In una soleggiata mattina d’inverno può capitare di imbattersi in una deliziosa favola celtica che raccoglie come un magico scrigno sentimenti nobili e puri.
Nella favola di Lorenza Carlassare ci sono una dolce bambina, Arabella, curiosa e sveglia, una forte amicizia tra Gladys e Lavinia, anche se la vita le ha poste su gradini diversi della scala sociale, un legame matrimoniale messo a dura prova, l’incerto destino di un castello in pericolo, l’affascinante sfondo dell’ambientazione scozzese, il mistero di un arazzo ritrovato.
Il tutto narrato in modo soave, per la maggior parte del libro, dalla stessa Arabella, con i suoi accenti teneri e simpatici, sicuramente accattivanti.
La storia si fonde con la leggenda, il presente si scopre collegato al passato e il paesaggio incantato della Scozia non smette di sprigionare il suo fascino per tutti questi aspetti tipici che lo contraddistinguono e lo distinguono dal resto facendone un piccolo mondo a parte.
Arabella assomiglia a una creatura fatata dei boschi che vive in profonda sintonia sia con gli affetti più cari e vicini sia con la natura che la circonda e in cui ogni giorno si immerge. Caratterizzata da una divertente fame infinita, dobbiamo soprattutto alla sua fame di conoscenza -e in qualche caso pettegolezzi- la scoperta di tutte le complicate e continue questioni che affliggono il mondo dei grandi e che rischiano di mettere in pericolo la serenità del suo nucleo familiare allargato di cui è gelosissima.
Un libro che fa bene al cuore, da cui farsi tenere compagnia in qualsiasi stagione dell’anno, pervaso dalla luce inconfondibile della purezza.
Che la favola di A sunny winter’s morning abbia inizio:
Era un luminoso mattino d’inverno quello nel quale mi svegliai.
…
Una luce bianca e forte filtrava attraverso le tende tirate, rischiarando la stanza da letto, i mobili di noce scuro e la carta da parati con le rose damascene, donando al tutto una bellissima atmosfera, viva e piena d’energia.
Una strana luce, pensai prontamente, forse anche troppo intensa.
… Oggi è il solstizio d’inverno.
Le placide acque del fiume Teith scorrono vicine alla vita di Arabella Haeddre, la piccola protagonista del romanzo, ed assieme a lei scorrono le vite di sua madre, Gladys Mary, e della coppia con la quale vivono e lavorano come dame di compagnia: Lavinia e James Stewart. Una vita apparentemente serena all’ombra del castello di Doune, che cela al suo interno un segreto che verrà riscoperto grazie al ritrovamente di un arazzo medievale: il destino della Scozia poteva essere diverso! E sotto le acque del fiume si agitano passioni e desideri , amori non corrisposti, gelosie, animi intrepidi e coraggiosi della protagonista, che farà di tutto per aiutare i suoi amici nel coronare il loro sogno di diventare genitori. Fra i vapori della distillazione del whisky, il profumo delle torte preparate dalla cuoca Kirstie, i paesaggi luminosi e rarefatti della campagna scozzese ed echi di antichi clan e mansueti lupi selvatici, una storia fatta di piccole quotidianità e grandi amori, in un’epoca sospesa nel tempo, come in tutte le favole.
