Archivio | febbraio 2021

Maria Messina una scrittrice troppo a lungo dimenticata.

Intervista a Salvatore Asaro, curatore del progetto di rilancio della scrittrice Maria Messina per le Edizioni Croce.Salvatore Asaro è laureato in Lettere alla Sapienza Università di Roma.Successivamente ha perfezionato i suoi studi a Londra, approfondendo l’opera forsteriana. Di recente i suoi interessi si sono mossi verso i cultural studies e gli studi di genere, dedicando una particolare attenzione alle autrici italiane e in lingua inglese dell’Otto-Novecento, in particolare Elizabeth Gaskell, Charlotte Brontë e Goliarda Sapienza.

Come hai incontrato Maria Messina?

Il mio incontro con la scrittrice palermitana è piuttosto bizzarro. Cinque anni fa la redattrice di una casa editrice mi chiese di fare una ricerca su alcuni racconti – italiani e stranieri – che avevano per tema la migrazione, in prospettiva di una raccolta. Mi misi a fare una ricerca capillare, cominciai a spulciare i cataloghi delle biblioteche e portai alla luce fragilissimi libercoli che consultai con interesse e attenzione. Una mattina, per caso, mi imbattei in una recensione che rimandava a un’altra recensione che rimandava a sua volta a uno scritto di Leonardo Sciascia. Un gioco di scatole cinesi abbastanza aggrovigliato e polveroso che mi ha condotto fino a Maria Messina e alla sua singolare novella “La Mèrica”. Una scrittrice che non avevo mai sentito nominare ma che mi attrasse con forza magnetica che non potrei spiegare in alcun modo senza svilirne la misteriosa intensità. Di lì a breve scoprii che negli anni ’80 lo scrittore di Racalmuto era venuto a conoscenza della produzione narrativa di Maria Messina nel medesimo modo – solo che gli anni del ripescaggio messiniano ebbero vita effimera: morto Sciascia i libri della scrittrice palermitana caddero in un secondo oblio. La coincidenza – due uomini, tutti e due siciliani, che scoprono “la Mèrica” – mi ha suggestionato al punto da continuare la mia ricerca sulla scrittrice e quindi di non fermarmi a una semplice raccolta collettanea (per inciso, la redattrice non volle più inserire “La Mèrica” nell’antologia). La cercai all’interno delle università italiane, ma non trovai informazioni sufficienti, non quelle che cercavo almeno – le risposte delle docenti sono sempre state molto vaghe. Quindi ho recuperato i pochi libri riediti in Italia grazie al genio di Leonardo Sciascia, ho approfondito la conoscenza della scrittrice grazie alla lungimiranza di Giovanni Garra Agosta che, sempre negli anni ’80, aveva recuperato e pubblicato le lettere della scrittrice a Giovanni Verga in cui è possibile scoprire aspetti inediti e interessantissimi sulla donna.

Puoi raccontarci qualcosa di lei che ce la faccia conoscere meglio e imparare ad amare?

Inspiegabilmente dimenticata, Maria Messina è probabilmente una delle scrittrici del primo ’900 italiano più interessanti; ha una produzione letteraria sconfinata oltre che variegata: ha pubblicato una quantità vastissima di novelle, diversi romanzi e tante raccolte di racconti per bambini, riscuotendo un tale successo di critica e di pubblico, da costringere la nipote – Annie Messina – ad adottare un nome decisamente più esotico (Gamîla Ghâli) quando, più tardi, decise di intraprendere la stessa carriera della zia. Maria Messina esordisce nel 1909, con la raccolta Pettini-fini, dedicata al fratello Salvatore che l’aveva esortata allo studio delle lettere (A te, mio buon fratello – che mi sei stato affettuoso e generoso maestro – offro con gratitudine queste pagine che ti appartengono). Il fratello intuisce prima di chiunque altro il valore delle novelle della sorella e si impegna attivamente affinché possano essere lette e recensite in tutta Italia. Ne invia una copia a Giovanni Verga, che ne aveva ispirato lo stile e i contenuti. Lo scrittore etneo, sempre restio nei confronti degli esordienti, comprende immediatamente la potenza di quella raccolta e avvia un fittissimo scambio epistolare con la sua giovane “allieva”, la sprona a più riprese a continuare con l’arte della scrittura e la segnala ai suoi amici editori, affinché possano esaminare il materiale, e alle più prestigiose riviste letterarie dell’epoca, in particolare a «Nuova Antologia». L’invito di Verga è talmente sincero e partecipativo che Maria Messina decide di dedicare proprio a lui la sua seconda raccolta di novelle, Piccoli gorghi. È lei stessa a parlare dell’accoglienza che i critici dell’epoca le avevano riservato e dello stile che aveva deciso di adottare, sul numero di dicembre del 1919 de «Italia che scrive»:

«Pettini-fini e Piccoli gorghi sono gli inseparabili compagni del mio primo passo; mi fa piacere ricordare, dopo tanti anni, queste novelle rapide e secche, pensate laggiù a Mistretta. Pagine concise e senza aggettivi: come la parola di chi vive profondamente una sua vita interiore, come la mia prima giovinezza che si temprava in solitudine. La critica accolse Pettini-fini e, poi, Piccoli gorghi con espressioni così lusinghiere da far girare la testa ad una esordiente. La buona accoglienza non fu, per me, se non motivo di sgomento: la mia anima solitaria tremò e si chiese più volte: saprò io mantenere le mie promesse?».

Maria Messina ha scritto, a mio avviso, alcune delle pagine più belle della nostra letteratura; i suoi personaggi, in particolar modo le figure femminili, hanno una forza paragonabile forse solo a quelli della letteratura vittoriana o del grande romanzo russo. La costruzione dei personaggi di Marcello e Simonetta de Alla deriva non ha eguali nella narrativa italiana moderna, nemmeno se prendiamo in esame testi e autori a noi più vicini; la potenza di Orsola de Primavera senza sole si può ritrovare soltanto in personaggi come Molly Gibson di Elizabeth Gaskell o Nasten’ka di Fëdor Dostoevskij, così come la modernità di Paola Mazzei de Le pause della vita, un personaggio attuale e descritto con una crudezza quasi spietata. L’autrice ha una capacità narrativa formidabile, elemento che la rende immediatamente riconoscibile; possiede uno stile asciutto, tagliente, un fraseggio quasi tolstojano, con periodi rapidi e ad effetto; riesce inoltre a condensare particolari fondamentali in porzioni circoscritte di testo, celando nel non-detto i punti nevralgici delle sue storie. Leggere Maria Messina significa immergersi totalmente nelle sue storie, alcune brevissime – alla maniera di Čechov – e imparare a dialogare con i suoi personaggi, in particolare con le molte donne che popolano le sue storie. È stata definita un’“attardata”, nel senso di epigona, perché aveva deciso di aderire alla corrente del Verismo, quando questo, effettivamente, era agli sgoccioli; lo stesso Borgese, nel 1928, l’aveva definita una «scolara di Verga». In realtà è un punto su cui bisognerà ritornare, infatti non sono molto d’accordo sulla definizione che la vuole una verista tout court. Amare Maria Messina è naturale, come naturale è stata la scrittura per lei.

