Archivio | aprile 2016

Intervista a Mara Barbuni, autrice di Elizabeth Gaskell e la casa vittoriana

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Mara Barbuni cofondatrice di JASIT e direttrice della rivista Due pollici d’avorio, ma anche scrittrice. In possesso di un dottorato di ricerca in letteratura inglese, si occupa di scrittura femminile del primo Ottocento e di età vittoriana, è autrice del saggio appena uscito per Flower-ed: Elizabeth Gaskell e la casa vittoriana.

Dopo aver tradotto Gli innamorati di Sylvia e Mogli e figlie per la casa editrice Jo March e gestendo il sito (www.elizabethgaskell.jimdo.it) e la pagina Facebook (Leggere Elizabeth Gaskell) dedicati alla scrittrice Elizabeth Gaskell, si può affermare indiscutibilmente l’autorevolezza del tuo punto di vista nello studio di questa autrice le cui opere sono rimaste a lungo sconosciute al pubblico italiano non ferrato in lingua inglese. Nel lavoro messo a servizio di questa scrittrice, nel caso specifico, traspare la tua vocazione all’insegnamento nell’originario significato di educare. Che cosa ha ispirato la composizione di questo collage costruito attorno al motivo tematico della casa?

Cara Romina, grazie per questo invito e per le parole molto lusinghiere. La ragione che mi ha indotta a tracciare un percorso di lettura delle opere di Elizabeth Gaskell dal punto di vista particolare della domesticità è duplice.

In primo luogo, io ho da sempre un forte interesse per la “visualità” in letteratura, ovvero per la riflessione su come i testi rappresentano visivamente la scenografia che fa da sfondo alle vicende narrate: è il motivo per cui amo tanto la grande letteratura angloamericana di viaggio (Henry James su tutti) e per cui Gaskell mi ha sempre affascinata – le sue opere contengono attenti ritratti degli spazi domestici e dei paesaggi esterni, che non sono mai accessori, ma hanno la funzione fondamentale di specchiare o di contrastare le emozioni dei personaggi. In secondo luogo, di recente mi sono avvicinata molto alla letteratura “miniaturista”, che si dedica allo studio visuale ma anche emotivo degli oggetti, ritrovando nelle piccole cose di tutti i giorni straordinarie valenze di tipo economico, sociale e storico, nonché la dimensione del ricordo e dell’affermazione dell’identità personale. Trovo che sotto questo aspetto la narrativa di Gaskell sia impareggiabile.

Ho pensato insomma che un saggio concentrato sulla casa e sulla sfera domestica, affrontata da tutte le sue prospettive – il giardino, l’architettura, i mobili, la decorazione della casa, la cucina, la servitù, gli oggetti e il fuoco del camino – mi consentisse di studiare la vasta letteratura gaskelliana da un’angolazione che potesse incuriosire sia il pubblico che non la conosce ancora sia i lettori già affezionati a questa scrittrice. 

Posso dirti che è stato un autentico piacere sia apprendere da te, sia legger-ti, Mara, leggere le tue osservazioni e i tuoi collegamenti, frutto di una approfondita conoscenza del panorama letterario inglese. Non solo crei interesse ma lo diffondi nella misura in cui insegni e fornisci gli strumenti per coltivare i semi gettati. Il tuo saggio non ha solo il pregio di far ripercorrere tutta la produzione di Elizabeth Gaskell cercando di svelarne il disegno poetico e la parabola di crescita e maturazione artistica, ma detiene un primato importante che è quello di andare dritto al cuore di lei, di farci avvicinare il più possibile ai suoi sentimenti e alla sua vita, come donna prima ancora che come scrittrice. In questo riesci non solo con alcune descrizioni toccanti che riguardano gli aspetti più intimi della quotidianità, ma instaurando con il lettore un dialogo basato sulla familiarità e su, se posso dirlo, una speciale complicità data dal comune sentire. Quella tua frase in cui inviti: “Scegliamoci allora un divano una poltrona accanto al caminetto o una ruvida cassapanca di legno: mettiamo a scaldare l’acqua per il tè, accomodiamoci, e guardiamoci un po’ attorno” (p.48) è un distillato di amore per la scrittura e la letteratura. Come sei riuscita a conciliare la tua preparazione universitaria e professionale con gli aspetti più soggettivi e personali riguardanti il gusto, le emozioni, la passione nutriti in prima persona?

