Archivio | luglio 2018

Emily Bronte, secondo Virginia Woolf

Emily Brontë […] doveva essersi bruciata il cervello nella brughiera o si aggirava gemendo per le strade, resa folle dalla tortura che il suo stesso talento le infliggeva” (Una stanza tutta per sé).

Cime tempestose è un libro più difficile da capire di Jane Eyre, perché Emily era più poeta di Charlotte. Scrivendo, Charlotte diceva con eloquenza e splendore e passione «io amo», «io odio», «io soffro». La sua esperienza, anche se più intensa, è allo stesso livello della nostra. Ma invece non c’è «io» in Cime tempestose. Non ci sono istitutrici. Non ci sono padroni. C’è l’amore, ma non è l’amore tra uomini e donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L’impulso che la spingeva a creare non erano le sue proprie sofferenze e offese. Rivolgeva lo sguardo a un mondo spaccato in due da un gigantesco disordine e sentiva in sé la facoltà di riunirlo in un libro. (…) Il suo è il più raro dei doni. Sapeva liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti; con pochi tocchi indicare lo spirito di una faccia che non aveva più bisogno di un corpo; parlando della brughiera far parlare il vento e ruggire il tuono”. (Voltando pagina. Saggi 1904-1941)

Jane Austen ed Emily Bronte accomunate da parole di ammirazione per il loro genio:

“Che genio, che integrità dev’esserci voluta, davanti a tutta quella critica, in mezzo a quella società puramente patriarcale, per tenersi saldamente alla realtà, così come la vedevano, senza deflettere! Solo Jane Austen ed Emily Bronte l’hanno fatto. Questa è un’altra piuma, la più bella forse, sui loro cappelli. Scrissero come scrivono le donne, non come scrivono gli uomini. Fra le mille donne che allora scrivevano romanzi, solo loro ignorarono del tutto i perpetui ammonimenti dell’eterno pedagogo: scrivi questo, pensa quello. Solo loro furono sorde a quella voce insistente, ora brontolante, ora condiscendente, ora autorevole, ora addolorata, ora scandalizzata, ora arrabbiata, ora familiare, quella voce che non lascia in pace le donne, ma deve sempre star loro addosso…” (Una stanza tutta per sé).

 

Emily Bronte

 

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Voglio raccontarvi l’esperienza di ieri sera quando ho partecipato a questa lezione spettacolo: nella suggestiva cornice della Rocca Tiepolo a Porto San Giorgio, eretta a fortificazione del feudo di Fermo intorno al Duecento, voluta dal signore Lorenzo Tiepolo appunto, si è compiuto questo viaggio dentro il romanzo di Cime tempestose, e inevitabilmente dentro alla vita e alla persona fuori dal comune che era Emily Bronte. L’impresa era ardua perché la trama, come ha detto Cesare Catà, facendoci sorridere era leggermente “intorcinata”, ma con la sua capacità affabulatoria nonché grazie alle doti artistiche dell’attrice Pamela Olivieri, tutto è risultato piacevole, scorrevole e tremendamente poetico sullo sfondo delle musiche di Fabio Capponi, composte, se non erro, per l’occasione. Un’esperienza emozionante, una interpretazione appassionata e appassionante, una lezione-spettacolo molto coinvolgente.

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Su e giù per le scale di Monica Dickens

Titolo : Su e giù per le scale

Autore: Monica Dickens * (sì, quel Dickens)

Editore: Elliot

Campionario assortito di innumerevoli e insolite situazioni tipo di cuoche di interni inglesi. Sì, perché quello che ci presenta Monica Dickens è un fenomeno tipicamente inglese sia che lo si guardi dall’avere dei domestici a servizio (specialmente per l’aspetto culinario), sia dall’andare a servizio tramite agenzie e annunci di lavoro. L’autrice ci racconta in un memoir la sua esperienza personale attraverso una successione di incontri con datori di lavoro strani improbabili, simpatici, in casi sporadici anche gentili, e allo stesso tempo aprendo le porte di servizio dei piani inferiori su diverse tipologie domestiche e familiari: in città, periferia, o in campagna.

Seguendo la scia del sempre crescente interesse per la categoria dei domestici come dimostrano il successo televisivo della serie Downton Abbey e quello letterario di M. C. Beaton, con 67 Clarges Street o lo stesso romanzo Longbourn House, qui la prospettiva è individuale: è l’occhio del singolo, della cuoca tuttofare, che di estrazione borghese, veste gli abiti dimessi di Monty, col suo cappello sbiadito, a cogliere le particolarità, le fatiche, le ingiustizie sociali e i difetti umani venuti alla luce in questa situazione.

Monica è simpatica, un po’ imbranata, brava in cucina ma non perfetta, colleziona soufflè sgonfiati e arrosti bruciati accanto a succulente omelette della cui riuscita si stupisce da sola. Figlia di una famiglia di ceto medio-borghese, ribelle e anticonformista, espulsa da una rinomata scuola-bene, vuole sperimentare cosa significa guadagnarsi da vivere e soprattutto cucinare. I menù presentati sono poco utili in quanto offrono poche idee mutuabili ma sicuramente interessanti per la luce che gettano sull’alimentazione inglese e sui piatti e le ricette nelle case delle famiglie.

Il racconto non conosce soste e anzi a tratti comunica il senso di sfinimento e fatica addossato alla povera cuoca (che spesso deve improvvisarsi anche domestica e cameriera) e con lo stesso ritmo trafelato e ansiogeno, in preda al timore di non rientrare mai nei tempi della cena e delle varie protate, si piomba nelle situazioni più stravaganti e nei contesti più diversi: dalla cena di una sera al ricevimento per fidanzati, in un cottage di campagna o

Non so immaginare i benefici a livello di esperienza umana di questo -chiamiamolo così- esperimento di vita per la ragazza Monica Dickens; certo è che dal punto di vista letterario, il risultato è più che positivo. Degno di cotanto prozio!