Si tratta di una scrittrice che è rimasta pressoché sconosciuta fino a oggi, mai entrata nei libri di scuola per intenderci…

Questa è una nota dolente. Quando ho iniziato a occuparmi più concretamente del suo recupero, ho portato all’attenzione delle studiose la grande assenza della scrittrice palermitana dai programmi universitari, dai convegni, dai laboratori che si occupano di autrici donne, ma non ho ottenuto i risultati che speravo. Ripubblicare Maria Messina non è stato semplice. Curiosamente la produzione della scrittrice è sempre stata promossa da uomini: prima dal fratello, da Giovanni Verga, da Alessio Di Giovanni e da G.A. Borgese, che hanno agevolato la diffusione dei libri in tutta Italia; poi negli anni ’80 è stato il turno di Leonardo Sciascia e di Garra Agosta e ora sono io a raccogliere il testimone… In questi ultimi anni, fra gli altri, Salvatore Ferlita, Luca Ricci – così come anche Simona Lo Iacono – hanno portato all’attenzione degli studiosi l’assenza quasi paradossale di Maria Messina dal panorama culturale, pubblicando articoli sui maggiori quotidiani nazionali. In questi mesi mi sono occupato in maniera specifica di Primavera senza sole; a tal proposito ho consultato diversi manuali di letteratura, scoprendo che nella quasi totalità, anche in quelli redatti da studiose donne, anzi soprattutto nei loro, l’autrice non è neppure mai menzionata. A uno stupore iniziale è subentrato, lentamente, un sentimento di rabbia. Mi sono chiesto il perché. Eppure nel 1935 Alfredo Galletti – un altro uomo – scriveva nel suo manuale di letteratura italiana: «La produzione romanzesca femminile poi è oggi in Italia di una esuberanza incredibile e veramente strabocchevole […]. Lettori e critici tuttavia sembrano accordarsi nel lodare nella folla dei romanzi muliebri certi lavori di Maria Messina». E pensare che a quell’altezza cronologica la scrittrice si era allontanata dalla scena pubblica già da diverso tempo a causa di una tremenda malattia. Fortunatamente nella difficile operazione di recupero, mi sono potuto avvalere della collaborazione di diverse intellettuali e studiose: innanzitutto Elena Stancanelli, un’acuta scrittrice e giornalista, che ha contribuito alla prefazione de Alla deriva; ma poi c’è stata Barbara Dotti, scrittrice e traduttrice, che mi ha affiancato durante il mio complesso lavoro di ricerca di archivio; Flavia Rossi, che ha introdotto e curato con rigore scientifico Le pause della vita, cogliendo l’aspetto migliore non solo del singolo titolo ma dell’intera produzione messiniana, anche sotto un profilo strettamente biografico; Mara Barbuni che ha letto e accolto con vivo entusiasmo una novella della Messina, decidendo di inserirla all’interno di un’antologia da lei curata e Cristina Pausini, docente di Lingua e letteratura italiana a Tufts (Boston).

A lei è stato intitolato un premio letterario?

Sì, da diversi anni è stato dedicato un premio letterario a Maria Messina, a Mistretta, cittadina che ospitò la scrittrice negli anni dell’adolescenza. Di recente, su mio consiglio, due miei amici hanno dato vita a una pagina Facebook, “Leggere Maria Messina”, con lo scopo di sensibilizzare i lettori che oggi dedicano sempre più tempo ai social.

Sei stato chiamato a curare il progetto di rilancio di Maria Messina per le Edizioni Croce, con quali obiettivi?

Mi ci sono voluti anni prima di riuscire a riportare in libreria Maria Messina e, nonostante il rischio dell’operazione, la casa editrice Croce ha deciso comunque di impegnarsi nel progetto. Il mio obiettivo è essenzialmente quello di far riscoprire al pubblico questa scrittrice straordinaria. E anche sensibilizzare il mondo accademico affinché faccia rientrare la scrittrice nei programmi universitari e quindi renderla oggetto di studio e di dibattito.

Quali opere avete deciso di riportare alla luce e perché?

Il progetto è vasto. Ci sono diversi titoli in cantiere. È già uscito Alla deriva con la bella prefazione di Elena Stancanelli, la quale, come ho detto, si sta impegnando affinché questa grande scrittrice possa riemergere. Tra qualche settimana uscirà Le pause della vita a cura di Flavia Rossi e tra un paio di mesi Primavera senza sole. Il calendario non si chiude qua, ma la casa editrice non dà mai anticipazioni che superano i tre mesi.

Quale opera di Maria Messina consiglieresti di leggere a chi volesse accostarsi a questa autrice per la prima volta?

Tutte, è banale?

Che cosa intendeva secondo te Sciascia quando la definì la Katherine Mansfield italiana? Fu una provocazione per attirare l’interesse della critica o è un paragone calzante? Se sì, su quali basi?

Maria Messina e Katherine Mansfield sono coetanee e condividono la stessa biografia disgraziata. Chi conosce la vita della Mansfield non può non accostarla a quella di Maria Messina. Entrambe le donne hanno attinto a piene mani dalla fontana della vita e hanno regalato al mondo pagine meravigliose, piene di dolore – perché la vita fa male. Dubito che Maria Messina abbia avuto modo di leggere i racconti della scrittrice neozelandese; credo che Sciascia si riferisse piuttosto allo stile narrativo adottato da entrambe le donne. Lo stile mansfieldiano non si discosta affatto da quello della scrittrice palermitana; l’indescrivibile poesia dei loro scritti è contraddistinta da un’aspra ironia. Un altro dato le accomuna e forse le ha indirettamente influenzate: la passione per la letteratura russa. Čechov condizionò e plasmò il modo di scrivere di entrambe, non solo per quanto riguarda la tecnica del racconto breve e brevissimo, ma anche per i temi trattati. L’intera produzione messiniana è infatti intrisa di letteratura russa, esattamente come quella della neozelandese. Il parallelismo sciasciano non è dunque azzardato. Ma al contrario degli inglesi con la Mansfield, gli italiani hanno riservato alla Messina un destino decisamente più crudele.

Alcune situazioni mi fanno pensare al primo Pirandello: è un po’ azzardato questo riferimento?

La letteratura siciliana che in quegli anni, bisogna specificarlo, era la letteratura nazionale, è tangenziale a se stessa. Come la Mansfield, anche Luigi Pirandello era coetaneo di Maria Messina e dunque le letture, i modelli cui ispirarsi erano gli stessi: la grande stagione del romanzo russo, l’ironia disarmante di Colette, lo sperimentalismo narrativo di Virginia Woolf e l’ombra immensa del padre della letteratura moderna: Giovanni Verga. Luigi Pirandello, specie all’interno delle novelle, «analizza la piccola e infima borghesia siciliana e, dentro l’angustia e lo spento grigiore di una tal classe, la soffocata e angosciante condizione della donna». In pratica quello che fa pure Maria Messina, ma lei lo fa da donna. Nelle sue storie i personaggi maschili non parlano, sono quasi sempre parlati. E trovo grandioso tutto ciò, non ci sono casi analoghi in Italia, non prima di lei almeno. La sua letteratura è inedita, e sono sicuro che se non fosse stata stroncata dalla malattia nel pieno della sua attività letteraria, avrebbe dato vita a qualcosa di grandioso in Italia, qualcosa non troppo diverso da quello che hanno fatto Virginia Woolf in Inghilterra o Gertrude Stein in America.

