Archivio | novembre 2019

Louisa May Alcott – 29.11.1832

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Louisa May Alcott nasce a Germantown il 29 novembre 1832, secondogenita di Amos Bronson e Abba May e nello stato della Pennsylvania trascorse la prima infanzia.

Venuto meno il sostegno morale e materiale di Reuben Haines, che aveva chiamato Bronson a dirigere la scuola chiamata “piccolo paradiso”, la famiglia Alcott dovette trasferirsi a Boston, lì abitavano i May, parenti di Abba; in quegli anni la città godeva di grande prosperità grazie al commercio del cotone. Amos aprì la Temple School dove cercava di educare i suoi allievi applicando il metodo socratico e dove Louisa spesso si trovava a trascorrere il suo tempo assorbendo scampoli di insegnamenti paterni affiancato all’epoca da due valide collaboratrici: Elizabeth Peabody e Margaret Fuller.

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Nel 1839 si trasferiscono su invito di Ralph Waldo Emerson a Concord, cittadina tranquilla, circondata da colline e da boschi; gli Alcott si sistemarono a Hosmer Cottage: non navigano nell’oro ma vivono del lavoro dei campi.

A Concord gli Alcott faranno ritorno dopo la fallimentare esperienza trascendentalista di Fruitlands, acquistando Hillside Cottage dove Louisa trascorse la sua giovinezza e gli anni più importanti per la sua formazione: tra un lavoretto e l’altro compone i primi racconti.

Il decennio 1850-1860 fu il periodo peggiore per la famiglia Alcott e per la sua vita: sono gli anni della malattia di Elizabeth che, colpita da una malattia infettiva, muore. Louisa ebbe più di un momento di sconforto, anche perché si trovò a dover accettare il fidanzamento della sorella Anna con John Pratt e alcuni suoi fallimenti personali.

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La guerra di secessione interrompe bruscamente la nascente carriera letteraria di Louisa, che si offre come infermiera volontaria all’ospedale militare di Georgetown, vicino a Washington. L’orrore e la tragedia della guerra vengono raccontati a casa attraverso delle commoventi e tenere lettere. Il padre le raccoglie e le conserva tutte e ne manda alcuni brani all’amico Frank Sanborn, editore del giornale “Commonwelth”: essi saranno pubblicati con il titolo Hospital Sketches. La giovane infermiera deve però essere ricondotta a casa perché ammalata di tifo; fu curata con il calomelano che veniva somministrato all’epoca ma che induceva un progressivo avvelenamento.

Dopo essersi rimessa, Louisa comincia a pubblicare romanzi noir o storie sensazionali che le procurano facili guadagni ma che decide di firmare utilizzando uno pseudonimo (a noi richiamano alla mente i primi esperimenti letterari di Jo March!) e intanto si cimenta in tantissimi lavori: insegnante, colf, governante, sarta e anche dama di compagnia.

Infatti, alle dipendenze di una signora benestante ammalata, Anna Weld, figlia di un commerciante, nella primavera del 1865 Louisa accetta di partire per la tanto sospirata Europa. Dopo essere sbarcate a Londra, proseguono in cerca di un clima più mite verso il lago di Ginevra, in Svizzera, stabilendosi nella cittadina di Vevey. Qui Louisa conosce Ladislas Wisniewski, un giovane polacco con il quale fa romantiche gite sulle montagne e sul lago contrariando la sua datrice di lavoro che si considera abbandonata a se stessa. Le due presto si separano perché Louisa è sempre più insofferente e prosegue il viaggio da sola.

Quando torna a casa a luglio, con il suo bagaglio di incontri e esperienze nuove, trova la Orchard House e i suoi abitanti bisognosi del suo intervento: la madre Abba e Anna sono entrambe malate, la casa è in rovina e i debiti aumentati. Con pazienza e spirito di sacrificio, Louisa si rimette sotto a lavorare e a scrivere proprio per sanare le finanze domestiche.

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Quando Thomas Niles, socio e direttore della compagnia editoriale Roberts Brothers, le propone di scrivere un libro per giovanette, Louisa dapprima rifiutò, dicendo di non conoscere bene le fanciulle, ma poi, dietro insistenza di lui, accettò.

Sappiamo benissimo che le preoccupazioni di Louisa erano infondate e mal riposte perché non c’erano al mondo altre ragazze che lei conoscesse meglio delle quattro sorelle Alcott e proprio di loro, scrisse.