Nella sua autobiografia scritta per l’Autodizionario degli scrittori italiani, Lalla Romano si descrive così:
Il suo nome dal bel suono rotondo – il suo nome di bambina – regge ancora a ottantatré anni? Lei non dà molto peso alle date e quindi la questione non si pone. Comunque si è chiamata anche Graziella Monti: come insegnante di scuola media, come consorte di un impiegato di banca, poi funzionario, poi chairman. La distinzione è stata comoda, dice, per scantonare. Lalla Romano ama i suoi libri, non troppo se stessa; se viene proclamato il suo nome, prova imbarazzo. Perfino disagio. In quanto alla tarda età, anche di questo non si vergogna, come persona, ma in un certo senso come autore: supponendo negli altri l’aspettativa di una maggiore importanza. La cosa ha risvolti comici. La Romano ha riso di cuore alla simpatica gaffe del suo editore (nuovo) che le disse ammirato: «Ma tu sei lucidissima!». Lei sa – lo ha appreso dal suo medico – che altra è l’età anagrafica, altra l’età biologica, che è quella reale. «Se fossero anche dieci di meno» – commenta – «sarei comunque vecchissima»
Graziella Romano, detta Lalla (Demonte, 11 novembre 1906 – Milano, 26 giugno 2001), è stata una poetessa, scrittrice, giornalista e aforista italiana ma l’amore per la scrittura venne tardi e il suo progetto artistico inizialmente riguardava la pittura. Mentre frequenta l’università a Torino, il “maestro” Lionello Venturi, le suggerisce di iscriversi alla scuola di pittura di Felice Casorati. Lalla frequenta la scuola e contemporaneamente lo studio del pittore Giovanni Guarlotti, dove inizia ad occuparsi di critica d’arte, e compie numerosi viaggi a Parigi, dove rimane affascinata e molto colpita dai fermenti culturali e pittorici del quartiere latino. Dopo essersi laureata con una tesi sul dolce stilnovo si sposa e insegna storia dell’arte continuando a coltivare la sua passione per la poesia e la pittura.
Lalla Romano tra i grandi.
Eugenio Montale, con un giudizio positivo sui suoi versi, la incoraggia a pubblicare alcune sue poesie e il 1941 segna il suo esordio come poetessa con la raccolta Fiore, pubblicata da Frassinelli dopo il rifiuto della Einaudi. La Romano, a dimostrazione del suo carattere riservato, chiuso ma anche molto determinato, invia una copia fresca di stampa all’editore Giulio Einaudi, con dedica “a chi non ha voluto stampare questo libro”. Questo lato del carattere severo, rigoroso, introverso, portato a scavare nell’intimo, diventa l’impronta più specifica del suo percorso letterario. Nel frattempo Pavese le commissiona la traduzione dei Tre racconti di Gustave Flaubert (1943).
L’opera che rivela la scrittrice al grande pubblico è il romanzo Le parole tra noi leggere, che ottiene il Premio Strega nel 1969, il cui titolo è tratto da un verso di Montale della raccolta La bufera e altro, che recita: «… le parole / fra noi leggere cadono. Ti guardo / in un molle riverbero.» In esso la Romano descrive e analizza il rapporto con suo figlio, ragazzo difficile e ribelle, asociale e anticonformista. Il libro riscuote un notevole successo, forse anche perché tratta i temi propri della rivolta giovanile, particolarmente sentiti in quel periodo.
Un aspetto significativo della sua produzione letteraria sono i cosiddetti “romanzi per immagini”, racconti fotografici nei quali i commenti rafforzano il valore assoluto dell’immagine. Si ricordano in particolare Lettura di un’immagine (1975), Romanzo di figure (1986), Nuovo romanzo di figure (1997). I critici, tra cui Montale, Carlo Bo, Pasolini, Ferroni, Segre – che ne ha curato la pubblicazione delle opere in due volumi (1991-92) nei Meridiani Mondadori – hanno indicato le linee interpretative dei suoi scritti nella paziente investigazione dell’esistenza, nella ricerca della verità e nell’accostamento articolato fra scrittura e pittura.
I suoi romanzi
Nel 1951 pubblica, nella collana “I Gettoni”, curata da Elio Vittorini per Einaudi, il suo primo libro di narrativa, Le metamorfosi. Tra i libri successivi, per la maggior parte pubblicati da Einaudi, si segnalano: Maria (1953), Tetto Murato (1957), Diario di Grecia (1960; 1974), L’uomo che parlava solo (1961; 1995), La penombra che abbiamo attraversato (1964), Le parole tra noi leggere (1969, Premio Strega), L’ospite (1973), Una giovinezza inventata (1979), Inseparabile (1981), Nei mari estremi (1987; 1996), Un sogno del Nord (1989), Le lune di Hvar (1991), In vacanza col buon samaritano (1997), Dall’ombra (1999).