Credi in un’affinità metatemporale che ci fa eleggere certi scrittori a nostri autori preferiti?

La letteratura è uno strano luogo. Sicuramente c’è qualcosa di metatemporale che ci porta ad amare certi autori a noi lontani, nel tempo e nello spazio. La letteratura è universale e parla agli uomini di ieri, di oggi e di domani. Può sembrare una frase scontata, ma non lo è.

Le Edizioni Croce hanno in programma l’uscita di un altro romanzo di Maria Messina, Le pause della vita: potresti introdurcelo?

Le pause della vita è un romanzo “anomalo” all’interno della produzione messiniana. Come soltanto in poche altre occasioni, l’ambientazione non è la Sicilia ma la Toscana e soprattutto non si parla della vita degli umili e della condizione dei contadini; si tratta di una storia quasi borghese. Uscito per i tipi della Treves nel 1926, ruota attorno alla figura di Paola Mazzei. Abbandonata dal padre, la giovane spende le sue giornate a San Gersolè, un piccolo paese toscano, con lo zio e la madre. Ottenuto temporaneamente un impiego alle poste, Paola non riesce a intrecciare nessun rapporto con le altre donne dell’ufficio. Si rifugia nei libri e inizia a tradurne uno. Nel frangente, si avvicina sempre più a un vecchio compagno di scuola, uno squattrinato che da lì a breve è costretto a lasciare il paese. Il dolore della solitudine, che nemmeno la traduzione riesce a lenire, spinge Paola a prendere delle decisioni infelici che comprometteranno inevitabilmente il suo futuro. Il romanzo, curato da Flavia Rossi, vanta anche un’introduzione in cui vengono analizzati tutti i meccanismi che muovono la macchina narrativa di Maria Messina. Come ci dice la Rossi all’interno della sua introduzione «“Tutto avviene bruscamente nella vita: il male e il bene. Ma il bene giunge troppo tardi, quando non siamo pronti a riceverlo”. È questa la cupa morale attorno a cui ruota Le pause della vita».

Maria Messina non è famosissima ma di lei hanno detto che dopo averla letta non è possibile dimenticarla e anzi sorge spontaneo il desiderio di leggere ancora e altro su di lei.

Maria Messina non è famosa in Italia, ma nel resto del mondo è tradotta, venduta e anche studiata all’interno delle università. Da quando ho iniziato a occuparmi in maniera più organica della scrittrice, ricevo numerose mail di studiosi e studenti da tutto il mondo, perfino dall’Australia, in cui mi chiedono informazioni; la domanda più frequente è: «Perché in Italia nessuno conosce Maria Messina?». È un quesito che mi lascia interdetto e mi imbarazza non poco. Una volta letto qualcosa di suo, anche solo una brevissima novella, non si può più smettere. È proprio così. In Alla deriva si avverte l’ironia tagliente, come è stato notato altrove, di Chéri di Colette, in Un fiore che non fiorì si legge la modernità di alcuni scritti della Ortese (che deve averla sicuramente letta e perfino suggestionata), in Primavera senza sole l’amarezza disadorna della condizione femminile rimanda inevitabilmente ad alcune delle migliori pagine di Virginia Woolf. Maria Messina è unica, e forse è proprio per questo che è stata volutamente dimenticata.

Grazie per questa interessante e affascinante presentazione e per il tuo lavoro. Non si può non raccogliere l’appassionato invito ad approfondire la conoscenza di Maria Messina da cui spero i nostri lettori si lascino conquistare.

https://www.edizionicroce.it/maria-messina/

Maria Messina, la Katherine Mansfield siciliana

Maria Messina nasce a Palermo nel 1887 da Gaetano, ispettore scolastico, e da Gaetana Valenza Trajana, esponente di una famiglia baronale, originaria di Prizzi. I continui trasferimenti del padre costringono la famiglia a spostarsi con frequenza, prima a Messina, quindi a Mistretta, poi in Toscana, in Umbria, nella Marche e a Napoli.

Iniziata alla scrittura dal fratello Salvatore, che ne aveva intuito il talento, ottiene la notorietà con la pubblicazione di Pettini-fini (1909) e Piccoli gorghi (1911), raccolte di impronta verista che le valgono la stima di Giovanni Verga, col quale intraprende una fitta corrispondenza.Gli anni ’20 sono quelli del successo letterario, ma anche quelli del peggioramento di una grave malattia che le toglie gradualmente la possibilità di scrivere. Tornata in Toscana, muore a Pistoia nel 1944, dimenticata da tutti. Il 24 aprile 2009, grazie all’interessamento del comune, le sue spoglie mortali sono ritornate a Mistretta, considerata come una sua seconda patria.Qui le è stato intitolato un premio letterario. Oggi le sue opere, tradotte e apprezzate all’estero, sono tornate argomento di studio e di dibattito.

Idillio verghiano

All’età di ventidue anni, iniziò una fitta corrispondenza con Giovanni Verga, che leriservò parole di apprezzamento e gentile incoraggiamento, e tra il 1909 e il 1921, pubblicò una serie di racconti. E’ soprattutto nelle Novelle che si sente l’impronta Verghiana anche se Maria Messina non mancò di sviluppare uno stile suo personale per distinguersi dal Maestro. La loro corrispondenza è stata raccolta nel volume Un idillio letterario inedito verghiano

Illustre Signor Verga,

InviandoLe il mio primo libro, speravo che Ella lo leggesse, ma non osavo aspettarmene un giudizio suo.Ho cominciato con tante titubanze, e così sola, che temevo che i miei poveri villani – già studiati con tanto amore – messi nel «libro» e mandati in giro sarebbero stati mal visti, forse appena guardati, e per niente capiti come io avevo voluto rappresentarli.

Era fuggita da Pistoia nell’inverno 1943 durante i bombardamenti per trovare riparo presso una famiglia di contadini, stremata dalla sclerosi. Prima di morire dettò all’infermiera Vittoria Tagliaferri che la accudiva I doni della vita che racconta l’esperienza di sofferenza fisica e spirituale da lei vissuta in prima persona. La nipote Annie, figlia del fratello Salvatore, unico suo parente rimasto, racconta che alla sterile disperazione dei primi anni era subentrata in lei una rassegnazione cristiana con cui cercò di affrontare l’estrema prova che la vita le aveva riservato.