Domanda interessante… questa conciliazione è sicuramente un’operazione difficile. A me non piacciono le espressioni di cieco fanatismo legate alle opere o agli autori (molto diffuse per Jane Austen, ad esempio), perché la letteratura è una materia che cerco sempre di trattare “scientificamente”, ovvero come fenomeno socio-culturale da osservare con metodo empirico e da interpretare solo ed esclusivamente sulla base dei fatti (cioè le fonti testuali). Mi interessano le manifestazioni formali del testo, l’uso del linguaggio, il modo in cui la letteratura rappresenta i contesti sociali, storici, geografici e culturali. Cionondimeno, per la grande scrittura ho un grande trasporto anche emotivo: la passione e la motivazione sono ingredienti importanti per affrontare un universo così complesso e sempre cangiante. Il bello di fare divulgazione letteraria è la possibilità di passare costantemente di qua e di là da quella linea sottile che è il limite dell’emozione: è possibile insomma studiare un testo letterario in profondità e con estrema serietà senza dover sempre reprimere la meraviglia suscitata da quello stesso studio. Dopotutto, come diceva un mio professore all’università, è il senso della meraviglia che genera la poesia.

Elizabeth Gaskell è un’autrice che “aiuta” molto da questo punto di vista, perché fu una narratrice eccellente, non solo sotto l’aspetto delle trame e della creazione dei personaggi ma anche dello stile. La prima parte di Gli innamorati di Sylvia, Mia cugina Phillis e Mogli e figlie sono secondo me tra le opere più alte della letteratura occidentale (benché, misteriosamente, piuttosto sottovalutate) sotto l’aspetto della pura scrittura; qui il lavoro dell’autrice sui dialoghi e sulla rappresentazione delle emozioni è inoltre una delicatissima operazione di cesello che non sfocia mai nel patetismo ma, nella perfezione della unobtrusiveness (caratteristica precipua di Gaskell, secondo molti critici), riesce a commuovere profondamente.

Essere introdotti ed iniziati al mistero Gaskell con siffatti soavi incitamenti, è un invito che non si può rifiutare. Perciò vorrei rivolgerti alcune domande di approfondimento che la tua analisi ha stimolato. Sono rimasta molto affascinata dalla varietà di generi letterari in cui si è cimentata la Gaskell. Possono essere stati gli anni come critico letterario trascorsi vicino a personaggi del calibro di Dickens e Collins a formare una scrittrice poliedrica, sensibile verso gli strati più emarginati della società e curiosa di sperimentare generi diversi tra loro?

Elizabeth Gaskell ebbe sempre, fin da quando era bambina, la passione per la scrittura. Anche se iniziò a pubblicare tardi, il bagaglio dei suoi esperimenti letterari precedenti è molto ben fornito di racconti, scrittura diaristica e poetica. Dickens la contattò dopo aver letto e ammirato il suo Mary Barton (1848); di certo la celebre cerchia di letterati e pensatori che Gaskell poté frequentare dopo essere diventata una scrittrice affermata le offrì spunti di ispirazione e di riflessione che approfondirono la sua visione del mondo, ma l’istinto per la scrittura e per la narrazione era parte della sua persona. Molte delle persone che la conobbero riportano del suo talento per il raccontare storie – magari intorno al focolare – e le sue stesse lettere a volte appaiono come brani narrativi vivacissimi e perfettamente strutturati.

 

Quando dici che nel Romanticismo l’idea del paesaggio addomesticato era centrale nel processo di affermazione del ruolo femminile nello spazio pubblico (cfr. p. 13), e affermi che la Gaskell amava tantissimo occuparsi del suo giardino e questo spazio ha rivestito un ruolo preponderante in alcuni suoi romanzi, questo autorizza a definire Elizabeth Gaskell una scrittrice o una donna romantica?