E’ lei stessa a parlare della sua scrittura:
La sua prima opera edita era di poesia (Fiore); la seconda (Le metamorfosi), pure essenzialmente poetica, consisteva di brevi prose (relazioni di sogni) raggruppate sotto epigrafi immaginarie che ne suggerivano l’ispirazione. Solo Vittorini la trovò divertente; ne lodò anche la preziosità letteraria, di carattere europeo. Era un po’ un libro della fine e invece fu al principio. Tale è stato l’esordio di Lalla Romano.Il terzo libro, Maria, piacque anche alla gente, ma fu vittima di un equivoco: lo considerarono un’espressione del neorealismo, ma era una sciocchezza. L’equivoco fu ribadito con La penombra che abbiamo attraversato. All’autrice affibbiarono il titolo in apparenza non offensivo, anzi nobile, di “scrittrice della memoria”. Titolo generico, insufficiente; infine anche falso, in quanto usato nell’accezione di “scrittore di ricordi”. La Romano considera aneddotica i ricordi, una sorta di pettegolezzo interiore. Così, altrettanto facile e superficiale l’accusa di autobiografismo per tutti i romanzi seguenti. Solo Una giovinezza inventata era in parte anche questo, come testimonianza di un ambiente e di un tempo. Qual è dunque l’oggetto della sua scrittura? Non è la scrittura stessa; la scrittura, secondo Lalla Romano, ha solo il compito della trasparenza.
La vita, l’esistenza è troppo ricca, è implacabile.
Il declino
Nel 1986, dopo la scomparsa del marito, inizia per l’infaticabile, tenace ed anticonformista scrittrice una nuova vita: conosce un giovane fotografo e giornalista, Antonio Ria, che sarà il compagno di vita e di lavoro degli ultimi tempi. Nonostante la differenza di età li accomuna l’amore per l’arte sotto tutti i profili, sia umani ed esistenziali che progettuali. Con lui pubblica, primo di una serie di volumi con fotografie, La treccia di Tatiana. Negli ultimi anni continua a scrivere e, nonostante una progressiva malattia agli occhi la consegni ad una cecità quasi totale, assistita amorevolmente dal suo compagno Antonio Ria, lascia incompiuto nel gennaio del 2001, dopo una lunga stesura iniziata a marzo del 2000, Diario ultimo. Il libro sarà poi pubblicato postumo, a cura di Antonio Ria, nel 2006, ovvero nel centenario della nascita della scrittrice.Dopo pochi mesi muore, il 26 giugno del 2001, a Milano, nella sua amata casa di via Brera
Il 15 maggio 1886 Emily Dickinson incontrava la morte che tanto l’aveva affascinata e conturbata.
Voglio ricordarla parlando di Dickinson, serie di Apple TV creata da Alena Smith, che ci parla della sua poesia.
Durante i dieci episodi di questa prima stagione si rivisita il percorso della poetessa Emily Dickinson in chiave decisamente moderna, e anche divertente a tratti.
Hailee Steinfield, attrice e cantante, interpreta il ruolo della protagonista e lo fa in modo assai espressivo, utilizzando i suoi talenti artistici.
L’intento della serie è quello di raccontare la storia di Emily, partendo da una adolescenza tormentata, con una famiglia che la schiaccia e non solo non la sostiene nei suoi sforzi artistici, ma cerca di incastrarla nel più tipico dei ruoli femminili dell’epoca, quello di donna dedita alla casa e al marito. Caratteristiche queste che non necessariamente debbono applicarsi a uno specifico contesto storico ma che danno voce alle tipiche esigenze delle giovani generazioni in una solidale condivisione.
Accantonata la versione ammorbante di The Quiet Passion che sembra dimenticare la complessa personalità e genio della poetessa di Amherst per ridurre il suo dissidio interiore a una mera questione di credo, in questa serie Emily può dare voce a tutte le sue sfaccettature poliedriche. E mostrano che tipo di personaggio eclettico, complesso, profondo, anticonformista sia stata.
Emily è una teenager che si trova a doversi relazionare con i familiari, la società, il mondo esterno, la natura, la fede e la morte. Quest’ultima è riproposta come un pensiero ricorrente e ben presente nella vita della ragazza, esercitando su di lei un fascino sensuale e macabro tanto da far decidere nella serie di personificarla.