Primavera senza sole - Maria Messina - Libro - Croce Libreria -  L'oziosapiente | IBS

In Primavera senza sole, terzo romanzo pubblicato dalle Edizioni Croce nell’ambito del progetto curato da Salvatore Asaro, si affronta la questione dell’istruzione femminile come strumento di emancipazione e perdizione. Pubblicato a puntate su «L’Orma» di Napoli nel 1920 e accolto con grande consenso da parte della critica, Il romanzo racconta la semplice vita condotta da Orsola, che studia per prendere “la patente” per diventare maestra e allo stesso tempo dà lezioni ai cugini ricchi per assicurare favori alla propria famiglia indigente. È forse questo il germe della sua condanna alla perdizione in quanto viene additata come una ragazza troppo libera, mal vista, perché lo studio distingue e rende emancipati, liberi, troppo liberi di uscire, di frequentare maschi e femmine, di sapere, di conoscere.

“La vita è bella! Essere infelice, essere misera, essere l’ultima delle creature, ma vivere, ma potere ascoltare, poter vedere! È bello, vivere senza altro scopo che lo scopo di vivere, come le rose che si schiudono nelle albe estive, come le rondini che passano nel cielo del “baglio” e forse gridano di felicità…

Parola di Leonardo Sciascia

La riscoperta di Maria Messina, avvenuta negli anni Ottanta, a quarant’anni dalla morte, si deve a Leonardo Sciascia che al momento di curare un’antologia avente a tema la migrazione, Partono i bastimenti, volle inserirvi due racconti di Maria Messina (“Nonna Lidda” e “La Merica”) promuovendone poi la riedizione per Sellerio di alcune tra le migliori prove della scrittrice. Fu lui a definirla la “Katherine Mansfield siciliana“, grazie al malinconico realismo della sua prosa impegnata a decifrare i risvolti psicologici e sociali della marginalizzata condizione femminile nelle società rurali e in quelle della piccola borghesia meridionale del proprio tempo.

Dopo l'inverno di Maria Messina - Sellerio

E’ sempre riduttivo paragonare uno scrittore ad altri ma credo sia, anche se semplicistico, il modo migliore per dare dei riferimenti che lo possano inquadrare. Maria Messina non può essere semplicemente etichettata come una “alunna” di Verga, perché nella sua opera si possono cogliere molti altri aspetti: l’ironia di Colette, lo sperimentalismo di Virginia Woolf, l’influsso della letteratura russa che amava, il primo Pirandello verista. Il pregio della sua prosa è un’acuta analisi della psicologia femminile presentata con uno stile asciutto e tagliente, spesso con immagini plastiche e similitudini evocative.

I romanzi

Alla deriva, Milano, Treves, 1920; prefazione di Elena Stancanelli, Roma, Edizioni Croce, 2017.Primavera senza sole, Napoli, Giannini, 1920; Roma, Edizioni Croce, 2017, introduzione e cura di Salvatore Asaro.La casa nel vicolo, Milano, Treves, 1921; Palermo, Sellerio, 1982.Un fiore che non fiorì, Milano, Treves, 1923; Roma, Edizioni Croce, 2017, prefazione e cura di Salvatore Ferlita, cronologia bio-bibliografica di Salvatore Asaro.Le pause della vita, Milano, Treves, 1926; Roma, Edizioni Croce, 2017.L’amore negato, Milano, Ceschina, 1928; Palermo, Sellerio, 1993.

Tutte le novelle / Maria Messina / Edizioni Croce

John Keats a Roma

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Nel mio ultimo libro hio dedicato un capitolo al breve passaggio di Keats in Italia.

Sin dagli inizi del 1818, John Keats (1795 – 1821) era travagliato da una lenta consunzione e su suggerimento dei medici decise di trasferirsi a Roma col suo amico Joseph Severn, sperando che un clima più caldo potesse giovargli.

Quando arrivò all’ombra del Colosseo, Keats aveva quasi 25 anni. Non era venuto in visita nel Bel Paese, come facevano molti suoi coetanei per compiere il Grand Tour, fondamentale all’epoca nella formazione dei gentiluomini, ma per godere del clima mite che, secondo il suo dottore, James Clark, lo avrebbe aiutato a trovare sollievo da quella malattia che lo stava consumando e che aveva ucciso sua madre e suo fratello: la tubercolosi. Così, il giovane autore di Ode to a Nightingale, al tempo tutt’altro che celebre e spesso criticato per i suoi scritti, venne ad abitare con il fedele amico Joseph Severn il secondo piano di quella palazzina che ancora ne ospita molte memorie, al n. 26 di Piazza di Spagna.

In ricordo di John Keats, il poeta "sensoriale" della bellezza

Purtroppo il soggiorno ebbe breve durata ed esiti assolutamente disastrosi.

Un giorno di febbraio 1821, mentre stava discorrendo di alcuni amici in biblioteca, durante una serata tranquilla, iniziò a tossire sangue e capì subito che non sarebbe più tornato in Inghilterra.

Morì il 23 febbraio. Le sue spoglie giacciono nella parte più antica del Cimitero, quella prossima alla Piramide Cestia e per desiderio dello stesso Keats sulla sua tomba non venne scritto alcun nome o data, mentre la lira greca con quattro delle otto corde spezzate voleva significare, come spiegò in seguito il suo compagno, Joseph Severn, “il suo Genio Classico spezzato dalla morte prematura”. A sinistra della stele, su un muro, si può notare una lapide con un medaglione in cui è scolpito il profilo di Keats accompagnato da un acrostico:

Keats! se il tuo caro nome è “scritto sull’acqua”, Ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange; Un sacro tributo; così come gli eroi cercano di fare, Sebbene spesso invano – azioni straordinarie di carnefice, Riposa! Non meno onorato per un epitaffio così mite!

When did John Keats die? - Wordsworth Grasmere

Articolo di Sara Foti Sciavaliere: https://pinkmagitalia.com/2018/02/23/cimitero-acattolico-di-roma-dove-riposano-artisti-e-poeti/

Charles Dickens – Una vita in lettere

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Charles Dickens – Una vita in lettere

A cura di Laura Bartoli

Un’edizione pregiata sia per il contenuto che per il modo elegante in cui è offerta ai lettori.

Questa raccolta curata da Laura Bartoli non è solo un epistolario, anzi sarebbe riduttivo definirlo solo tale, perché la sua ricostruzione nasconde un immenso lavoro di ricerca, studio, con tanto di consultazioni e sopralluoghi alla ricerca di luoghi e manoscritti originali.

Attraverso le missive composte dallo stesso Dickens, che si firma in innumerevoli modi, quasi a suggerire le molteplici sue personalità e senza esitare a sottoscriversi l’Inimitabile, si acquisisce una ricostruzione autobiografica che per ovvie ragioni di spazio con questo primo volume deve fermarsi al 1850, il mirabile anno di David Copperfield!

Entrare così nel privato dello scrittore lascia dapprima turbati, inizialmente ritrosi a curiosare nell’intimo dei suoi rapporti amicali e delle testimonianze del suo processo creativo. Scopriamo, se ce ne fosse stato bisogno, un genio eclettico, formidabile affabulatore, attento manager di se stesso, insoddisfatto e avido di suggere quanto più materiale possibile da una vena letteraria inestinguibile, mai sazia, mai paga.

Con Dickens anche il quotidiano diventa romanzato. Le sue descrizioni sono sempre pittoresche e caratteristiche, tra le persone che incontra non manca mai di menzionare qualche tipo curioso o strambo destinato a diventare una sua futura macchietta.