Finì il primo libro delle Piccole Donne in pochi mesi guadagnando molto e sette mesi dopo, il successo si ripeté con Piccole Donne crescono. Ormai la strada di Louisa come scrittrice di romanzi per la gioventù era tracciata e arrivando a lavorare anche 14 ore al giorno, diede alle stampe anche Una ragazza fuori moda.

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Pagati i debiti, risanate le finanze della famiglia, finito di ristrutturare Orchard House, Louisa decide di regalarsi una meritata vacanza. Questa volta sarà lei a decidere con chi partire e dove andare: lei, la sorella May e un’amica attraversano l’Oceano per visitare la Francia, la Svizzera e l’Italia.

La guerra franco-prussiana sorprende le tre giovani donne americane in Svizzera. In ottobre riescono ad attraversare le Alpi e a visitare il lago di Como. Passando per Milano, Bologna e Firenze si stabilirono sei mesi a Roma dove May prendeva lezioni di disegno e pittura, e Louisa proseguiva la saga di Piccole Donne con una nuova puntata.

Purtroppo il clima spensierato e riposante del soggiorno europeo fu rovinato dalla notizia della morte improvvisa del cognato John Pratt: Louisa pensava ad Anna e ai suoi ragazzi quando terminò di scrivere Piccoli uomini mentre erano alloggiate in un appartamento in Piazza Barberini a Roma.

Visto quanto accaduto a casa e sapendo che Anna ha bisogno di lei, nel maggio 1871 Louisa decide di fare ritorno in patria mentre May rimane in Italia a studiare. A casa la aspettano fama e popolarità:  iniziano a fioccare lettere, domande di autografi, interviste. Furono questi gli anni d’oro in cui videro la luce altri quattro romanzi per ragazzi: Gli otto cugini, Rosa in fiore, Sotto i lillà e Jack and Jill. Rimaneva comunque sempre lei a prendersi cura del padre e soprattutto della madre, la cui salute stava velocemente declinando dopo i gravi problemi agli occhi. Il 25 novembre 1877 Abba viene a mancare: l’amata Marmee viene sepolta nel cimitero di Concord, lo Sleepy Hollow, accanto alla figlia Elizabeth.

A febbraio, gli Alcott ricevettero la notizia che May si era fidanzata con un uomo d’affari svizzero. Il 22 marzo 1878, May sposò Ernest Nieriker a Londra e si stabilirono in un sobborgo parigino.

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Louisa e il padre si trasferirono a vivere con Anna e a Orchard House si costituì una scuola, la Concord School of Philosophy, diretta da Bronson che finalmente cominciava a vedere riconosciuto il suo ruolo di filosofo e pedagogo.

Louisa seppe che l’8 novembre, May aveva dato alla luce una figlia, Louisa May Nieriker. La gioia fu però di breve durata: dopo appena due settimane dal parto, May si ammalò improvvisamente e morì. Fu la zia Louisa ad occuparsi della bambina, Lulu, secondo una promessa che May le aveva strappato quando ancora aveva in grembo la figlia. Per diversi anni, tutti furono assorbiti dai progressi di Lulu e Louisa, senza più preoccupazioni economiche, poteva godersi la crescita della nipotina per la quale scrisse favole e racconti. Il 24 ottobre 1882, Bronson ebbe un ictus che lo paralizzò e, per diversi mesi, lo privò della parola e Louisa dovette rientrare ancora una volta da Boston per prendersi cura di lui, comunque aiutata anche dalla sorella Anna. Nel dicembre del 1884, iniziò a lavorare ai Jo’s Boys, l’ultimo atto della saga sulla famiglia March, e l’impegno ne esaurì le poche forze rimaste.

Quella del giugno 1886 fu la sua ultima estate a Nonquitt, città costiera del sud-est del Massachusetts, dove Louisa amava trascorrere le vacanze. Nel gennaio del 1887, si trasferì in una casa di cura a Roxbury, appena fuori Boston. Cominciavano a ripresentarsi gli effetti dell’avvelenamento da mercurio, mangiava e dormiva male. Durante questo periodo, che lei stessa definisce di forzato isolamento, scrisse le sette storie che compongono la raccolta Una ghirlanda per ragazze.

Il 1° marzo 1888, sapendo che la fine del padre era vicina, Louisa si recò a Boston per fargli visita.