Poiché non potevo fermarmi per la Morte – Lei gentilmente si fermò per me – La Carrozza non portava che Noi Due – E l’Immortalità –
L’ossessione della morte appartiene al poeta per definizione. Tanto quanto l’amore. In Emily Dickinson la sublimazione passa per il processo creativo che coinvolge l’intero suo essere. E indubbiamente questa versione ha lasciato ad essa ampio spazio.
Come ogni ragazza di quell’età Emily fatica a tenere a bada il coacervo di emozioni che si agitano nel suo petto, fatica a tacere davanti alle ingiustizie e alle disuguaglianze innalzando verso di esse una protesta che almeno all’inizio è sonora e vibrante.
La serie è indubbiamente confezionata per parlare ai giovani di oggi, e infatti racconta di un’adolescente alle prese con l’amore, i rapporti con i genitori, l’amicizia, la sua voglia di vivere, sullo sfondo di un’America del XIX secolo.
L’operazione di accostamento potrebbe destabilizzare dapprima, anche perché alcuni riferimenti biografici sono molto rielaborati e le licenze poetiche abbondano, ma non se si comprende il messaggio ultimo veicolato dalla serie e cioè quello di parlare alle generazioni attuali in un modo e un linguaggio che risulti a loro comprensibile.
I dieci episodi della prima edizione (la seconda è in lavorazione) ruotando intorno a Emily, indiscussa protagonista, ne riconoscono però il giusto ruolo centrale e carismatico e di cui alla fine si finisce per apprezzare l’effetto sdrammatizzante.
Ovviamente i giudizi non sono unanimi, c’è chi l’ha definita una serie che nasce ambiziosa e finisce pretenziosa, chi invece la meno attesa e la più riuscita di Apple TV; credo vada apprezzata senza preconcetti e senza farsi condizionare da paragoni o eccessivo rigore. Non come documentario biografico ma adattamento efficace e coinvolgente.
In ogni caso scenografia e costumi sono bellissimi, e anche la colonna sonora. A proposito, una curiosità: la canzone “Afterlife”, quella che fa da sottofondo al trailer, è cantata dalla stessa Hailee Steinfeld.
Antonia Pozzi giovane poetessa italiana, praticamente ignorata dai libri di scuola. Della sua breve e intensa vita, del suo tragico destino. 13 febbraio 1912 – 3 dicembre 1938.
Figlia dell’avvocato milanese Roberto Pozzi e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi, risiede a Milano, nei pressi di corso Magenta; sarà però Pasturo, in Valsassina (Lecco), dove la famiglia acquista nel 1917 una casa settecentesca, a rappresentare il locus amoenus di ispirazione alle sue liriche. Antonia scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel Regio Liceo-Ginnasio Alessandro Manzoni di Milano, dove intreccia con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che verrà interrotta nel 1933 a causa delle forti ingerenze da parte dei suoi genitori.
L’ambiente altolocato di appartenenza offre alla giovane molteplici stimoli culturali: la frequentazione di un circolo sociale esclusivo, un palco riservato alla Scala e – chance non comune all’epoca – la possibilità di viaggiare. Antonia suona il pianoforte, dipinge, si dedica alla fotografia, pratica il nuoto, il tennis, lo sci, l’equitazione. E’ una bionda bellezza esile e raffinata, con i bei capelli ondulati tagliati corti, stile Anni Trenta. Il mondo sembra spalancarsi dinanzi a lei, caleidoscopio rutilante di opportunità ed emozioni. Quando si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, nel 1930, sembra aprirsi per lei un nuovo capitolo, il più felice, della sua breve esistenza. Frequenta molti dei nomi più importanti del firmamento intellettuale milanese di quegli anni, da Vittorio Sereni ad Enzo Paci, da Luciano Anceschi a Remo Cantoni, ma nessuno avrà maggiore influenza su di lei del docente di estetica Antonio Banfi, con cui si laureerà nel 1935.
