Archivio | gennaio 2017

La casa nella brughiera di Elizabeth Gaskell – Edizioni Croce

14429356_606409076203700_1162670576_nSi può facilmente capire come Elizabeth Gaskell detestasse scrivere su ordinazione e con un doppio vincolo: di tempo e di tema. Dickens le commissionò infatti un racconto natalizio che esaltasse la nobiltà d’animo ed ella non fu molto soddisfatta del risultato, almeno finché non vide le recensioni positive.

Dopo Canto di Natale Dickens avrebbe voluto una storia di buoni sentimenti, in cui la virtù viene premiata e il cattivo si redime ritornando sulla retta via, ma imporre anche il finale alla sua Sherazade sarebbe stato veramente troppo!.

Mi immagino Elizabeth Gaskell accomodata in una poltrona, circondata, come a volersi sentire rassicurata, dai suoi inseparabili compagni: i suoi più cari amici e una pila di libri, persa dietro a qualche sogno avventuroso. The Moorland Cottage è infatti infarcito di citazioni dei suoi poeti preferiti (Wordsworth, Tennyson, Burns) e di riferimenti alla letteratura tedesca i cui rigori sono stemperati da idealistiche incursioni donchisciottesche.

E cosa c’è di meglio di una coppia di fratellini da prendere a prestito da una fiaba per imbastire una storia? Il plot e l’atmosfera sembrano ricalcare quelli tipici della fiaba, anche se nel proseguo dovesse rivelarsi più adatta a un pubblico adulto piuttosto che a dei bambini.

L’inizio di questo racconto con la descrizione del cottage nella brughiera come di un quadretto rurale arcadico e la coppia di fratelli Maggie ed Edward molto legati fra loro, mi ha ricondotto presso un’altra radura attraversata in quel caso da un corso d’acqua:

Ed ecco il mulino di Dorlcote. Anche per questo tempo spoglio del finir di febbraio, è piacevole a vedersi: forse che la stagione un po’ fredda e umida aggiunge fascino alla casa civile ben tenuta ed accogliente, antica quanto gli olmi ed i castani. La corrente ora è gonfia, e invade questa breve piantagione di salici, e quasi sommerge il ciglio erboso del prato di fronte alla casa (George Eliot, Il Mulino sulla Floss).

Molto facile confondersi tra le due vicende, scritte l’una a dieci anni di distanza dall’altra.

Il cupo presagio che grava sulla casa dei Tulliver viene diradato dalla cornice idilliaca in cui invece viene inserita La casa nella brughiera. Eliot e Gaskell finiscono entrambe per parlare di istruzione e di ruoli maschili e femminili nella società vittoriana e sottolinearne, pensando di essere non viste, la sperequazione.

Sii ubbidiente, ti dico. Questo è ciò che una donna deve essere”: ecco racchiuso in questo monito, rivolto da Edward alla piccola Maggie, il gretto maschilismo vittoriano impartito sin da piccoli alle giovani menti.

Quelle che potrebbero essere qualità e capacità migliori delle ragazze, in entrambi i casi vengono sacrificate a favore dei rispettivi fratelli che per un motivo o per l’altro non lo meritano. E in tutte e due le situazioni il sacrificio è legittimato, se non addirittura imposto, proprio dalla figura materna, la cui parzialità a favore del figlio maschio diventa oltremodo vessatoria e fastidiosa alla lettura.

[Maggie] scivolava al suo eterno secondo posto: che amarezza in queste parole!

L’ineluttabilità che avvolge i destini dei fratelli Tulliver e li travolge tra i flutti della Floss, viene invece contrastata dall’immagine simbolica del biancospino nella brughiera sotto i cui rami odorosi Maggie Browne corre a rifugiarsi ogni volta che desidera stare da sola a pensare. Quella piccola oasi incontaminata e ricorrente, emblema di purezza e saldezza morale, diventa il baluardo di tutto il racconto, simboleggiando la fermezza e la resistenza di Maggie a ogni attacco e a ogni tentazione.