Le continue diatribe con gli editori, l’assillo dei debiti del padre e l’ansia palpabile di dover mantenere la sua famiglia con il lavoro della sua penna, sono le preoccupazioni quotidiane e prosaiche che lo rendono “umano”. Le sovrasta il grande scrittore, il grande performer, l’entusiasta visionario, che si improvvisa anche ipnotista (!) sempre in preda a qualche nuovo progetto in cui buttarsi a capofitto, non ultimo quello del teatro.

Ho sempre pensato che per capire a fondo l’opera, occorre prima conoscere bene l’autore e Dickens è il personaggio di gran lunga più interessante, affascinante, eclettico e catalizzatore di tutti i suoi protagonisti.

Complimenti alla curatrice per l’immane lavoro e l’illuminata sinergia con la Casa Editrice.

Molto più di un semplice epistolario, questo volume racchiude la prima parte di una selezione di oltre 150 lettere inedite in italiano, incastonate in una narrazione biografica, a comporre la storia più avvincente che Dickens abbia mai scritto, ma che mai avrebbe pubblicato. L’autore ci regala un racconto di prima mano dell’impeto della gioventù, le passioni e i drammi che condussero e s’intrecciarono alla fama planetaria e ci accompagna fino al concepimento del suo capolavoro e alter ego letterario David Copperfield. Dickens si fa così protagonista e spettatore della scena che lo vediamo dividere con i grandi del suo tempo, tra cui Washington Irving, Victor Hugo, Elizabeth Gaskell, la Regina Vittoria e Michael Faraday. Un concentrato di energie che attraversa i secoli e che ci offre l’emozione straordinaria di sedere alla scrivania in compagnia del solo e unico Charles Dickens.

L’epoca Regency e la pazzia di Re Giorgio III

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L’epoca Regency affonda le sue radici nella malattia mentale di re Giorgio III.

La malattia mentale di Giorgio III si svolse durante tutto il suo regno con continue ricadute. Un primo segno si ebbe nel 1765, ma non lasciò tracce apparenti. Nel 1788 G. III apparve invece ai medici come pazzo inguaribile perché non era stato in grado di pronunciare il suo discorso e dati i metodi dell’epoca fu abbandonata ogni cura, limitandosi a una sorveglianza spesso brutale. Il dott. Willis riuscì con nuovi metodi a vincere il male, e un anno dopo il re poté considerarsi completamente ristabilito. Culminerà purtroppo in modo irrimediabile nel 1810, con la morte della ultimogenita, la principessa Amelia, che lo gettò nella più cupa disperazione.

Il parlamento si risolse pertanto ad approvare le basi che erano già state gettate nel 1788 e, senza il consenso reale, i Lord Commissari, in nome del monarca, siglarono l’assenso reale con un consequenziale atto di reggenza nel 1811.

Di fatto il figlio governò come Principe Reggente dal 1811 fino alla morte del padre, avvenuta nel 1820.

Oggigiorno si ritiene che re Giorgio III soffrisse di una malattia ereditaria detta porfiria che può attaccare anche il sistema nervoso. La porfiria è un insieme di malattie rare, per la maggior parte ereditarie, dovute a un’alterazione dell’attività di uno degli enzimi del sangue. I sintomi di un attacco includono dolore addominale, dolore toracico, vomito, confusione, stitichezza, febbre, pressione alta e frequenza cardiaca elevata. Gli attacchi di solito durano da giorni a settimane. Le complicazioni possono includere paralisi e convulsioni.

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Il film intitolato “La Pazzia di re Giorgio” porta lo spettatore a parteggiare con lo sfortunato sovrano, ottimamente interpretato da Nigel Hathorne, assillato forse dall’eccesso di responsabilità imposto dal ruolo di monarca. Alternando sprazzi di lucidità ad attacchi di follia il re viene dichiarato inaffidabile a esercitare le sue funzioni e si scatenano le più subdole strategie per cercare un successore.

Bridgerton - Re Giorgio III

Abbiamo incontrato fugacemente anche in Bridgerton Re Giorgio III, anche se la sua reale consorte gli ha decisamente rubato la scena. Non vi è traccia della coppia di regnanti nel romanzo di Julia Quinn e la loro comparsa nella sceneggiatura serve a fissare i confini temporali entro cui si muove e si sviluppa l’acclamatissima serie tv.

Nella versione Bridgerton delle vicende, Re Giorgio e la moglie conducono vite separate, per via delle precarie condizioni mentali del sovrano e, ancora una volta, questo risponde a verità. Perché se lei sniffa tabacco, lui è completamente inabile a fare il re lasciando che a prendere il sopravvento sia una sorta di matriarcato reale.

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Le dichiarazioni d’amore di Jane Austen

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Jane Austen non ci ha abituato a scene d’amore molto appassionate. Quelle più intense, passate alla storia (letteraria) e che generazioni di lettrici hanno imparato quasi a memoria, sognandoci sopra, sono quella di Mr Darcy, ma ancor più la famosissima e struggente lettera del cap. Wentworth.

In realtà, quella di Mr. Darcy, suona effettivamente un po’ arrogante ed è comprensibile che abbia dato sui nervi a Lizzie:

Invano ho lottato. Non è servito. I miei sentimenti non possono essere repressi. Dovete permettermi di dirvi con quanto ardore vi ammiro e vi amo.”

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I suoi colleghi non è che hanno fatto molto meglio.

Quella di Henry Tilney alla giovane Catherine è proprio descritta in maniera molto prosaica:

 Le assicurò il suo affetto; e in cambio fu chiesto un cuore che, forse, sapevano bene entrambi come fosse già interamente suo; poiché, sebbene Henry ormai l’amasse sinceramente, sebbene fosse consapevole e felice di tutte le qualità del suo carattere e amasse veramente la sua compagnia, devo confessare che quell’affetto era stato originato da nient’altro che la gratitudine, o, in altre parole, che la certezza della sua predilezione per lui era stata la sola causa a farlo pensare seriamente a lei. È una circostanza nuova in un romanzo, lo riconosco, e terribilmente degradante per la dignità di un’eroina; ma se è altrettanto nuova nella vita reale, il merito di una sfrenata immaginazione sarà quanto meno tutto mio.

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Oserei dire sconsolante quella di Edmund, niente di meno di un ripiego:

 Prego soltanto tutti di credere che nel momento in cui sarebbe stato del tutto naturale aspettarselo, e non una settimana prima, Edmund smise di pensare a Miss Crawford, e divenne tanto impaziente di sposare Fanny quanto la stessa Fanny avrebbe potuto desiderare.

Piuttosto tacite quelle di Edward Ferrars e del colonnello Brandon.

Il primo è a disagio anche in questa circostanza:

Il suo scopo a Barton, infatti, era ovvio. Era soltanto quello di chiedere a Elinor di sposarlo; e considerando che lui non era del tutto privo di esperienza in una questione del genere, poteva sembrare strano che si sentisse così a disagio nella situazione presente, come in effetti era, e che avesse tanto bisogno di incoraggiamento e di aria fresca. Tuttavia, quanto ci volle a trovare la soluzione giusta, quanto l’opportunità di metterla in pratica, in che modo si espresse, e come fu accolto, non c’è bisogno di raccontarlo nei particolari.