La tendenza femminile a occuparsi del giardino anche come soggetto letterario si ritrova in molta poesia romantica femminile, si estende al vittorianesimo e va anche oltre (pensiamo a Virginia Woolf). Se dobbiamo categorizzare, per comodità o convenzione, le forme della scrittura, non direi che Elizabeth Gaskell possa essere “assegnata” al Romanticismo – anche perché il genere in cui eccelse, la fiction, non è il genere più rappresentativo di quel movimento. Mi sento di affermare che Gaskell è un’autrice precipuamente vittoriana, soprattutto per la sua capacità di cogliere l’ineluttabile innestarsi del progresso tecnico e scientifico nel pensiero e nella società rurale inglese. Di certo nelle sue opere è impossibile non ritrovare alcune delle categorie che informano il Romanticismo… è un tema su cui sto lavorando proprio in questo periodo; potrò rispondere meglio alla domanda quando avrò terminato le mie ricerche e messo un po’ d’ordine fra le mie idee!   

 

Non ho mai amato le categorie o le etichette anche se ad esse dobbiamo ricorrere per esigenze di semplificazione, ma mi sono sempre chiesta se sia l’autore a decidere di utilizzare temi e tecniche narrative tipiche di una corrente letteraria per iscriversi in essa o la sua appartenenza venga classificata successivamente e in base alle opere?

Penso che uno scrittore sia innanzitutto un lettore ed è quindi normale che i suoi scritti risentano delle espressioni letterarie che lo hanno immediatamente preceduto o che gli sono contemporanee. Detto questo, le categorizzazioni sono caselle convenzionali nelle quali ci fa comodo inserire autori e movimenti per tentare di comprenderli meglio. Tali schemi, però, non vanno considerati rigidamente, perché anche in un solo libro (figuriamoci in un autore) possiamo ritrovare appartenenze molteplici. Se pensiamo a Jane Austen, ad esempio, riscontriamo espressioni di stile e di pensiero che andrebbero inserite in più di una “casella” – neoclassicismo, Età della Sensibilità, Romanticismo…. Una definizione univoca è impossibile.

Naturalmente questo tipo di studio ha solleticato tanti parallelismi con l’opera di Jane Austen, dove il paesaggio selvaggio, allo stato spontaneo, almeno nei primi romanzi fa da specchio riflettore agli stati d’animo delle eroine mentre – correggimi se sbaglio – nei successivi, e mi riferisco a Mansfield Park e Emma, lo spazio si restringe e viene “addomesticato” entro giardini curati e architettonicamente definiti. La visita ai giardini di Mr. Rushworth e il picnic a Box Hill non sono manifestazioni spontanee del sé che sfuggono alle regole delle buone maniere e del decoro? In questo caso che uso fa Jane Austen dell’ambientazione all’aperto di certe scene prevalentemente corali?

 

Se penso a un paesaggio “selvaggio”, come lo definisci tu, in Jane Austen, a me viene in mente in particolare Persuasione (i capitoli a Lyme Regis). Trovo che sia l’episodio di Sotherton in Mansfield Park sia quello a Box Hill in Emma siano strutturalmente delle messe in scena che determinano una chiave di volta degli eventi come avviene in un’opera teatrale. A parte in Persuasione e, per certi versi, in Ragione e sentimento, non ho l’impressione che i paesaggi austeniani servano a completare una rappresentazione intima o psicologica, bensì a dare un ritratto sociale e culturale: pensiamo alla descrizione che ci viene offerta di Pemberley, che serve a descriverci la potenza economica di Darcy, oppure all’episodio della raccolta delle fragole a Donwell Abbey, espressione suprema della Englishness.

A proposito della connotazione morale e sociale di certe pietanze piuttosto di altre, il formaggio considerato poco elegante da Mrs Gibson, e le arance disdicevoli da Miss Jenkyns, mi ha fatto sempre sorridere ritrovare proprio quest’ultimo argomento citato in Una ragazza fuori moda da L. M. Alcott la quale, quando durante un piccolo pranzo tra amiche Polly si mette a succhiare un’arancia, commenta: “con una disinvoltura che avrebbe fatto fremere le signore di Cranford”[1]. Il tono con cui la Gaskell descrive l’episodio e quello con cui la scrittrice americana lo riporta a paragone sono però molto diversi. La Gaskell è una scrittrice moralista? Quanto ironica?