Ma Maggie Browne non è sola e impotente come l’omonima eroina di George Eliot: se sua madre non ha saluto apprezzarla e valorizzarla a dovere, ci hanno pensato altre due figure gentili, più elevate non solo per estrazione sociale ma anche per vedute e nobiltà di pensiero. Si tratta di Mrs Buxton e il figlio Frank che accolgono e riservano ogni riguardo e premura alla piccola Maggie intuendone subito lo spirito di sacrificio e la rettitudine morale. La presenza di questi personaggi positivi (che nelle fiabe intervengono sempre appunto per contrastare i piani dei cattivi o comunque per ribaltare le sorti), la vicinanza con la residenza dei Buxton, la venerazione della ragazzina sia verso la madre sia verso il figlio, fanno pensare a quella tenera amicizia che nasce spontaneamente tra Molly Gibson e gli Hamley e hanno fatto giustamente scrivere a Mara Barbuni, nel suo saggio Elizabeth Gaskell e la casa vittoriana che questo bellissimo racconto del 1850 “anticipa il canovaccio della storia familiare di Hamley Hall” del successivo Mogli e figlie.

Come per le precedenti opere della collana Participio Passato, Edizioni Croce impreziosisce le sue pubblicazioni con un pregevole contributo esplicativo e di approfondimento, raddoppiando il piacere della lettura e della conoscenza, in questo caso curato da Raffaella Antinucci. Imprescindibile e insostituibile strumento per comprendere appieno l’opera.

 

Romina Angelici

Il desiderio lieve di Bianca Rita Cataldi Pink Books

Il desiderio lieve (Pink Magazine Italia Vol. 3) di [Cataldi, Bianca Rita]

Un desiderio lieve è qualcosa di leggero e delicato, come questo racconto di Bianca Rita Cataldi che introduce nel suo mondo interiore in continuo fermento:

Quel desiderio pacato, non dirompente, che spesso provava di fronte a una persona interessante che avrebbe volentieri infilato in un suo racconto. Il desiderio di entrare in contatto con la persona reale dietro il personaggio.

Inevitabile non riconoscerla negli occhi di Laura che cerca di catturare l’anima delle persone che incontra, incrociandone lo sguardo o spiandone le espressioni per indovinarne il passato.

Il desiderio lieve è un singolare doppia storia che però ha un’unica protagonista, Laura e la sua passione per la scrittura. Lei è una ragazza apparentemente come tante, in cui è facilissimo ritrovarsi, con una vita che scorre normalmente, da studentessa universitaria, con il fidanzato Marco, i suoi studi, le amiche, i suoi libri e film preferiti. Parallelamente alla sua, procede il racconto di come nasce un’ispirazione, l’illustrazione di un processo creativo che avviene spontaneamente nella mente e nel cuore della giovane scrittrice. Laura non può fare a meno di vivere la sua vita in stretta corrispondenza con la vita degli altri: colleghi di università, passanti, viaggiatori. E le sue emozioni si legano indissolubilmente a loro quando ne scopre la potenzialità di personaggi per le sue storie, personaggi ai quali regalare un’anima e una storia.

Guardava con la coda dell’occhio un viso tirato, degli occhi gonfi, e non si limitava a immaginare la nottata insonne dell’altro, no: indovinava le fattezze della sua notte, ne intuiva le liti e le angosce, le telefonate sospese, e indugiando nel patetismo disegnava le lacrime sui cuscini e fuori appassiti in un vaso. Lei non si limitava a immaginare le vite degli altri: lei le vedeva… con una curiosità sicuramente più intensa di quella che l’accompagnava quando guardava alla sua, di vita.

Il pregio di questo breve romanzo è quello di colpire subito con uno stile essenziale e allo stesso tempo dettagliato: vi sono descrizioni di particolari che nessuno noterebbe se Bianca Rita non ne sapesse svelare i più reconditi significati e implicazioni.

Le suonava dolce quel rientrare, riecheggiava di rumore di stoviglie, pentole e tegami e piatti, il frusciare della tovaglia sul tavolo, il gorgheggiare allegro dell’acqua bollente in attesa della pasta. Rientrare, il profumo del fuoco acceso nel camino, lo spegnersi dell’inverno e l’accendersi del calore domestico, delle pantofole, del pigiama di pile.