Il colonnello Brandon aspetta la sua ricompensa:

Con una tale alleanza contro di lei, con una conoscenza così profonda della bontà di lui, con la convinzione del suo ardente affetto verso di lei, che alla fine, sebbene molto dopo che tutti se ne erano accorti, si impose anche a lei… che cosa avrebbe potuto fare?

Marianne Dashwood era nata con un destino straordinario. Era nata per scoprire la falsità delle proprie opinioni, e per contraddire, con la sua condotta, le sue massime favorite.

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Mr Knightley se la cava egregiamente, dall’alto dei suoi modi cavallereschi:

“Se vi amassi di meno, sarei capace di parlarne di più. Ma voi sapete come sono. Da me non sentite altro che la verità. Vi ho biasimata, vi ho fatto paternali, e voi l’avete sopportato come nessuna donna in Inghilterra avrebbe mai fatto. Sopportate allo stesso modo le verità che voglio dirvi ora, mia carissima Emma. I modi, forse, possono essere poco adatti a raccomandarle. Dio sa quanto sono stato mediocre come innamorato. Ma voi mi capite. Sì, vedete, capite i miei sentimenti, e li ricambierete, se potete. Al momento, chiedo solo di ascoltare, di ascoltare ancora una volta la vostra voce.”…

Che cosa disse? Giusto quello che doveva, ovviamente. Come fa sempre una signora. Disse abbastanza per far capire che non c’era bisogno di disperare, e per invitarlo a dire di più. 

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In definitiva, per me la migliore resta quella scritta dal cap. Wentworth, tenera e accorata, che credo ogni donna vorrebbe sentirsi rivolgere:

Non posso più ascoltare in silenzio. Devo parlarvi con i mezzi che ho a disposizione. Mi straziate l’anima. Sono metà in agonia e metà pieno di speranza. Ditemi che non è troppo tardi, che quei preziosi sentimenti non sono svaniti per sempre. Mi offro di nuovo a voi con un cuore ancora più vostro di quando lo avete quasi spezzato la prima volta otto anni e mezzo fa. Non osate dire che un uomo dimentica più presto di una donna, che il suo amore ha una fine più prematura. Non ho amato altri che voi. Posso essere stato ingiusto, debole e pieno di risentimento, ma mai incostante. Solo per voi sono venuto a Bath. Solo per voi penso e faccio progetti. Non l’avete visto? Potete forse non aver compreso i miei desideri? Non avrei certo aspettato questi dieci giorni, se avessi potuto leggere nei vostri sentimenti come credo voi abbiate decifrato i miei. Riesco a malapena a scrivere. Ogni istante ascolto qualcosa che mi annienta. Voi abbassate la voce, ma io riesco a distinguere il suono di quella voce anche quando ad altri sfuggirebbe. Creatura troppo buona, troppo eccellente! Ci rendete davvero giustizia. Sapete che esiste il vero affetto e la vera costanza tra gli uomini. Sappiate che tali sentimenti sono i più fervidi, i più immutabili, in F. W.

E voi che ne pensate?

Consigli d’amore di Jane Austen

Acuta osservatrice della natura umana e appassionata di unioni matrimoniali, Jane Austen ha potuto esaminare i sentimenti e i comportamenti di uomini e donne messi in relazione tra loro. Nei suoi scritti ci ha abituato a tiepide manifestazioni d’affetto e a considerazioni opportunistiche e ragionevoli, ma ha saputo anche stupirci con dichiarazioni appassionate, come quella di Mr Darcy, e accorate richieste d’amore, come quella del cap. Wentworth: forse, sotto quella saggezza ammantata di buonsenso, bruciava un cuore rovente, pronto a farsi travolgere dalla passione.

Quelli presentati sono alcuni dei consigli e delle opinioni di Jane Austen in materia sentimentale, tratti dalle sue lettere

Un diario dalla veste grafica elegante, da tenere accanto e consultare in ogni stagione della vita.

Le donne nubili hanno una terribile propensione a diventare povere – ciò è un argomento molto forte in favore del matrimonio. (L. n. 153)

Non avere fretta; abbi fiducia, l’uomo giusto arriverà alla fine, e ti amerà con un ardore da farti sentire di non essere mai stata innamorata veramente prima. (L. 153)

Qualsiasi cosa è preferibile o più sopportabile che sposarsi senza Affetto. (L. 109)

Credo che tutti debbano sposarsi, almeno una volta nella vita, per Amore. (L. 63)

Penso che la cosa più piacevole della vita matrimoniale siano le cene, le colazioni, i pranzi e il biliardo. (L. 94)

Il Tuo errore è lo stesso in cui cadono migliaia di donne. Lui è stato il primogiovane uomo che ha mostrato interesse verso di te. In questo consistono il suo fascino e suo potere. (L. 110)

La storia perduta

di Elisabetta Gnone

Salani Editore

È sempre un piacere fare ritorno a Fairy Oak, ritrovo le due fate, Vaniglia e Pervinca da grandi e con un po’ di malinconia le seguo nel racconto della ricerca delle origini del loro villaggio dove da sempre Magici e Nonmagici convivono in pace e armonia.

Le bambine sono le nostre nipotine, mie e di mio marito Jim, figlie delle nostre gemelle. Non l’ho etto? Salvia e Margherita sono nate lo stesso giorno, come me e Vì. Pervinca e suo marito Grisam hanno avuto tre maschi che a loro volta hanno avuto sei figli. Così, insieme, noi sorelle facciamo otto nipoti che con nostra gioia e sollievo hanno già dimostrato di aver ereditato i poteri di famiglia: i poteri di Pervinca sono tutti Magici della Luce, come me, mentre le nostre nipotine sono tutte Streghe del Buio, come lei.  

Nel mondo in cui nessun particolare è tralasciato e i nomi delle cose e delle persone indicano la sostanza di cui sono fatti, dove l’illusione aiuta a vivere e camuffa la realtà quanto basta per renderla apprezzabile e bella fin nei suoi aspetti più semplici, nonostante tutto.

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Attraversa il libro una sorta di nostalgia trascinata dalle onde dei ricordi che affluiscono in rapida successione con i racconti delle due sorelle ma esso è percorso anche dalla certezza che i sentimenti veri durano per sempre.

Per mano alla zia partimmo per un lungo viaggio a ritroso nel tempo. Nomi dopo nomi, date dopo date, come in un gioco di quinte di cartone che sul palco di un teatro scivolano mutando scenografia, così, a mano a mano che ci addentravamo nel passato, davanti ai nostri occhi mutavano gli orizzonti, ringiovanivano alberi e volti, cambiavano i costumi e i colori, i profumi e i rumori; alcuni attori sparivano, altri comparivano, con nuovi costumi, nuovi colori, attrezzi, sapori. Nonni, bisnonni, trisavoli, bis-trisavoli, tris-trisavoli! Di generazione in generazione, arrivammo finalmente ai nostri tre eroi.