Il 6 marzo 1888, alle 3,30 del mattino, all’età di 55 anni, Louisa May Alcott si spegneva nel sonno, senza sapere di stare seguendo la dipartita del padre di soli due giorni.

Riposano entrambi nel cimitero di Concord, Sleepy Hollow.

Tratto da “Non ho paura delle tempeste. Vita e opere di Louisa May Alcott”, di Romina Angelici, Flower-ed.

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Lizzie Leigh

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Il racconto di Lizzie Leigh nasce come storia a puntate pubblicata da Elizabeth Gaskell sul primo numero della rivista di Dickens, nel 1850. La cara Sherazade sapeva come tenere avvinti i lettori con la straordinaria malia delle sue parole e toccando la più commovente delle corde del cuore: quella dell’amore materno.

Anche se è intitolato a Lizzie Leigh la vera protagonista di questo racconto è la madre di lei, che fa di tutto pur di trovare la figlia persa, ripudiata perché a sua volta disonorata. Dopo la morte del marito la donna si riappropria della sua vocazione di madre e in quanto tale parte alla ricerca della sua pecorella smarrita, per ricondurla all’ovile, per ricostituire la famiglia originaria, andata distrutta.

La costanza della povera donna, divisa tra il rispetto per il marito e lo stesso tenero affetto per gli altri figli maschi, è toccante e induce alla partecipazione piena della sua vicenda.

Come gli eventi della trama si incastrano in modo anche fin troppo forzato, così l’intento didascalico-morale è abbastanza evidente.

 

Molti cuori benedicono Lizzie Leigh, ma lei, lei continua a pregare per il perdono, un perdono che potrebbe permetterle di rivedere la sua bambina ancora una volta. Mrs Leigh è tranquilla e felice. Ai suoi occhi Lizzie è qualcosa di prezioso, come il pezzo d’argento perduto e ritrovato. 

 

Il tema della ragazza perduta, ingenua e sfiorita, è un tema molto caro a Gaskell che si dimostra sensibile forse per il fatto di essere sia donna sia madre di quattro figlie e fors’anche per la realtà sociale che si è trovata a dover conoscere durante gli anni vissuti a Manchester.

Scritto tre anni prima di Ruth, le analogie sono evidenti e sembra che Gaskell stia prendendo le misure per comporre poi il romanzo più grande sviluppandone il tema.  Questo racconto, proprio per la brevità, è incentrato sulla vicenda individuale come se di un dramma si fosse voluto dare una singola voce, concentrandosi su una parte del tutto, isolandola rispetto alla complessità dei soggetti coinvolti.

Di fatto l’intransigenza dei valori patriarcali può essere smussata con gli insegnamenti religiosi come la comprensione, la fede, l’amore, il perdono di cui è scelta come detentrice la donna.

Subito dopo Lizzie Leigh che Dickens lesse con avidità, arrivò un altro racconto, Il pozzo di Pen-Mortha, che ripropone il tema dell’ingiusto trattamento subito dai più sfortunati, nella fattispecie sempre una ragazza molto bella che prima è corteggiata e ammirata e poi, dopo essere rimasta zoppa in seguito a una caduta, scansata e dimenticata.

 

Se c’è un senso di ineluttabilità nella piega crudele che prende la vita, soprattutto quella degli umili, c’è anche la incondizionata fiducia nella parola divina, consolatrice e giusta. Il messaggio finale è positivo, l’ammissibilità di un riscatto è dimostrato dall’epilogo indicato in entrambe le vicende e lo stesso sacrificio viene considerato passaggio necessario in una prospettiva escatologica.

 

Ottima edizione.

Lizzie Leigh

Elizabeth Gaskell

Elliot Edizioni

Traduzione e cura di Massimo Ferraris

 

 

Bicentenario George Eliot: biografia

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George Eliot non è una scrittrice facile e si porta dietro la scomoda nomea di dotta e impegnata, in realtà è una donna che ha attraversato grandi conflitti interiori, in principal modo ha sperimentato in prima persona la apparente contraddizione tra l’educazione e i principi secondo i quali è stata allevata e la vita che ha condotto. Per questo la sua stessa vita potrebbe costituire benissimo la trama di un romanzo.