Questo tipo di narrazione che procede per fotogrammi e per accostamento di immagini veicola delle emozioni forti e intime allo stesso tempo, che credevamo dovessero rimanere segrete agli altri mentre Bianca le disvela finanche a noi stessi. Un viaggio fluido attraverso suggestive associazioni di idee è quello in cui veniamo con dolcezza attirati.

Il finale ci sorprende quando vorremmo sapere e capire di più i segreti di quell’affascinante mondo a cui la sua mente immaginifica può dare vita; ma anche se per poco, è stato molto bello entrare a farne parte.

Se questo piccolo assaggio vi ha convinto, vi lascio il link per acquistarlo:

Sì, ma cos’è Xingu?!

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(illustrazione di Sara Morante)

Anche senza essere una famosa scrittrice come Osric Dane, personaggio del racconto Xingu di Edith Wharton, può capitare di ritrovarsi nel bel mezzo di una conversazione, più o meno di spessore, e di fingere di conoscerne l’oggetto per la presunzione di non voler ammettere il contrario.

Ebbene sarebbe preferibile confessarlo subito, perché altrimenti potrebbe accadere -come nel romanzo- di trattenersi e dilungarsi parlando a vanvera, attribuire questa o quella qualità all’oggetto in discorso, senza averne la minima cognizione di causa. Ammettendo subito la propria ignoranza, che solo davanti alla legge non excusat, si possono evitare tanti equivoci e brutte figure,  fugare fraintendimenti e giudizi equivoci. In certi casi il silenzio vale più di mille parole.
La romanziera del racconto arriva già annoiata in un salotto bene di signore che formano un club della lettura e proprio quella meno stimata tra loro, la signora Roby, interviene a incentrare la conversazione sul famoso Xingu.  Riesce così  finalmente a destare l’attenzione della scrittrice snob che fino a quel momento aveva saccentemente boicottato ogni argomento proposto.  Costei, interrogata sulla  conoscenza di  Xingu, risponde prontamente di sì, pensando si tratti dell’ultimo libro appena uscito e dovendo  sfoggiare la propria cultura libresca. Viene però trascinata in una intervista che non le svela nulla e che la lascia interdetta, assolutamente ignara ma incuriosita circa Xingu. Alla serie di domande su quanto è lungo, quanto è profondo, i passaggi difficili, dei casi in cui ha cambiato un’intera esistenza, le acute lettrici a turno lasciano cadere le loro impressioni del tutto a casaccio, perché anche loro non hanno la minima idea di cosa sia Xingu. La scrittrice se ne va con la coda tra le gambe decisa a saperne di più. L’equivoco ha il potere di lievitare ma non di rovinare la serata che comunque le signore del circolo considerano vinta. Almeno finché una di loro decide di consultare la piccola enciclopedia che porta sempre con sé e scopre che Xingu è un fiume del Brasile, Paese dove ha vissuto la signora Roby. Si può immaginare facilmente la vergogna di tutte le altre che nella discussione avevano ammesso di averlo studiato e letto l’anno scorso e ad uno ad uno vengono riviste  nella giusta ottica e decodificate tutte le indicazioni raccolte. La lezione è stata però di scarso insegnamento perché nemmeno a questo punto si riconoscono impreparate ma si dichiarano solennemente abbindolate.

Edith Wharton

edith-whartonChissà cosa avrebbe detto oggi, Edith Wharton della sua cara Vecchia New York (per citare uno dei numerosi racconti ispirati alla città natale) perbenista? Certamente, non troverebbe traccia della società bigotta e puritana che descrisse, in un’America che ha da tempo superato L’Età dell’Innocenza e dove una contessa Olenska, che vuole il divorzio dal marito, non desterebbe nessunissimo scalpore. Anche lei, la scrittrice, si separerà dal coniuge, il ricco banchiere Edward Wharton- al quale deve il nome con cui è diventata famosa- sposato a 23 anni, proprio nell’anno in cui termina di scrivere il suo romanzo più famoso (1902).