Una vita breve ma intensa, favorita dalle condizioni benestanti della famiglia alla cui ristrettezza di vedute e mentalità cerca di sfuggire. Viaggi, foto, poesie ma anche volontariato in prima persona! Nel novembre 1935 si laurea discutendo una tesi sulla formazione letteraria di Flaubert. Tra il 1934 e il 1935 si innamora di Remo Cantoni che, convalescente dopo un attacco di tubercolosi, viene ospitato a Pasturo. Si tratta però di un rapporto a senso unico, dacché non si concretizzerà mai in una duratura relazione affettiva. E viaggia: in Inghilterra, nel 1931; in Austria, nell’estate 1936; nel febbraio 1937 a Berlino, Dresda, Praga. A partire dall’autunno 1937 insegna materie letterarie presso l’Istituto Schiaparelli di Milano, cosa che rappresenta per lei un tentativo di ri-costruzione di sé e di emancipazione dai genitori. Pratica anche, insieme a Lucia Bozzi e a Dino Formaggio, molto volontariato (altro momento formativo) presso la Casa degli Sfrattati di via dei Cinquecento.
All’amica Alba Binda parla anche di Dino Formaggio: «è così immensa la gioia di aver incontrato un’anima che mi capisce, mi valuta e mi vuol bene proprio unicamente per quella parte di me che io ritengo la migliore e la più vera […]. Credo che il carattere energico e ottimistico di Dino […] abbia influito non poco sul mio stato d’animo di ora!
Poi la Storia, con la sua urgenza, irrompe anche nel ritiro dorato di Antonia: è il 1938 e le leggi razziali fasciste colpiscono alcuni dei suoi amici più cari. La giovane scrive, amara, al Sereni: “l’età delle parole è finita per sempre”. Il male di vivere, di cui soffre da tempo, si acuisce.
Suonano i passi come morte cose
Scagliate dentro un’acqua tranquilla
Che in tremulo affanno rifletta
Da riva a riva
L’eco cupa del tonfo.
“Morte” è una parola dolorosamente ricorrente nei suoi versi. Pericolosamente ricorrente. E la morte, infine, si materializza e se la porta via il 3 dicembre 1938, quando Antonia decide di avvelenarsi con dei barbiturici nei prati antistanti l’abbazia cistercense di Chiaravalle. Il suo biglietto di addio ai genitori parla di un’invincibile “disperazione mortale”, ma la sua famiglia nega a lungo la circostanza del suicidio, per evitare lo scandalo.
Tra le numerose poesie che scrive ispirandosi alla natura e ai suoi sentimenti accorati, spunta un progetto di romanzo. Durante l’estate del 1938, a Pasturo, oltre a tradurre parzialmente Lampioon di Manfred Hausmann, sperimenta la scrittura in prosa: dopo il tentativo abbozzato nel 1935, intende progettare un romanzo che, ispirato alla vicenda della sua famiglia, sia «la storia della nostra pianura lombarda, e della vita lombarda dal 1870 in poi», ponendovi al centro la nonna Maria Gramignola (chiamata affettuosamente «Nena»). Si tratta, negli intenti almeno, di una storia di luoghi più che di persone: la ricostruzione, trasfigurata, della discendenza matrilineare che da Tommaso Grossi porta a Elisa Grossi, a Maria Gramignola, a Lina Cavagna e finalmente a lei. Antonia è entusiasta: «soltanto da un anno, posso dire, ho cominciato sul serio a vivere. E tu non puoi credere, in questi giorni freschi, dolcissimi, di recupero e di rinnovamento fisico, sotto le foglie delle mie amate piante, quanti pensieri lieti e fattivi mi passano così, tra l’ombra e il sole […]».