Il fascino irresistibile esercitato da questa scrittrice è la combinazione speciale tra la sua superiore intelligenza e un profondo senso di empatia umana che l’ha portata a comporre pagine di autentica poesia sotto la vigile guida di una mente rigorosa.

Questa secondo me è George Eliot e come tale in queste pagine cercherò di farla conoscere nella biografia uscita il giorno del bicentenario della nascita

22 novembre 1819 – 22 novembre 2019

 

Louise Jane Goode Romer Jopling Rowe

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Questo bellissimo dipinto si intitola  Serenity ed è di Louise Jane Goode Romer Jopling Rowe.
La prima particolarità sono tutti questi cognomi dovuti al fatto che si è sposata 3 volte nell’arco di quasi un secolo, tanto è durata la sua vita (90 anni per la precisione).
Nata a Manchester, il 16 novembre 1843 è stata una pittrice e una poetessa ed è considerata una delle più versatili artiste dell’epoca vittoriana. Nel circolo da lei frequentato a Londra, bazzicava anche Oscar Wilde!
All’età di 17 anni, Louise sposò Frank Romer, il suo primo dei tre mariti. La coppia si trasferì a Parigi dove Louise iniziò a studiare arte, ma dopo poco il marito la lasciò. Questo spinse Louise a tornare in Inghilterra. Dopo la morte di Romer nel 1872, fu libera di sposarsi di nuovo. Nel 1874, Louise sposò Joseph Middleton Jopling, un artista dell’acquerello autodidatta che lavorava con Vanity Fair ed esponeva regolarmente alla Royal Academy. Durante il suo secondo matrimonio, la carriera pittorica di Louise prosperò e fu la principale fonte di guadagno per la famiglia. Joseph Jopling morì nel 1884 e lei tre anni più tardi sposò l’avvocato George W. Rowe.
“Quello che so, l’ho imparato principalmente da sola. Duro lavoro e il genio che proviene da infiniti dolori, l’occhio per vedere la natura, il cuore per sentire la natura e il coraggio di seguire la natura: queste sono le migliori qualifiche per l’artista che vorrebbe avere successo.” Louise Jopling
Sulla carta, ha pubblicato un libro che parlava di arte, un’autobiografia intitolata Twenty Years of My Life, e moltissime poesie.
Sulla tela invece, le sue opere più famose sono “Five O’Clock Tea” e ha partecipato a mostre internazionali, a Parigi e a Filadelfia.
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Fu molto impegnata per la causa femminista a sostegno della parità dei diritti tra uomo e donna.
Louise fondò la Jopling School of Painting per donne. La scuola che ha fornito alle donne gli stessi studi di altre istituzioni. Ha cercato di creare un ambiente di apprendimento che accogliesse le donne che cercavano di padroneggiare l’arte della pittura. Per Louise, la scuola non era solo un modo per guadagnarsi da vivere, ma offriva un’esperienza unica e arricchente.
Ha anche ricoperto il ruolo di vicepresidente della Healthy and Artistic Dress Union, che sosteneva un abbigliamento meno restrittivo.
Il suo lavoro si collegava al movimento estetico dell’era vittoriana, al femminismo e al japonisme. Raffiguranti donne in abiti più moderni, i suoi dipinti spesso contraddicono le tradizionali raffigurazioni della femminilità in pose passive, dimesse (in particolare con il ritratto). Tuttavia, non erano così palesi da attirare disapprovazione o essere esclusi dalle mostre.

Di fatto, con lei, non solo le donne irrompono nel campo della pittura ma iniziano anche a rappresentare i soggetti femminili come icone moderne finendo per cambiare la rappresentazione prevalente della femminilità.

Evelyn Pickering De Morgan

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Evelyn De Morgan è il cognome da sposata della pittrice che in realtà si chiamava Mary Evelyn Pickering.  Nata nel 1855 da genitori dell’alta borghesia, fu educata in casa dove ottenne di ricevere lezioni di pittura all’età di 15 anni.

In linea con le convenzioni della classe media dell’epoca le fu impartito insieme ai suoi fratelli,  un insegnamento basato su latino, greco, francese, tedesco e italiano, così come sulla letteratura classica, mitologia e scienze, materie raramente disponibili per le ragazze della sua età. Anche la religione ha svolto un ruolo importante nell’educazione dei bambini di Pickering, insegnata dai pastori che hanno visitato la casa con la stessa regolarità dei tutor. Nonostante la stessa madre di Evelyn sia cresciuta in una famiglia di artisti, aveva una visione conservatrice sul posto dell’arte nell’educazione della figlia che ha trovato nella poesia il mezzo per poter esprimersi di cui esiste una raccolta conservata dalla De Morgans Foundation.