Edith Newbold Jones nasce il 24 gennaio 1862 in una famiglia della ricca borghesia newyorkese, i nuovi “Bucanieri” ritratti nel suo ultimo romanzo, in cui cinque giovani ragazze, respinte dallo snobismo della buona società, perché la loro fortuna trae origine dal commercio, decidono di partire alla volta dell’Europa in cerca di felicità. Ed è proprio quello che aveva fatto anche lei, quando nel 1910 si era trasferita stabilmente a Parigi, entrando a far parte a pieno titolo di quel salotti culturali e circoli letterari di cui prima, nei numerosi viaggi da oltre oceano, era stata solo gradita e curiosa ospite.

La commistione tra le due culture, americana ed europea, e il tema internazionale -“the international situation” jamesiana- trovano nella Wharton un’ottima rappresentazione, con vividi e sferzanti affreschi di convenzioni ottuse e tradizionaliste (in Madame de Treymes si parla ancora di divorzio difficile da ottenere in America e cercato grazie ai buoni auspici della navigata signora francese).

Un’attenzione tutta particolare viene rivolta al ruolo ora affermato, ora sacrificale della donna. Ne L’Usanza del Paese, il titolo condanna già l’arrivismo e gli arrampicatori sociali nella persona di Undine Spragg, la protagonista: bella e ambiziosa, non si fa scrupolo di calpestare i sentimenti altrui, di strumentalizzare il matrimonio per fini opportunistici, alla spasmodica ricerca del successo e del lusso. La Wharton sa descrivere altrettanto bene le vittime di quella società corrotta e conformista: così Lily Bart sarà condannata per ogni sua minima imprudenza dai benpensanti ipocriti e omertosi che la circondano ne La Casa della Gioia.

Importantissima e sincera sarà l’amicizia con Henry James, che incontra a Parigi per la prima volta in casa di amici e di fronte al quale rimane ammutolita (per poi essere sua ospite nella casa del Sussex e ricambiare a sua volta l’invito in America) e con il quale non perderà i contatti fino alla morte. Proficui gli scambi e gli influssi letterari reciproci: Edith Wharton ricalca i temi jamesiani, nei romanzi maggiori, per approfondirli e scandagliarli con analisi introspettive, esiti inquietanti (ne “I ragazzi” la fanciullezza continua a contrapporsi al mondo degli adulti corrotti ed egoisti ,ma può rivelarsi anch’essa fonte di turbamento nell’interesse destato nel maturo Martin Boyne dalla quindicenne Judith), e con una sensibilità straordinariamente attuale: ne “Il sonno del crepuscolo” (Twilight Sleep), il sesso, la droga, il denaro, il fascino per l’occulto corrompono la famiglia di Mrs Manford i cui componenti cercano di perdersi, di stordirsi per non sentire il peso della loro vita. Nick e Susy invece, ne “Gli sguardi della luna” decidono di sfruttare il mondo vacuo e lussuoso dei loro amici ricchi, frequentando le loro sontuose ville e i salotti più esclusivi della località (già) più alla moda (Capri, St. Moritz), per poi ritrovarsi (come dopo una discesa agli inferi) e riscoprirsi con l’autenticità dei sentimenti reciproci.

Ma aspetti interessanti e insoliti emergono anche dalle opere minori di Edith Wharton: dalle atmosfere lugubri di Ethan Frome: un caso terribile (tradotto anche con il titolo “Gli infelicissimi” o “Amore disperato” ) che narra della relazione clandestina, dal tragico epilogo, nata tra un misero agricoltore e la giovane Mattie ospite a casa sua e di sua moglie, ai racconti del mistero in Storie di fantasmi, all’arguto e divertente “Xingu”, occasione di un ironico misunderstanding: come imbastire una conversazione su un argomento sconosciuto.

Riferimenti autobiografici sono senz’altro rintracciabili ne “Il Canto delle Muse” (titolo originale The Gods arrive) del 1932: la storia di Halo Tarrant che abbandona il marito per diventare la passione ispiratrice dello scrittore Vance Weston, l’uomo che ama, non rievoca la relazione della stessa Wharton con il giornalista William Morton Fullerton?