Le liriche pozziane sono state tutte pubblicate postume; la prima raccolta di Parole, in edizione privata, è uscita nel 1939, a cura del padre. Antonia era molto diversa, molto lontana dall’immagine convenzionale che il padre, Roberto Pozzi, manipolando i suoi scritti, aveva voluto trasmettere al pubblico in base alla sua mentalità di uomo dell’800 e ai canoni perbenistici di una certa borghesia italiana di epoca fascista – spiega Bernabò -. In realtà, Antonia, a mio parere, appare da ogni parola come una figura in netto anticipo sui tempi, cioè come una giovane donna appassionata e interiormente libera. Perciò molto attuale. In un’epoca come quella fascista, nella quale dominava l’idea che la donna dovesse essere succube dell’uomo – nel suo caso il padre –, Antonia fece tutto il possibile per difendere il proprio diritto alla vita e all’amore al di fuori degli schemi familiari e sociali che le venivano imposti”. L’amore è un’energia fondamentale per Antonia Pozzi, “era un trasporto insieme spirituale e fisico, anche indipendentemente da una sua concreta realizzazione – sottolinea la biografa –. Nelle sue liriche d’amore è sempre presente una forte tensione dell’anima che però non esclude la passione, il desiderio. Più in generale, Antonia Pozzi era generosamente aperta alla complessità della vita e del mondo, di cui sapeva cogliere tanto la bellezza e la gioia quanto il dolore”.
Vorrei che la mia anima ti fosse leggera come le estreme foglie dei pioppi, che s’accendono di sole in cima ai tronchi fasciati di nebbia –
Vorrei condurti con le mie parole per un deserto viale, segnato d’esili ombre – fino a una valle d’erboso silenzio, al lago – ove tinnisce per un fiato d’aria il canneto e le libellule si trastullano con l’acqua non profonda –
Vorrei che la mia anima ti fosse leggera, che la mia poesia ti fosse un ponte, sottile e saldo, bianco – sulle oscure voragini della terra.
5 dicembre 1934
Le parole di Marco Ongania che insieme a Sabrina Bonaiti ha diretto il film documentario ispirato alla sua vita, “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa”, prodotto in collaborazione con la Lecco Film Commission sono emblematiche:
“L’aspetto che più mi sconvolge è la coesistenza di tanta voglia di vivere in una persona che ha scelto di morire. La forza e la tenacia di ripartire che alberga in una anima estremamente sensibile, che diviene fragile. In un mondo che pretende una resilienza che non a tutti è data e che spesso appare come cinismo”.
Eva Giovanna Antonietta Cattermole, detta Evelina o più semplicemente Lina, nacque a Firenze il 26 ottobre 1849 da padre scozzese e madre eccellente pianista. Era la terza figlia di Guglielmo, che aveva avuto altri due figli, l’omonimo Guglielmo e Eufrosina, nati da due precedenti matrimoni e si era trasferito a Firenze dove insegnava inglese all’istituto tecnico di Firenze; da lui apprese il francese, l’inglese e lo spagnolo, mentre la madre l’avviava allo studio della musica. La data di nascita è stata a lungo controversa, pare falsificata dalla stessa Evelina per apparire più giovane. Maria Freschi Borgese ha ritrovato a Firenze il certificato originale di nascita, che incontrovertibilmente la indica come nata a Firenze il 26 ottobre 1849.
Come vuole la storia da lei stessa divulgata, i primi versi di Evelina furono scritti spontaneamente come accompagnamento a un mazzo di fiori offerto in regalo alla madre. Nel 1867 fu pubblicata la sua prima raccolta Canti e Ghirlande per l’editore Cellini a Firenze, con poesie di carattere occasionale molto ingenue, che mostrano chiare influenze di Aleardi, Prati, Dall’Ongaro, ma ricevettero le stroncature di Benedetto Croce e di Giosuè Carducci. La pubblicazione è successiva alla morte della madre di Evelina.
Tra di noi
Una lanterna giapponese accende
d’un vermiglio riverbero i ricami
del grande arazzo, ove un guerrier discende,
tutto d’oro, d’un loto alto fra i rami.
Qui sono i versi suoi dentro uno scrigno
niellato da un mastro fiorentino,
e in una coppa a cui s’avvolge un cigno
ho un suo mazzo di rose a me vicino.
Ma le strofe che han musica d’amore
quale non l’udì mai regina in soglio,
le rose che de’ suoi baci hanno odore, non mi bastano più.
Lui solo io voglio…!
La vita sentimentale di Evelina fu molto burrascosa e decisamente drammatica, tanto che il primo matrimonio finì con un duello.