 

Wilhelmina Stirling, nella biografia della sorella maggiore, riferisce che i suoi genitori hanno respinto il desiderio di Evelyn di diventare una pittrice; la loro madre era solita dire che voleva una “figlia, non un’artista” e per far ciò, avrebbe suggerito al tutor di disegno di dire a Evelyn che non era abbastanza brava, nella speranza che lei rinunciasse al suo sogno. Evelyn si affidò allora al sostegno di suo padre il quale sostenne concretamente la sua ambizione, poiché iniziò a pagarle lezioni private di disegno con un insegnante di nome Green negli anni 1870 e le permise di viaggiare accompagnata dallo zio artista -il pittore tardo vittoriano John Roddham Spencer Stanhope- in Francia e in Italia per studiare da dipinti di antichi maestri. Senza questo supporto, non avrebbe avuto i mezzi per perseguire la sua carriera.

La mattina del suo diciassettesimo compleanno, annotò sul diario: “L’arte è eterna, ma la vita è breve…”, “Ora vi porrò rimedio, non ho un momento da perdere”. Cercò di convincere i genitori a mandarla a una scuola di arte; dapprima la dissuasero, ma poi, nel 1873, la iscrissero alla Slade School of Fine Art. Invece di seguire i soggetti classici studiati nella scuola, dove peraltro aveva vinto diversi riconoscimenti e una borsa di studi a cui rinunciò perché le comportava di disegnare nudi, sviluppò un proprio stile ispirandosi a Botticelli, da cui era rimasta colpita a Firenze dove andava a trovare lo zio , sia subendo il fascino dello spiritismo.

La prima opera che Evelyn De Morgan espose fu Santa Caterina d’Alessandria (1875) alla Dudley Gallery di Londra, nel 1876. Fin dall’inizio, avrebbe combattuto contro gli atteggiamenti sessisti del mondo dell’arte e si sforzò di essere riconosciuta per la sua abilità, piuttosto del suo genere.

Un giornalista di Guardian recensì il dipinto, commentando che:

“S. Caterina d’Alessandria … di un’artista di nome Evelyn Pickering che, sorprendentemente per più motivi, è una signora … non mancherà di affermare i suoi meriti come una figura estremamente ben posata, riccamente colorata e soprattutto espressiva “.

 

Dopo aver venduto due opere a personaggi dichiaratamente conservatori, ricevette l’invito a mostrare i suoi quadri alla Grosnover Gallery di Londra dove continuerà a farlo dal 1877 in poi.

 

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Dopo un brevissimo fidanzamento si unì infatti in matrimonio nel 1887 con il ceramista e novellista William De Morgan, collaboratore di William Morris, che ha sedici anni più di lei.

Fin dall’infanzia, Evelyn era stata preoccupata dall’onnipresenza della morte nella vita. La sua poesia giovanile rivela la sua prima comprensione della dottrina cristiana della resurrezione e i suoi dipinti presentano il suo successivo interesse per lo spiritismo e il mistero dell’anima umana. Attraverso il suo matrimonio con William De Morgan, Evelyn fu presentata a sua madre, Sophia, autrice di From Matter to Spirit (1863) e sostenitrice della riforma sociale e un medium spirituale praticante. Sembra che l’affermazione della sua visione del mondo da parte della suocera abbia incoraggiato Evelyn a usare le sue immagini per presentare i suoi ideali spirituali.

Tutti i proventi di lei andavano a finanziare le attività in ceramica del marito, che fu anche romanziere, a cui contribuì anche con le idee. Lei a sua volta era sponsorizzata da William Imrie, magnate delle spedizioni scozzese e proprietario della White Star Line, quella che ha creato il Titanic. In totale, Imrie ha acquistato otto tele di Evelyn e probabilmente ha avuto voce in capitolo nello stile di immagine che desiderava acquistare.