Non poteva non lasciare traccia nel suo bagaglio letterario l’esperienza attiva avuta nell’opera di assistenza prestata durante la prima guerra mondiale, che le valse il riconoscimento della Legion d’onore da parte del governo francese e le fornì materia per “The Marne” (1918), “A son on the front” (1923), “The Mother’s ricompense” (1925). Indelebile rimase anche il ricordo dei numerosi viaggi in Italia che le ha ispirato “La valle della decisione” del 1902 (romanzo elaborato e documentatissimo, di connotazioni politiche rivoluzionarie), ma anche libri di genere architettonico e gusto estetico come “Italian Villas and their gardens”, e di itinerari, “Italian Backgrounds”.

Dopo aver ceduto il passo a Grazia Deledda che vinse il nobel nel 1926, e aver volto l’ultimo e significativo Sguardo indietro, la Wharton si spegne a St. Brice-sous-Foret, nei pressi di Parigi, l’11 agosto 1937 e riposa a Versailles.

Vecchie botteghe di paese

downloadI centri storici di paese di una volta poco divergevano dalle cittadelle medievali, roccaforti inespugnabili, autosufficienti, dotate di botteghe e attività artigianali bastanti a se stesse.  Tolte di mezzo le autorità -che erano tre: il sindaco, il curato e il medico-,  a ogni esercizio attendeva un personaggio, una caricatura, un pilastro imprescindibile come un vicolo, un monumento o un luogo simbolico.

C’erano sarti, barbieri, il macello (con vista), il portalettere, la lavanderia, il singolare binomio del “Sale e Tabacchi”, diversi falegnami, parrucchiere, un negozio di elettrodomestici, gli alimentari, un emporio, la ferramenta, il forno (l’unico sopravvissuto alla furia distruttrice dell’economia moderna). Qualcuno più simpatico qualcuno meno, chi temuto chi benvoluto. Guai ad andare a prendere la bombola per la cucina a gas –che puntualmente finiva all’ora di pranzo- senza scatenare l’ira funesta del fuligginoso Alfredo che s’era appena seduto a tavola; il mite Mindì piallava ascoltando silenzioso il dirimpettaio  Tarcì fischiettare e far correre il pedale sulla macchina da cucire. La improbabile coppia di fratelli single gestori del Sale e Tabacchi, saldamente ancorati alla scomoda sedia di legno, tra la vendita di un pacchetto di sigarette e l’altro contava le monetine e risparmiava anche l’aria respirata.

A Pasqua e a Natale era tempo oltre che di confessione, di passare da Margherita a rinnovare il guardaroba, in particolare la toletta per la festa, da sfoggiare in Chiesa dove, immancabilmente, tra i banchi, si sarebbero ritrovati i duplicati del modello indossato.

Per i bambini poi il negozietto di Lucia era come  la casa della strega nella fiaba di Hansel e Gretel: ripieno di dolciumi, barattoli di caramelle e gomme, rivenditore esclusivo delle chewingum americane, fornitore ufficiale  dei palloni Super Tele (per chi non lo sapesse quelli coi pentagoni neri)  che duravano il tempo di un lancio perché puntualmente, dopo una rovinosa caduta fra i rovi,  si sgonfiavano miseramente.

Né avevano paura di arrivare in fondo al caseggiato, i ragazzini, per trovare Orlando, un altro falegname,  considerato un beniamino perché se loro si affacciavano timorosi all’uscio della sua bottega in cerca di truciolato o scarti di legname, lui li invitava a farsi avanti proponendosi di realizzare fucili e fionde per i loro giochi.

Meno rassicurante era Fiore il barbiere che, con le forbici in mano, si lasciava prendere dall’entusiasmo realizzando sculture geometriche e scalette graduate.

Con poche monete si acquistava il gelato da Delina, altra figura storica,  che avanzava lentamente verso il frigo e cronometrando il tempo, per limitare al massimo la fuoriuscita del freddo, pena ghigliottina del braccio, permetteva solo ai più fidati di pescare quello scelto.

All’imbrunire si chiudeva la bottega e ci si ritirava in casa, attardandosi un po’ di più nell’afosa estate; ci si sarebbe ritrovati l’indomani, ciascuno ad accordare il proprio strumento e pronti ad orchestrare il concerto del giorno.

