Archivio | ottobre 2018

Il padre di Elizabeth von Arnim

 

Ogni libro di Elizabeth von Arnim racchiude un mondo che non solo non ci si annoia mai di stare a guardare, ma nel quale è facile ritrovarsi completamente immersi. Le situazioni rappresentate sono sempre diverse, originali e trattate con ironia.

In questa storia i personaggi sono pochi: Jen, suo padre, Netta, James e Alice; l’intreccio particolarmente semplice, eppure attraverso il discorso indiretto libero, è possibile vivere la stessa situazione da cinque diversi punti di vista e angolazioni.

La condizione di Jennifer è piuttosto ordinaria: superati i trent’anni e legata al padre, oltre che dal vincolo di obbedienza, da una promessa fatta alla madre in punto di morte di prendersi cura di lui, si ritrova inaspettatamente libera quando lui decide a sua insaputa di sposarsi con una ragazza molto più giovane, tra l’altro. Jennifer decide che un cottage in campagna è la sistemazione perfetta per cominciare la sua nuova vita e seppure vada in cerca solo di un rifugio solitario e appartato, piomba nel ménage del pastore Mr. Ollier e sua sorella Alice, che affittano il cottage di pertinenza della canonica, e finisce per sconvolgere le loro tranquille esistenze. Una volta assaporata l’ebbrezza della libertà, rifugge istintivamente da ogni altro tentativo di imbrigliarla in un nuovo giogo: così si sente quando Mr Ollier la bacia sotto al melo.

Passando dai più reconditi pensieri dell’uno e dell’altro, inconfessabili persino a se stessi, riproposti senza filtri e in modo esilarante, Elizabeth von Arnim ottiene il duplice effetto di fornire un esauriente quadro d’insieme e di divertire immensamente.

Se il padre rappresenta il tipico maschio vittoriano che spadroneggia sulla vita delle donne, come nota Carmela Giustiniani nella biografia di Elizabeth von Arnim, Chiamatemi Elizabeth, nella canonica i ruoli sono apparentemente rovesciati perché all’interno delle mura domestiche è Alice a prevaricare il remissivo fratello. Ma a prescindere dalla diversa caratterizzazione, la condizione femminile è parificata dallo stesso stato di dipendenza da cui le donne possono affrancarsi solo attraverso il matrimonio, unica soluzione socialmente accettabile. La fuga di evasione di Jennifer è di breve durata e sul finale aleggia più di un’ombra.

Nessun’ombra invece sulla piacevolezza della lettura di un romanzo che conferma senz’altro la brillantezza della sua autrice.

I Misteri del Castello di Udolfo, di Ann Radcliffe, 1794.

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Questo romanzo può considerarsi parte integrante de L’Abbazia di Northanger, che ne costituisce l’esatto controcanto: non solo è continuamente menzionato, come lettura in corso delle due ragazze che si scambiano giudizi e opinioni a riguardo, ma insiste dietro le quinte dell’intera storia come paradigma letterario che viene puntualmente smentito e parodiato.

Ma, mia carissima Catherine, che cosa hai fatto per tutta la mattinata? Sei andata avanti con Udolpho?”

“Sì, l’ho letto da quando mi sono svegliata, e sono arrivata al velo nero”.

“Davvero? Che bello! Oh! Per nulla al mondo ti direi che cosa c’è dietro il velo nero! Non muori dalla voglia di saperlo?”

“Oh! sì, eccome; che cosa può esserci? Ma non dirmelo, non voglio sapere nulla. So che dev’essere uno scheletro, sono sicura che è lo scheletro di Laurentina. Oh! Il libro mi piace tantissimo! Passerei la vita a leggerlo. Ti assicuro che se non fosse stato per incontrare te, non me ne sarei staccata per tutto l’oro del mondo.”

“Tesoro mio! Quanto ti sono riconoscente; e quando avrai finito Udolpho, leggeremo insieme l’Italiano; e ho buttato giù per te una lista di dieci o dodici titoli[1] dello stesso genere”[2].

Dal canto suo il romanzo della Radcliffe contiene tutto il campionario di situazioni inquietanti, ambientazioni lugubri, presenze sinistre, atmosfere di disfacimento e allarmanti, nonché di tipologie umane dal prototipo dell’arcigno e complottista Montoni, ai brutti ceffi di cui si contorna, i nobili decaduti nella scala sociale e nella dignità, alle rappresentanti del gentil sesso, in preda ai capricci e al volere del padrone di casa, occupate prevalentemente a svenire di continuo. Certi eccessi facevano sorridere Jane Austen che non poteva non parodiarli, anche perché il romanzo gotico stava lentamente passando di moda, ma questo le costò la chiusura in un cassetto della sua Abbazia di Northanger da parte dell’editore che l’aveva inizialmente acquistata, forse per timore che questo tipo di romanzo non fosse abbastanza apprezzato dal pubblico, abituato a tutt’altro.

I misteri di Udolpho però, non è soltanto un racconto del terrore, perché riserva una notevole dose di ironia e raziocinio, almeno in quei capitoli di raccordo in cui la voce del narratore interviene ad attribuire un nome e una spiegazione a tutti gli accadimenti apparentemente inspiegabili che occorrono nel castello, fugando il più delle volte i motivi di inquietudine e gli interventi soprannaturali sospettati e riportando i fatti al ragionevole ordine delle cose.

Se dunque i continui svenimenti di Emilia, della zia, della serva Annetta, sono rintracciabili nei primi componimenti degli Juvenilia (in particolare in Amore e amicizia), le puntualizzazioni ironiche di certi incisi si ritrovano nondimeno nella prosa di Jane Austen e forse si capisce da dove è stato tratto il titolo della stesura iniziale di Orgoglio e pregiudizio:

[Sant’Aubert] Procurò dunque di fortificare il di lei carattere, di suefarla a signoreggiare le inclinazioni ed a sapersi dominare: le insegnò a non cedere tanto facilmente alle prime impressioni e a sopportare con calma le infinite contrarietà della vita.

Un insegnamento che Jane aveva dovuto imparare presto.

[1] The Italian (1797, della stessa autrice), Il Castello di Wolfenbach e Misteriosi Presentimenti (1793 e 1796, di Mrs. Parson), Clermont (1798, di Regina Maria Roche), Il negromante della Foresta nera (1794, di Peter Teuthold), Campana di Mezzanotte (1798, di Francis Lathom), L’orfana del Reno (1798, di Eleanor Sleath), Orridi  Misteri (1796, di Peter Will).

[2] Jane Austen, L’Abbazia di Northanger, trad. Giuseppe Ierolli, jausten.it, sez. “romanzi canonici”, cap. 6.