Evelina frequentava alcuni salotti prestigiosi, tra cui quello di Laura Beatrice Oliva, detta la Corinna Italica, moglie del giureconsulto Pasquale Stanislao Mancini marchese di Fusignano, entrambi impegnati nella causa del Risorgimento Italiano. Evelina divenne amica delle loro figlie e, frequentando la loro cerchia di amici, conobbe il tenente dei bersaglieri Francesco Eugenio Mancini, nato nel 1845, figlio terzogenito dei padroni di casa, del quale si innamorò. Lo sposò il 5 marzo 1871, nonostante l’opposizione della famiglia di lui. Subito dopo il matrimonio seguì il marito, trasferito per servizio, prima a Roma, poi a Napoli e successivamente a Milano. Qui Evelina ebbe modo di venire a contatto con alcuni esponenti della Scapigliatura e creò un proprio salotto letterario dove riceveva artisti e scrittori mentre il marito si dedicava al gioco d’azzardo e al teatro (cioè alle attrici). Lei conobbe il giovane veneziano Giuseppe Bennati Baylon, impiegato al Banco di Napoli, se ne innamorò. Con la complicità della cameriera Giuseppina Dones, divenne la sua amante ma il marito si accorse dei pettegolezzi e costrinse la cameriera a rivelargli che gli amanti si incontravano in una garçonnière di via dell’Unione. Lì, li colse in flagrante e sfidò l’amante a duello per vendicare il proprio onore.
Il duello tra il marito e l’amante di Evelina terminò con il ferimento e quindi la morte di quest’ultimo. Seguì un processo contro Francesco Mancini da cui fu assolto per omicidio d’onore ma lo scandalo fu enorme tanto che Evelina fuggì da Milano e non essendo stata riaccolta in casa dal padre, si rifugiò presso la nonna, sempre a Firenze. Le ristrettezze economiche per un lungo periodo la tormentarono, e la costrinsero a pubblicare poesie e articoli su riviste per poter guadagnare qualcosa. A questo punto inizia a usare lo pseudonimo di Contessa Lara, per sfuggire all’ostracismo e ai pettegolezzi di cui è oggetto.
Si trasferisce a Roma dove l’editoria è più vivace e le nuove testate si moltiplicano e proliferano. In questo periodo Evelina scrive molte delle sue opere, Così è, L’innamorata, Novelle di Natale, Una famiglia di topi, Il romanzo della bambola e pubblica diverse raccolte di liriche tra cui Storie d’amore e di dolore, E ancora versi.
Collabora in quel momento con le migliori testate dall’Illustrazione Italiana alla Tribuna Illustrata, dal Corriere della Sera al Fanfulla della Domenica, dal Germinal diretto da Enrico Corradini alle Cronaca Bizantina di Angiolino Sommaruga. Per la Tribuna Illustrata tiene la rubrica “Il salotto delle signore” dove fornisce consigli e indicazioni di comportamento, piuttosto in contrasto con il suo reale stile di vita, seguitissima dall’alta borghesia femminile che ne divora ogni puntata. Il pubblico l’adora. Ormai per tutti è la Contessa Lara. A Roma tiene anche un salotto che riscuote un discreto successo, molto ben frequentato. D’estate si reca in vacanza a Riva Trigoso dove dà scandalo prendendo bagni di mare in costume succinto e offre prova di una certa lungimiranza riuscendo a conservare anche i rapporti con coloro che l’hanno osteggiata o che hanno stroncato le sue opere a livello critico, come fa con Matilde Serao.
L’innamorata è un libro che a una lettura appena attenta si rivela davvero sorprendente: al di là degli stereotipi, del verismo cartolinesco, dei languori alla D’Annunzio, dei facili colpi di scena, traspare in ogni pagina la modernissima paura della fragilità delle passioni. Nessuna invocazione dell’amore eterno, dunque, ma la drammatica parabola tracciata dal logorio del tempo che fa naufragare ogni emozione nel disgusto reciproco:
“II suo cuore, improvvisamente, era entrato nel buio, si era chiuso come una tomba, dove non c’era più né desiderio, né speranza, né dolore, né nulla. Era questo, dunque, l’amore?“.