L’ironia è un tratto importante della narrativa di Gaskell, soprattutto in opere come Cranford e Mogli e figlie, dove viene dosata sapientemente con la percezione del tempo che passa e delle fatiche di tutte le fasi di crescita dell’essere umano (dall’infanzia alla vecchiaia). È un aspetto pervasivo, ancorché enigmatico, del racconto Curious, if True e ritorna in vari personaggi sparsi fra le sue opere (Dixon in Nord e sud, per esempio, o Kester in Gli innamorati di Sylvia). 

Per quanto riguarda il discorso morale, non si può dimenticare il fatto che Gaskell è una donna vittoriana, e come tale, per lei certi principi sono ferrei: lo dimostra quando, in una lettera, esprime apertamente la propria disapprovazione per il ménage di George Eliot (che viveva con un uomo senza averlo sposato) o in certe affermazioni poco lusinghiere sul passato “frivolo” di Effie Grey (la moglie di Ruskin). Bisogna dire, tuttavia, che nelle sue opere la scrittrice affronta la moralità dominante con approccio decisamente trasgressivo: pensiamo a quanti suoi splendidi personaggi femminili stridano con i più sacri principi morali vittoriani: le sue “fallen women” (per esempio Esther in Mary Barton, Lizzie Leigh o Ruth); Sylvia, che non legge la Bibbia e non sa perdonare; Cynthia Kirkpatrick in Mogli e figlie – tutte donne che Gaskell ci invita a non giudicare, ma a comprendere in profondità, in nome della solidarietà e del rispetto per la persona. 

 

Dal tono dei suoi romanzi ci si può fare l’idea di una Gaskell materna, accogliente e premurosa; abbiamo poi anche imparato a conoscere una Gaskell ospitale e amante della buona tavola. Nella biografia romanzata Casa Brontë di Pier Francesco Gasparetto, a proposito del periodo in cui la piccola e schiva Charlotte venne invitata e ospitata dalla Gaskell, viene descritta la casa grandissima, pensata e progettata per l’ospitalità e per coltivare  la vita conviviale e le relazioni sociali con gente di diversa estrazione: “Sette camere da letto, due saloni, cinque domestici, un cocchiere, un parco immenso… porcellane e argenti, camini in marmo, vetrate drappeggiate di velluti e su ogni mensola, tavolo o tavolino, base d’appoggio ninnoli, curiosità, ricordi di viaggio, suoi, del marito”. Quella casa, che agli occhi della modesta Charlotte doveva apparire ancor più mastodontica delle sue dimensioni reali, è stata acquistata dalla Gaskell con i proventi dei suoi romanzi?

No, la casa di Plymouth Grove, dove Charlotte Brontë soggiornò in qualità di ospite, era in affitto (e non aveva un parco immenso…!). Con i proventi dei romanzi Gaskell acquistò Holybourne, la casa nello Hampshire, nei pressi di Alton, che intendeva regalare al marito perché vi trascorresse gli anni della pensione. È la casa in cui la scrittrice morì e nella quale i Gaskell non abitarono mai.

Queste caratteristiche di anfitrione e perfetta padrona di casa mi fanno pensare – compiendo questa volta un piccolo balzo in avanti –, ad un’altra signora inglese, spesso impegnata in ricevimenti domestici e disimpegnati, amante della buona cucina ma legata con rapporti spesso conflittuali, di amore-odio, alle cuoche che si sono succedute dietro ai suoi fornelli, Virginia Woolf. Pensi di poter trovare qualche analogia o l’accostamento è troppo azzardato?

       Anche Gaskell ebbe diversi problemi con la servitù, soprattutto con le cuoche….

Nella raccolta intitolata Non solo porridge: letterati inglesi a tavola curata da Francesca Orestano, alcuni scrittori sono associati ad un tipo specifico di cibo; un esempio ovvio che posso citare è il tè per Jane Austen che lo nomina ben 58 volte nei suoi sei romanzi, o l’omelette per Arnold Bennett, ma anche lo streetfood per Dickens. Quale pietanza legheresti al nome e al palato di Elizabeth Gaskell?