Romina Angelici

Il tè delle cinque e la pausa caffè

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Il tè per gli inglesi è il corrispettivo del caffè per noi italiani: qualcosa di irrinunciabile, energizzante, insostituibile nella vita di tutti i giorni. Come è un rito quello di servirlo con o senza latte, accompagnato da tramezzini al cetriolo (i preferiti di Lady Bracknell ne L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde), per le cinque del pomeriggio o a cena, così la nostrana preparazione del caffè prevede un prontuario di passaggi fondamentali, declinati per regioni quanto alla densità, attraverso i quali ottenere una aromatica tazzina di caffè, espresso o dalla moka.

Il tè è così importante per gli inglesi, costitutivo della loro essenza British, espressione del loro cerimoniale di belle maniere (a dispetto delle nostre abitudini  “concentrate” e più dirette) che anche la stessa letteratura ne è stata ripetutamente influenzata.

“Sotto certi aspetti ci sono nella vita poche ore più piacevoli di quelle dedicate alla cerimonia del tè del pomeriggio.” diceva Henry James – inglese d’adozione – nell’incipit di Ritratto di signora; “Dalle cinque alle otto corre talvolta una piccola eternità che, nel nostro caso, non poteva essere che un’eternità di piacere.”

Alle diverse varietà di Twinings (che aprì la prima sala da tè londinese nel 1706) rispondono le continentali correzioni della bevanda nera al ginseng, alla nocciola, al limone, d’orzo, fino all’ultimo ritrovato salutista del caffè verde, dalle proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e favorenti il senso di sazietà utile nelle diete dimagranti. In comune hanno il fatto di essere prodotti importati, non autoctoni: il tè dalle piantagioni dell’India e dello Sri Lanka, il caffè dal Medio Oriente e dall’America Latina.

Che cosa sarebbero i romanzi di Miss Austen, delle sorelle Brontë e di Charles Dickens senza le scene di tè pomeridiano? Il tè è così frequente nella letteratura di Jane Austen che Kim Wilson ha pensato di scrivere un libro sull’argomento, A tea with Jane Austen, completo di ricette risalenti al XIX secolo, citazioni dai romanzi e aneddoti sulla vita della Austen. La Wilson scrive:

Risultati immagini per jane austen scena del tè“Nei suoi romanzi, è il tè ad essere al centro di ogni avvenimento sociale. Forse in “Emma” Miss Bates beve il caffè? Ma certo che no: “Per me niente caffè, vi ringrazio… non prendo mai caffè. Un po’ di tè, per favore.” In “Ragione e Sentimento” cosa stanno bevendo tutti quando Elinor nota il misterioso anello di Edward con la ciocca di capelli? Tè, naturalmente. E in “Orgoglio e Pregiudizio” qual è uno dei supremi onori che secondo Mr. Collins Lady Catherine potrebbe concedere Elizabeth Bennet e alle sue amiche…  se non quello di invitarle per il tè?”

Ma alla maggior parte delle persone il binomio tè – letteratura fa venire in mente il delizioso e bizzarro Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll.

Risultati immagini per cerimonia del tè inglese“Prendi un altro po’ di tè,” disse la Lepre Marzolina ad Alice, con estrema serietà.

“Non ne ho avuto ancora,” rispose Alice offesa, “perciò non posso prenderne di più.”“Intendi dire che non puoi prenderne di meno,” disse il Cappellaio, “è molto facile prendere più di niente.”

Una fantastica parodia del chiacchiericcio raffinato da ora del tè. Tutti parlano, ma nessuno ascolta o capisce una parola di ciò che gli altri dicono. Scrivendo frasi visibilmente prive di senso Carroll ci fa riflettere sull’inconsistenza dei convenevoli con cui ci intratteniamo ogni giorno.[1].

Il nostro tea time virtuale, care amiche, è un momento magico, di condivisione e incontro, stimolo continuo e perché no, ogni tanto un po’ di follia.

[1] trad. Eleonora Angelici da “Viaggio Letterario alla Scoperta del Tè” di Eileen Reynolds.