I coniugi De Morgan, pacifisti,  vissero insieme tra Londra e Firenze per quasi tutta la prima decade novecentesca: per motivi di salute devono trascorrere ogni inverno in Italia in cerca di un clima più favorevole. Si  stabilirono definitivamente in Inghilterra con il primo conflitto mondiale. Verso la fine della carriera Evelyn De Morgan dipinge diverse allegorie relative alla prima guerra mondiale, esibendole per raccogliere fondi per la Croce Rossa.

Morì il 2 maggio 1919, a Londra, a distanza di due anni dal marito.Durante i suoi 50 anni di carriera come artista professionista, Evelyn ha completato circa 100 dipinti ad olio, 56 dei quali sono conservati nella collezione della De Morgan Foundation, insieme a un’incredibile collezione di suoi disegni preparatori e schizzi che dimostrano il suo talento, la produzione e il lavoro meticoloso metodo per creare immagini così belle e uniche.

Flora(1894) è la foto più celebre di Evelyn. La figura di Flora è chiaramente basata sulla Primavera di Botticelli, ma Evelyn l’ha circondata da una vegetazione lussureggiante, fiori, uccelli e vesti avvolgenti per renderla iconica, immediatamente riconoscibile. È un dipinto tecnicamente perfetto, che mette in mostra la sua abilità e padronanza del mezzo di pittura a olio su tela.La luminosità abbagliante dell’immagine è stata raggiunta con un uso innovativo di oli colorati su foglia d’oro, un metodo di sua invenzione, preso in prestito da pale d’altare medievali rinvenute nella città di Firenze, a cui questa immagine è un’ode. Flora è la dea della primavera e della città di Firenze, dove Evelyn visse durante l’inverno dal 1890 in poi. Il rotolo ai piedi dell’immagine fa riferimento alla Scozia, la città natale di Imrie, e riconosce quindi la direzione impressa da parte del patrono.

Le sue tele riccamente colorate con figure splendidamente drappeggiate, trasmettono messaggi di femminismo, spiritualità e il rifiuto della guerra e della ricchezza materiale, rendendole incredibilmente rilevanti oggi.

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Una ghirlanda per ragazze

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Nel gennaio del 1887, Louisa May Alcott si trasferì in una casa di cura a Roxbury, nel Massachusetts, appena fuori Boston; mangiava male e spesso aveva un sonno irrequieto che non la lasciava riposare: erano entrambi gli effetti del mercurio. Le mancava la sua famiglia e soffriva le loro mancate visite.

Durante questo periodo, che lei stessa definisce di forzato isolamento, deve aver composto i racconti intitolati Garland for girls (Una ghirlanda per ragazze): è una raccolta pubblicata nel 1887, diciannove anni dopo Piccole donne e oggi Flower-Ed la inscrive nella sua collana di Five Yards che ospita testi classici della letteratura inglese e americana, come in questo caso. Mai apparsa in italiano, Una ghirlanda per ragazze è stata tradotta da Riccardo Mainetti e ci riporta a quel tenero mondo di piccole forti donne, mai disposte a perdersi d’animo contro le avversità della vita facendo tesoro dei talenti che la natura comunque ha donato loro.

Louisa May Alcott scrisse le sette storie che compongono la raccolta durante la convalescenza da una malattia, ispirandosi per ciascuna di esse a un fiore diverso usato come pretesto per tratteggiare il carattere delle protagoniste. È lei stessa a presentarcele:

Queste storie sono state scritte per mio personale diletto durante un periodo di forzato isolamento. I fiori che erano mia consolazione e mio piacere mi hanno suggerito i titoli per i racconti e hanno fornito maggior motivo d’interesse al mio lavoro. Se le mie ragazze troveranno un poco di bellezza e di calore solare in questi piccoli boccioli, la loro vecchia amica non avrà creato la sua Ghirlanda invano”. L. M. Alcott. Settembre 1887.

Mi sembra di ritrovare quello spirito didascalico e il tono materno di Piccole donne, di chi parla credendo nei buoni sentimenti e nutrendo una speranzosa fiducia nella Provvidenza, e non per obbedienza alle esigenze di mercato. Ancora una volta questi racconti diventano occasione di celebrazione dell’affetto sororale come precipua fonte di sostegno morale fino all’abnegazione (ulteriore e indiretta testimonianza del forte legame tra le sorelle Alcott).