Nei suoi scritti – racconti, romanzi, saggi e lettere – i riferimenti al cibo sono numerosissimi e molto variegati. Mi colpisce però la presenza ricorrente della panna. Uno degli episodi più divertenti che mi viene in mente si trova in una scena nella residenza dei Cumnor, in Mogli e figlie:

Era abitudine di Lady Cumnor trattare sprezzantemente coloro che più amava. Il marito subiva costantemente questo suo sdegno, ma ella sentiva la sua mancanza, ora che lui era in ritardo, e dichiarava di non volere il tè; ma tutti sapevano che questo dipendeva solo dal fatto che non c’era lui a porgerglielo, e a farsi rimproverare per la sua incorreggibile stupidità nel dimenticare che alla moglie piaceva versare lo zucchero prima di aggiungere la panna. Finalmente l’uomo fece il suo ingresso.

«Vi chiedo perdono, mia signora – sono in ritardo, lo so. Ma come, non avete ancora preso il tè?» esclamò, muovendosi scompostamente per prendere la tazza della moglie.

«Sapete che non aggiungo mai la panna prima di averlo zuccherato» disse lei, con maggior enfasi del solito su quel “mai”.

«Ma certo! Come sono sciocco! Direi che ormai dovrei ricordarmene. Vedete, ho incontrato il vecchio Sheepshanks, ecco la ragione.»

«La ragione per cui mi avete passato la panna prima dello zucchero?» chiese la moglie. Era una delle sue spietate battute.

«No, no! Ah, ah! State meglio stasera, mia cara!»

(Mogli e figlie, Jo March 2015, pp. 554-5).

 

Cara Mara, che cosa posso dirti a chiusura di questa bella chiacchierata? È stato un onore e un vero piacere. Spero solo che per te e per noi questo sia solo l’inizio.

 

Romina Angelici

[1] Louisa M. Alcott, Una ragazza fuori moda, ed. Polaris, 1994, La Spezia, 1994, p. 180.

Charlotte Brontë e Jane Austen

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Mai due scrittrici sono state più contrapposte di Jane Austen e Charlotte Brontë; tanto che la seconda non arrivava a capire per cosa si potesse ammirare l’altra, e confessava che molto le sarebbe costato “vivere con le sue dame e i suoi gentiluomini, nelle loro eleganti ma chiuse abitazioni”[1].

Entrambe resistettero con fierezza a ogni interferenza nel proprio lavoro. Riporta infatti il nipote biografo di Jane Austen che Miss Brontë, rispondendo ad un amichevole critico (G. Lewes) che l’aveva ammonita a non essere troppo melodrammatica,  azzardandosi a proporle di studiare le opere di Miss Austen, scriveva così:

“Se mai dovessi scrivere un altro libro, penso che non avrà nulla di ciò che lei chiama melodramma. Penso ma sicura non sono. Penso anche che mi sforzerò di seguire il suggerimento che irraggia dal “mite sguardo” di miss Austen, di rifinire di più, di essere più pacata; ma neanche di questo sono sicura. Quando gli autori scrivono al loro meglio, o almeno quando scrivono più agevolmente, sembra risvegliarsi in loro una forza che li domina […]” La giocosa ironia con cui l’una si difende dall’attentato alla sua libertà e la veemente eloquenza dell’altra che combatte per la stessa causa e difende l’indipendenza dell’ispirazione, sono molto significative del carattere di queste due intelligenze[2].