Durante il periodo romano coltiva più di un’amicizia. Prima con il poeta Mario Rapisardi che la incoraggia nella scrittura delle sue liriche, la corregge, la instrada e scrive per lei lettere di presentazione per vari giornali, riviste e case editrici.
Poi, alla redazione del “Nabab” conosce tra gli altri Gabriele d’Annunzio che pare abbia subito il fascino di donne del mistero e seduttiva di cui era avvolta e che immancabile, le dedica versi piuttosto espliciti e compromettenti, consentendo ai suoi biografi di annoverarla tra le sue possibili amanti.
“Sta Lady Phoebe Cynicythere su’ damascato letto ampio e profondo: splende la nudità, nell’ombra e il biondo capo sorride da l’origliere. Erto su l’esili zampe il levriere di Scozia le lambisce il sen rotondo…”.
In questo periodo Evelina si lega a Giovanni Alfredo Cesareo, giovane promessa della letteratura siciliana. Lui ha venticinque anni e lei trentasei, la loro relazione, tra alti e bassi, ne dura dieci. Vivono insieme dal 1886 come una coppia regolare ma per misteriose ragioni non si sposano, e finiscono per lasciarsi quando lui, nel 1894, ottiene una cattedra all’Università di Palermo.
De Gubernatis mandò a casa di Eva un suo collaboratore alla rivista Vita italiana, Giuseppe Pierantoni, un pittore napoletano di 25 anni, di scarso talento e che viveva alla giornata. Eva cominciò ad aiutarlo, raccomandandolo ai propri amici e invitandolo a cenare da lei. Nel febbraio del 1895 la relazione tra i due diventa di natura sentimentale e intima. Presto si accorge che lui oltre ad avere una natura violenta, la usa solo per spillarle denaro.
Eva muore l’anno seguente per mano del giovane amante colpita da un colpo di revolver, la pistola che avrebbe dovuto proteggerla, regalatole da un amico, per difesa personale data l’irascibilità dell’amante. In seguito ad un violento alterco, avvenuto per futili motivi, partì un colpo. La pistola era di piccolo calibro, e la sventurata non morì subito. Ma anche qui, come in recenti fatti di cronaca, Pierantoni e la domestica persero troppo tempo prima di decidersi a chiamare i soccorsi. Fra l’altro, il notaio che curò il testamento della scrittrice, sparì col denaro e la salma di Evelina fu deposta in una fossa comune.
La morte della scrittrice provocò molto scalpore. Erano le sette di sera, di martedì 1 dicembre 1896, e la notizia fece il giro di tutta Roma. Per giorni non si parlò d’altro: la bella ed inquieta Contessa Lara – nome romantico, come disse Benedetto Croce – era stata barbaramente assassinata. Uccisa a soli 47 anni, da un colpo di pistola sparato dal suo giovane amante Pierantoni – per i bene informati, chiamato Bubi.
“Una donna è stata uccisa lì, nella sua dimora, nella casa che dovrebbe per tutti essere sacra, dove nessuno poteva difenderla dall’oltraggio e dalla violenza d’un malfattore. Una donna di alto e fino ingegno; d’animo caldo e gentile, un temperamento di bimba carezzevole, troppo bisognosa di affetto e di gioia; una lavoratrice indefessa che aveva saputo farsi uno stato nel campo delle lettere e ciò non è poco specialmente in Italia”.
Assomiglia tristemente a un passo di cronaca attuale di femminicidio.
La sua vita tormentata fece scalpore e oltre a procurare periodiche censure alle sue opere, offuscò sia la sua memoria sia la sua letteratura, gettandovi un alone di sensazionalismo e di sospetto. Ciò nonostante, non sono mancate sue biografie, anche romanzate, come il libro di Carolina Invernizio, Lara l’avventuriera.
L’assurdo di tutta questa situazione, che fa dire ancora una volta che la realtà supera spesso la fantasia, è il dato che ella sia perita di morte violenta così come aveva fatto fare alle sue eroine.
La Contessa Lara che invece emerge dalle sue poesie anela alla tranquillità dell’ambiente domestico e alla semplicità dei valori tradizionali, al desiderio di rifugiarsi in un luogo appartato dal mondo in cerca di pace.