Gli argomenti dei vari racconti sono in realtà diversi, di evidente interesse autobiografico, e vanno dalla celebrazione dell’amore per i libri a quello per i viaggi, il ballo, il disegno. Le storie hanno la particolarità -che diventa anch’essa nota autobiografica- di contenere tantissime e frequenti citazioni letterarie ad altri autori, per lo più europei, a dimostrazione della vasta preparazione di Louisa che davvero aveva letto di tutto. È menzionato Scott durante un viaggio che tocca anche la Scozia, George Eliot viene inclusa tra le letture meritevoli, è affermata la superiorità di Maria Edgeworth tra le scrittrici moderne, per fare qualche esempio.

Ornarsi di un pregio diventa l’equivalente dell’ornarsi di un bel fiore e conduce al rifulgere dello stesso stupefacente sbocciare partecipando del suo significato simbolico. Ecco sfilare dunque un assortito campionario di donnine ammodo nella ghirlanda dei suoi racconti, intrecciata da sapienti e benevole mani che conoscono l’effimero fascino del papavero e il duraturo valore delle spighe di grano, sorridono accarezzando un incantevole bocciolo di rosa, regalano mazzetti di biancospini e sollievo ai meno fortunati.

Li percorre uno spirito provato ma fiducioso, un tono benigno e uno sguardo compassionevole, conscio delle tante difficoltà di cui è disseminata la vita, specie per le giovani ragazze ma certo delle loro innumerevoli risorse per superare con buona grazia e buon carattere gli ostacoli frapposti al loro cammino. La traduzione sa esprimere tutto questo così bene, restituendoci la delicatezza femminile e la premura materna contenute in queste pagine. L’incoraggiamento allora diventa anche insegnamento morale:

Il dovere è una cosa giusta ma non è una cosa facile e l’unica cosa che rinfranchi al riguardo è una sorta di sentimento di pace che ti avvolge dopo un po’ e la forte convinzione di aver trovato qualcosa di cui occuparsi e che vi mantenga salde.

Caro nemico di Jean Webster

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Dopo aver letto la versione integrale di Papà Gambalunga, tradotta da Enrico De Luca e Miriam Chiaromonte, per Caravaggio Editore, non ho resistito alla tentazione di prendere una vecchia pubblicazione del suo seguito, Caro Nemico.

Pur nella limitatezza della traduzione ho avuto modo di confermare l’apprezzabilità contenutistica e la continuità del progetto unitario tra i due volumi.  In attesa  di gustare la versione integrale di questo sequel, volevo lasciarne qualche impressione.  

Caro nemico (Dear Enemy) è un romanzo epistolare della scrittrice statunitense Jean Webster, pubblicato nel novembre 1915. L’autrice ha illustrato personalmente il libro, come in Papà Gambalunga. Si tratta del sequel i cui protagonisti differiscono. Infatti in Caro nemico la protagonista è Sallie McBride, amica e compagna di stanza all’università di Judy Abbott che  racconta le sue vicende di direttrice dell’Orfanatrofio John Grier, sotto forma di lettere scambiate per la maggior parte con Judy, ormai felicemente sposata con Jervis Pendleton, che insieme le hanno dato questo incarico. Gli altri destinatari delle lettere sono il dottore dell’Istituto, Robin McRae, appellato come Caro Nemico, perché è sempre pronto a rimproverarla e con il quale sono frequenti accesi scambi, o meglio scontri, di vedute,  e il suo fidanzato ufficiale, Gordon, un famoso e impegnato uomo politico che poco si cura degli orfani e dei loro bisogni.

 

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Dopo aver superato la frattura narrativa rispetto a Papà Gambalunga, la brillante vita del college, le amicizie e gli amori di ragazzi adolescenti, si finisce per affezionarsi anche a Sally con i suoi 104 orfanelli e alle sue beghe quotidiane che vanno dall’introduzione di una dieta nutriente all’abolizione dei detestabili grembiulini a quadretti, reperire nuove vasche da bagno, domare un incendio e cercare famiglie adottatarie.

Nelle lettere di Sally si ritrova la vecchia voce amica della narratrice che trova il modo di esporre i principi pedagogici in cui crede con qualche concessione alla sua ideologia femminista. Il segreto che dopo aver letto l’ultima pagina ci fa amare Sally non meno di Judy credo sia proprio la penna che hanno in comune e che a entrambe ha dato voce creando due modelli di giovani donne affatto frivole o superficiali ma impegnate e convinte di poter migliorare la società, oltre che se stesse, contro i pregiudizi e gli ostracismi maschili.