La diatriba quindi è antica e risale proprio all’epoca vittoriana se lo stesso Edward ne prese nota esimendosi dallo schierarsi. Ad iniziarla sembra siano state proprio le esternazioni della più impulsiva delle due interessate. In una lettera del 12 gennaio 1848 indirizzata da Charlotte Brontë a George Henry Lewes la scrittrice infatti domanda:

Perché Miss Austen vi piace così tanto? Non riesco a comprenderne il motivo. Cosa vi ha indotto a dire che avreste preferito scrivere “Orgoglio e pregiudizio” o “Tom Jones” piuttosto che uno qualsiasi dei romanzi di Waverley? Non conoscevo “Orgoglio e pregiudizio” fino a quando non ho letto quella vostra frase, e dunque mi sono procurata il libro e l’ho studiato. E cosa vi ho trovato? Un accurato e minuzioso ritratto di un volto ordinario; un giardino molto ben curato, meticolosamente recintato con i confini ben delimitati e fiori delicati; ma nessun accenno a una fisionomia vivida e brillante; nessuna descrizione del paesaggio; dell’aria aperta; delle azzurre colline; di un bel torrente impetuoso[3].

La passionale e indomita Charlotte non condivideva affatto lo stile misurato dell’altra, la sua brughiera desolata non conosceva ritratti d’interni delle grandi tenute signorili; non poteva stimare la sua collega, semplicemente perché troppo diversa, altro da lei.

Forse la confonde un poco con i moralisti vittoriani, il cui perbenismo ipocrita lei stessa contrastava per mezzo delle sue eroine così lontane dall’ideale della donna subalterna e ossequiosa, paladine della libera espressione di emozioni e sentimenti a dispetto di ogni conseguenza. Se avesse letto meglio, tra le righe, avrebbe scorto da parte della collega la stessa critica a quel ruolo femminile statico, sottomesso, solo condotta con più tatto, con ironia velata, ma con le stesse rivendicazioni in termini di dignità.

Jane Austen d’altronde non era né arrendevole né sottomessa; è più giusto dire che ciascuna combattesse la propria battaglia su fronti antitetici: l’una mostra il rovescio della medaglia dell’altra. Lo scopo dei personaggi femminili di emanciparsi da padri, mariti e fratelli è comune, ma le strategie adottate sono differenti: in Ragione e sentimento l’eccessiva sensibilità di Marianne viene corretta e riportata entro i canoni  della ragionevolezza; in Jane Eyre tutto è eccessivo: la crudeltà del collegio, il personaggio di Rochester, la segregazione della moglie pazza, la violenza dei sentimenti. Si enfatizza il romanticismo, si inseriscono elementi del gotico accentuandone la valenza in termini di cupezza e mistero, si parla di sessualità abbastanza esplicitamente, si arriva a scontri frontali con effetti meno discreti, ma comunque con lo stesso obiettivo: quello di emancipare l’eroina[4].

Entrambe rimasero entro i protettivi confini del proprio nido, vestali dell’intera cerchia familiare, portate irresistibilmente a scrivere senza venir meno ai principali doveri domestici.

Sia per Charlotte Brontë sia per Jane Austen la sola scena della scrittura, quando alla scrivania siede una donna, è già di per sé atto di grande ribellione. Tutte le loro eroine hanno detto qualcosa a proposito del ruolo della donna nella società. La differenza è che Jane Austen riconosce la propria diversità rispetto al modello femminile di ispirazione patriarcale per il fatto stesso che è lei ad iniziare a scrivere, rivendicando così il ruolo di creatrice sulla pagina: non di se stessa vuole narrare la storia ma semplicemente scrivendo come scrive una donna e come avrebbe voluto leggere nei romanzi scritti fino ad allora da soli uomini. Charlotte invece identifica scrittura e vita, confonde i propri sentimenti con quelli delle donne dei suoi romanzi, proietta in loro le sue aspirazioni e trova nel destino che si sono scelte (accettando di sottomettersi all’uomo che le ama) il riscatto del proprio.

Non a caso erano figlie della stessa epoca (sebbene le distanziassero alcuni decenni), entrambe non firmarono le proprie opere (con uno pseudonimo maschile Charlotte Brontë, la siglia “by a Lady” appose Jane Austen) e le prime offerte di pubblicazione da parte loro furono cortesemente rispedite al mittente: nel caso di Jane le trattative furono intentate inizialmente dal padre senza successo, Charlotte ricevette da Southey, in risposta, un aperto invito ad occuparsi dei doveri femminili. Tutte e due esigenti e perfezioniste, di natura riservata, non del tutto consapevoli delle proprie doti né consce del successo che si profilava davanti alla loro carriera (di entrambe prematuramente recisa, proprio sul nascere), attente e interessate alle critiche – soprattutto quelle negative – verso i propri lavori, umili ma tenaci con la stessa intensità.