Solo una bella persona poteva descrivere un così bel mondo, perché evidentemente ha un bel mondo dentro di sé.

Ho lasciato che il viaggio a Fairy Oak avvenisse poco a poco, come se si trattasse della mia visita di saluto serale: il modo migliore per riacquistare la serenità, specie dopo una brutta giornata, ritrovando i personaggi amati che ormai sono diventati amici affezionati, con quel candore di ragazzi e un pizzico di magia che li rende speciali.

In un’intervista che ha rilasciato l’autrice ha detto di essere stata molto ispirata da un viaggio in Bretagna e Normandia e Fairy Oak sembra essere stata plasmata su un incantevole villaggio di pescatori affacciato sul mare.

Un ritorno alle origini, all’ombra della Grande Quercia, con lo sguardo perso sull’Oceano alla ricerca di uno sbruffo e di una pinna di balena, tra alberi genealogici, cuccioli da salvare, amori vecchi e nuovi.

La riscoperta delle cose più semplici, del candore dell’infanzia e dell’innocenza dell’immaginazione, vissute all’aria aperta, tra giochi e amicizie, puntellate da quelle certezze incrollabili che sono i valori familiari, possono regalare un sogno che aspetta solo di essere rivelato.

Sinossi:

Il tempo è passato e molte cose sono cambiate a Fairy Oak, e così capita di immelanconirsi riguardando vecchie fotografie davanti a un tè, ricordando vecchi amici e grandi avventure.Ma quando i ricordi approdano all’anno della balena, i cuori tornano a battere e i visi a sorridere. Che anno fu! Cominciò tutto con una lezione di storia,proseguì con una leggenda e si complicò quando ciascun alunno della onorata scuola Horace McCrips dovette compilare il proprio albero genealogico.Indagando tra gli archivi, le gemelle Vaniglia e Pervinca, con gli amici di sempre, si mettono sulle tracce di una storia perduta e dei suoi misteriosi protagonisti. E mentre il loro sguardo ci riporta nella meravigliosa valle di Verdepiano, si consolidano vecchie amicizie, ne nascono di nuove, si dichiarano nuovi amori e si svelano sogni che diventano realtà.

Età di lettura: da 8 anni a 100!

Il matrimonio secondo Jane Austen.

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Il matrimonio: un lieto fine da romanzo ma non uno scopo di vita a tutti i costi. È a questo riguardo che si intuisce lo spirito più femminista e moderno della scrittrice.

Se per amore della nipote Fanny, Jane non esita a sostenere un’opinione precisa:

ti supplico di non impegnarti oltre, e di non pensare di accettarlo a meno che non ti piaccia davvero. Qualsiasi cosa è preferibile o più tollerabile dello sposarsi senza Affetto[1].

sei anni prima si era espressa con parole molto simili:

Il matrimonio di Lady Sondes mi sorprende, ma non mi offende; – se il suo primo matrimonio fosse stato per affetto, o ci fosse una Figlia da crescere, non l’avrei perdonata – ma ritengo che chiunque abbia diritto almeno una volta nella vita a sposarsi per Amore, se può[2].

Luoghi comuni come “il matrimonio è la tomba dell’amore” rischiano di essere soppiantati da considerazioni più crude e meno romantiche:

Le Donne nubili hanno una terribile propensione a essere povere – il che è un argomento molto forte in favore del Matrimonio[3]

parole che fanno il paio con quelle pronunciate da Charlotte Lucas nel cap. XXII di Orgoglio e pregiudizio:

Non sono romantica, lo sai. Non lo sono mai stata. Voglio solo una casa confortevole, e considerando il carattere, le relazioni sociali e la posizione di Mr. Collins, sono convinta che le possibilità di essere felice con lui siano favorevoli quanto quelle della maggior parte delle persone che iniziano la loro vita matrimoniale[4].

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La voce onnisciente della narratrice si colloca a metà tra il commento acido:

La stupidità con la quale egli era stato favorito dalla natura, metteva al riparo il suo corteggiamento da qualsiasi fascino che avrebbe fatto desiderare a una donna di vederlo durare a lungo, e a Miss Lucas, che l’aveva accettato solo per il puro e semplice desiderio di una sistemazione, non importava certo quanto in fretta fosse ottenuta quella sistemazione.

e la constatazione disillusa sulla condizione femminile dell’epoca:

Certo, Mr. Collins non era né intelligente né piacevole; era una compagnia noiosa, e il suo affetto puramente immaginario. Ma comunque sarebbe stato un marito. Senza aspettarsi molto dagli uomini e dal matrimonio, sposarsi era sempre stato il suo obiettivo; era l’unica soluzione onorevole per una signorina istruita e di scarsi mezzi, e per quanto fosse incerta la felicità che se ne poteva trarre, era sicuramente il modo più piacevole per proteggersi dalla miseria. Quella protezione l’aveva ormai ottenuta, e a ventisette anni, senza mai essere stata bella, era consapevole della sua fortuna.

Allo stesso tempo la giovane Elizabeth di belle speranze, pur cercando di ammorbidire il proprio giudizio nel colloquio con l’amica, non può fare a meno di riflettere amaramente su quel matrimonio:

Charlotte moglie di Mr. Collins era un quadro umiliante! E alla sofferenza di vedere un’amica abbassarsi e perdere la sua stima, si aggiungeva la penosa convinzione che sarebbe stato impossibile per quell’amica essere anche solo in parte felice nel destino che si era scelta[5].

La contrapposizione tra amore romantico e matrimonio d’interesse è uno dei temi ricorrenti nei romanzi di Jane Austen, ma rimane in una sfera irrisolta, con oscillazioni che fanno pendere il giudizio ora da una parte, ora dall’altra, sempre però con un atteggiamento che privilegia una visione realistica e poco propensa a passioni cieche.

L’impetuoso “sentimento” di Marianne Dashwood si scontra con la realtà di un Willoughby nient’affatto disinteressato, e persino lei tradisce comunque una visione concreta del matrimonio, visto che, pressata dalla sorella, non può fare a meno di parlare di soldi:

Eppure duemila l’anno è un’entrata molto modesta”, disse Marianne. “Una famiglia non può vivere bene con un’entrata più bassa. Sono certa di non essere esagerata nelle mie esigenze. Un appropriato numero di domestici, una carrozza, forse due, e cavalli da caccia, non potrebbero essere mantenuti con meno[6].

Anche in Mansfield Park la situazione matrimoniale della madre di Fanny Price, sposatasi per amore e contro il parere della famiglia, è descritta con crudo realismo:

Una famiglia numerosa e che continuava a crescere, un marito non più abile al servizio attivo, ma non meno propenso alla compagnia e al bere, e un’entrata molto esigua per provvedere ai loro bisogni, la resero impaziente di riprendere i rapporti con quei parenti che aveva sacrificato con tanta indifferenza[7].