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Mi sembra che possa essere la stessa Sallie  a spiegare dove risiede la bellezza di questo libro quando descrive la bellezza del suo lavoro:

Mia cara Judy,

[…] Ho ereditato uno spirito molto combattivo dai miei antenati scozzesi e irlandesi. Se tu mi avessi messa in un orfanatrofio moderno, formato di graziose villette pulite, igieniche e ben funzionanti, non avrei potuto sopportare il lavoro metodico e monotono che avrei dovuto svolgervi. Ma se sono rimasta qui, è stato proprio perché ho visto che c’erano tante cose che non andavano e tante trasformazioni da operare. Ti confesso che, a volte, svegliandomi la mattina e sentendo i rumori e gli odori di questo istituto, mi prende una gran nostalgia di quella vita felice e spensierata che potrebbe essere mia. … ma appena esco nel corridoio mi viene incontro uno di quei commoventi piccini che timidamente infila nella mia la sua manina calda e chiusa e mi guarda con quei suoi grandi occhi innocenti che silenziosamente chiedono una carezza. Allora… sento il desiderio di stringerli sul cuore tutti quanti e di renderli felici col mio amore. Per quanto ci si possa ribellare, si resta come soggiogati da questo lavoro per i bambini e si finisce per esserne conquistati.  

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Dalla biografia di Jean Webster, composta da Sara Staffolani, intitolata C’è sempre il sole dietro le nuvole, si apprendono i riferimenti autobiografici  e che “Questa sua ultima opera riflette in maniera più sofisticata il tentativo dell’autrice di mettersi in relazione con un mondo moderno che sta cambiando velocemente. …

Questa storia sembra essere stata ispirata proprio dal tormentato Glenn McKinney. Probabilmente ella ha tratto ispirazione dal marito nel tratteggiare il complesso personaggio di Robin”.

 

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Buona lettura!

Il linguaggio dei fiori

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In teoria non sono una grandissima appassionata di fiori né ho il benché minimo pollice verde (e nemmeno “il mignolo”), di fatto però mi sono ritrovata per ben due volte a scrivere racconti in cui il linguaggio dei fiori svolgeva un ruolo determinante nell’intreccio della storia. Nel mio primo romanzo Regency, che si intitola Intrighi d’amore a Villa Roseburn era un mezzo di tulipani screziati a creare scompiglio nella casa di Lady Olivia: nella simbologia dei fiori il tulipano è quello che rappresenta il vero amore e la varietà screziata in particolare, reca come messaggio quello di indicare la bellezza degli occhi di chi li riceve in dono. Mi è sembrato naturale perciò immaginare una trama che si svolgesse attorno al tema dell’amore, giocando sulla possibile identità del corteggiatore innamorato e soprattutto della fortunata.

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Nel caso de La debuttante dell’Essex ho attinto più di una volta al significato dei fiori. Prima per scegliere il nome di Lady Celandine: la Celidonia è una pianta medicamentosa, dalle molteplici proprietà terapeutiche, sulle cui origini ci sono tante leggende di origine greca e romana. Essendo, infine, una pianta primaverile dai fiori di colore giallo era ritenuta indice della benevolenza degli Dei.

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Per sapere se durante l’estate i raccolti avessero dato i frutti sperati, si attendeva che sbocciassero i fiori di celidonia come segno di buon auspicio. Nel linguaggio dei fiori e delle piante la celidonia simboleggia il preannunciarsi di un lieto evento e la fine delle sofferenze. Poiché quindi la zia Cyd, come la chiamano i nipoti Alex e Andrew, è bravissima a risolvere tutti i guai che loro combinano, mi è sembrato che il significato della celidonia andasse bene per indicare le sue capacità benefiche.

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Inoltre, verso la fine del romanzo, fa la sua comparsa anche qui un mazzo di fiori dal significato sibillino: si tratta di un mazzo di calle punteggiato di piccoli fiori gialli che dovrebbe far capire a chi è destinato effettivamente e con quali intenzioni.

Le calle infatti nella simbologia dei fiori veicolano un messaggio di purezza e di candore e il loro uso in correlazione alle nozze è da far risalire alla mitologia greca, secondo la quale questo fiore sarebbe nato dalle gocce di latte materno di Era, la dea del matrimonio.

Ma non voglio svelarvi troppo per non rovinare il finale.