorno, i surrogati tecnologici – socialnetwork, cellulari – assorbono qualsiasi iniziativa amanuense e prevale soprattutto la tendenza contraria a quella che spingeva a confidare i propri segreti a qualcuno che avrebbe saputo conservarli chiusi a chiave: la smania moderna di sbandierare a tutti e condividere pensieri, emozioni, progetti, opinioni.
Pare che la riservatezza non vada più di moda e insieme a essa quella sorta di pudore che trattiene dallo svelare i propri sentimenti più intimi e a preservarli gelosamente. Come una specie di amico immaginario il diario consentiva, oltre che di confidarsi con qualcuno disponibile all’ascolto incondizionato e acritico, anche di esorcizzare -nel momento in cui venivano impresse sulla carta- le proprie paure e razionalizzare accadimenti e piccoli incidenti quotidiani soggetti al rischio di assumere troppa importanza.
Nonostante poi manchi l’applicazione, l’intenzione rimane: la formula del diario attira ugualmente una considerevole fetta di pubblico –rigorosamente- femminile sotto forma di gadget della beniamina di turno, moltiplicato in destinazioni d’uso: il diario di viaggio, il diario scolastico, il diario dei segreti, etc.
Con o senza lucchetto, gli anonimi fogli bianchi ove campeggiavano rudimentali “ciao” improvvisati con le faccine e arditi smack! con il punto esclamativo a cuore, sono stati sostituiti da coloratissime pagine, a righe e/o a quadretti, disegnate, profumate, pronte ad invogliare chiunque. Peccato che rimangano vuote; le ragazzine di oggi non sanno cosa scrivere sul diario perché hanno già mandato sms, postato un commento, condiviso un link affine al loro stato d’animo e l’esperienza della giornata è tradotta immediatamente in immagini di impatto e condensata in poche parole d’effetto.
Essendo una forma di espressione tipicamente femminile, le due scrittrici Patrizia Rinaldi e Nadia Terranova in Caro Diario ti scrivo… (ed. Sonda) hanno pensato a come sarebbero stati ipoteticamente i diari di sei donne famose: Matilde Serao, Beatrix Potter, Anna Maria Ortese, Emily Dickinson, Silvina Ocampo, Jane Austen, accomunate in modo –anche troppo- trasversale secondo un criterio personale.
La loro diversità per epoca, nazionalità, condizione, professione, viene azzerata dalla situazione fotografata dall’idea del libro: immaginare cosa avrebbe scritto ciascuna delle sei ragazzine all’età di dodici anni nel loro diario. Questo si rivela un modo per raccontarne la storia di quello che sono diventate da grandi alle ragazze d’oggi –ma non solo- e coglierne la dimensione più vicina a loro: Emily sbagliava l’ortografia, Anna Maria Ortese ripeté un anno, Beatrix parlava con un coniglio immaginario, Matilde aveva una grossa risata e Jane non tenne mai un diario perché preferiva parlare e scrivere lettere a sua sorella Cassandra.
Età consigliata: dai 10 anni in su.
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