In Persuasione la bilancia sembra oscillare a favore dell’amore romantico e disinteressato, come recita la frase più celebre del romanzo:

In gioventù era stata costretta alla prudenza, da adulta aveva imparato ad amare con passione; la naturale conseguenza di un inizio innaturale[8];

anche in questo caso, le parole pronunciate da Anne Elliot nella parte finale della vicenda, in difesa del comportamento avuto di fronte alle pressioni di Lady Russell, stemperano un giudizio troppo netto:

Ma voglio dire che era giusto da parte mia sottomettermi a lei, e che, se avessi fatto altrimenti, avrei sofferto di più nel proseguire con il fidanzamento che nel rinunciarvi, perché ne avrebbe sofferto la mia coscienza. Ora come ora, per quanto sia concesso un sentimento simile alla natura umana, non ho nulla da rimproverarmi; e se non sbaglio, un forte senso del dovere non è certo una dote negativa da parte di una donna[9].

Non so quanto credesse alla frase augurale: “Il matrimonio rende molto migliori” che, pronunciata per le imminenti nozze di Edward Bridges con Harriet Foot, suona tanto formula di circostanza[10], visto che molti degli esempi di unioni matrimoniali offerti dalla sua cerchia di conoscenze non brillavano per esiti positivi:

Miss Jackson si è sposata con il giovane Mr. Gunthorpe, e sarà molto infelice. Lui bestemmia, beve, è irascibile, geloso, egoista e Brutale[11].

Forse la frase più consona sul matrimonio è quella pronunciata da Mr. Woodhouse, che, refrattario a qualsiasi cambiamento all’interno del proprio focolare domestico, non vedeva motivo di augurarsi altri matrimoni dopo quello di Miss Taylor, pregando la figlia di non combinarne altri, visto che “sono cose insensate, e spezzano dolorosamente la cerchia familiare”[12].

Per Jane Austen fu la morte prematura a troncare quegli affetti che, nel restare nubile, aveva creduto di preservare.


Citazioni dei brani sono tratte dal sito curato da Giuseppe Ierolli, jausten.it, sez. “romanzi canonici”, e sez. Lettere.

Articolo basato su:

Romina Angelici, Jane Austen. Donna e scrittrice, Flower-ed, 2017, Roma.

Citazioni dei brani sono tratte dal sito curato da Giuseppe Ierolli, jausten.it, sez. “Romanzi canonici”, e sez. “Lettere”.

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Perché Jo non sposa Laurie.

Quello che generazioni di lettrici si sono domandate.

L’ho capito grazie alle lettere contenute nella raccolta intitolata Le nostre teste audaci pubblicata da L’Orma Editore.

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Ebbene proprio in questa raccolta troviamo la lettera indirizzata ad Alfred Whitman, uno dei primi giovani amici di Louisa, conosciuto nel 1857, compagno dei primi esperimenti teatrali,  presso la Concord Dramatic Union, al quale Louisa confessa le sue scelte letterarie. Lui era orfano di madre e molto più piccolo di lei, Louisa era molto materna nei suoi confronti e manterrà sempre un rapporto affettuoso con lui,

Innanzitutto scopriamo che il personaggio di Laurie è la risultante di due diverse conoscenze maschili che Louisa aveva fatto nella sua vita: Alfred Whitman appunto, con cui era rimasta in contatto durante tutti questi anni, e Ladislas Wisniewski, il musicista polacco incontrato in Europa.

Laurie sei tu e il mio polacco mescolati. Da te ho preso la metà responsabile, e dal mio Ladislas, un tipo davvero adorabile che ho conosciuto oltreoceano, quella gioiosamente irruenta[1]

Entrambi molto più giovani di lei, le loro liaison si erano concluse per volere di Louisa che aveva realizzato che non poteva esserci un futuro con loro, in particolare quella con Ladislas.  

L’incontro con il giovane pianista polacco avvenne durante il soggiorno nella cittadina di Vevey nell’agosto 1865, mente Louisa aera dama di compagnia di Anna Weld, signora benestante in cerca di un clima più congeniale alla sua salute malferma.

Esso sarà determinante per ispirare il personaggio di Laurie in Piccole Donne: Laddie, come Louisa lo soprannominò, era un simpaticone, di salute cagionevole e bravo pianista, tutte caratteristiche che ritroveremo.

Tra loro ne nacque un flirt, finirono per trascorrere due settimane insieme a Parigi, da soli -cosa abbastanza audace per l’epoca da parte di Louisa- ma è difficile per i biografi capire fino a che punto sia andata la faccenda; lei ha poi cancellato la parte del suo diario che faceva riferimento alla storia d’amore, e ha scritto a margine: “Non potrebbe andare”[2].

È probabile allora che nel mancato matrimonio tra Jo e Laurie ella abbia voluto risolvere queste esperienze fallimentari anche sulla carta, una volta per tutte, introducendo un terzo candidato, il professor Bhaer, ricalcato sul modello di Emerson di cui era innamorata da sempre.

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Bisogna darle atto che nel libro Louisa dà la possibilità al lettore di accettare la decisione di Jo e di abituarsi al nuovo stato di cose tra Amy e Laurie i quali, durante il viaggio in Europa consolidano il loro legame e scoprono di essere fatti l’uno per l’altro, così come a New York per Jo si apre un mondo grazie alle sue esperienze e agli insegnamenti del prof. Bhaer.

I film invece sorvolano parecchio su questo passaggio, facendoci ritrovare Amy e Laurie sposati senza nemmeno dare il tempo di metabolizzare la notizia. Ma si sa, i tempi e le esigenze cinematografiche sono diversi da quelli narrativi e non sanno rendere la persuasiva forza di Louisa che ci accompagna a vedere come Jo avesse ragione a considerarsi incompatibile con Laurie e quanto invece possa sentirsi valorizzata e realizzata dall’unione con il prof. Bhaer.

Di fatto generazioni e generazioni di lettrici si sono sentite per metà tradite da questo finale che forse si può capire solo con la maggiore età.

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Solo che ora questa lettera mette a nudo l’intento cinico di Louisa che confessa di aver voluto deliberatamente frustrare le aspettative delle sue giovani lettrici:

Tutte le mie giovani lettrici sono pazze d’amore per Laurie e insistono perché la storia abbia un seguito. Così ne ho scritto uno che ti farà ridere, specie quando leggerai con chi ti ho accasato. Tuttavia non sapevo come altro sistemare la mia famigliola, e ho voluto deludere le piccole pettegole secondo le quali Laurie e Jo dovevano convolare a nozze. Chi scrive si prende sempre tremende libertà, ma a te non dispiacerà essere un felice consorte e un orgoglioso papà, non è vero?[3]


[1] Louisa May Alcott, Le nostre teste audaci, a cura di Elena Vozzi, L’orma Editore, Lettera ad Alfred Whitman, del 6 gennaio 1869, p. 44.

[2] http://www.independent.co.uk/arts-entertainment/books/features/louisa-may-alcott-little-women-google-doodle-writer-author-5-things-you-didnt-know-a7445106.html

[3] Louisa May Alcott, Le nostre teste audaci, a cura di Elena Vozzi, L’orma Editore, Lettera ad Alfred Whitman, del 6 gennaio 1869, p. 44.