Virginia Woolf nel prediligere Jane Austen, che così descriveva:

Ecco una donna che intorno al 1800, scriveva senza odio, senza amarezza, senza paura, senza protestare, senza predicare. Era così che scriveva Shakespeare […] Jane Austen pervade ogni parola da lei scritta,

rimproverava a Charlotte Brontë di scrivere con rabbia, di scrivere di se stessa invece che dei suoi personaggi e di tradire le sue insoddisfazioni in “libri deformati e contorti” che risentono del fatto che è “in guerra con il proprio destino”[5].

Considerate le tragedie di cui è stata costellata la sua vita, come pensare che una natura così sensibile non ne fosse indelebilmente colpita e segnata? Il mite sguardo che irraggia da Miss Austen non può che risultare più rassicurante.

Ma solo apparentemente Charlotte Brontë può sembrare l’antitetico dell’altra: erano semplicemente due caratteri diversi, due donne cresciute in climi, ambienti, famiglie diversi, che avevano ricevuto una differente educazione – ascetica e privativa è stata tutta la giovinezza di Charlotte, più gaudente quella di Jane, comunque circondata e protetta da tanto affetto familiare – che si ispiravano a principi dell’arte diversi: per Jane Austen l’Arte deve riprodurre la natura mentre per Charlotte il sentimento deve innalzare il reale per diventare poesia. Quest’ultima non rifugge il consiglio dettatole da Mr. Lewes “di rifinire di più e di essere più controllata”, né contesta la definizione della Austen come uno dei più grandi pittori dell’umana natura (definizione sempre di G. Lewes), ma molto sinceramente confessa di pensare e sentire in un altro modo. Come osserva Francesco Marroni[6] non era contro la Austen che si scagliava ma contro la tradizione e il maschilismo che le parole di Lewes tradivano.

Ciò nonostante, pur riuscendole incomprensibile l’elogio di Orgoglio e Pregiudizio (e del Tom Jones) da parte del suo corrispondente, si procura tutti i romanzi della sua collega per poter giudicare correttamente. Che li lesse tutti è sicuro, sia per la lealtà della sua parola, sia per il racconto fatto al suo editor, Mr. Williams, in cui non nasconde la sua soddisfazione:

L’altro giorno ho ricevuto una lettera che mi annunciava come una nobile signorina che aveva sempre dichiarato che se si fosse sposata suo marito avrebbe dovuto essere l’esatto duplicato di Mr. Knightly di Emma di Miss Austen, ha ora cambiato parere e ha fatto voto che o incontrerà l’esatto duplicato del Professor Emanuel o rimarrà nubile![7].

Ho l’impressione che fosse troppo orgogliosa, Charlotte Brontë, per ammettere di avere torto in qualcosa, ma la veemenza delle prime invettive a difesa del proprio stile letterario fu stemperata dalla somma di anni, dolori e malattie sperimentati.

Il suo inciso concessivo per cui “Miss Austen è solamente accorta e osservatrice” oggi costituisce il riconoscimento indiscusso di una delle pregevoli qualità della scrittrice di Chawton.

Romina Angelici

[1] Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, cit., Lettera a G.H. Lewes, p. 313.

[2] Come riporta James Edward Austen Leigh, Ricordo di Jane Austen, cit., pp. 117-118.

[3] Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, cit., p. 312.

[4] Roberto Bertinetti, “Femminucce da sbarco”, in Ilsole24ore del 9.10.2011.

[5] Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, cit., pp. 64-67.

[6] Francesco Marroni, Come leggere Jane Eyre, Solfanelli, Chieti, 2013, pp. 57-63.

[7] Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, cit., p. 489.

Morte a Pemberley

 

Morte a Pemberley di P. D. James, trad. Grazia Maria Griffini, Mondadori, Milano, 2014, 345 pp.

Inizialmente sembra di leggere un qualsiasi seguito di Orgoglio e Pregiudizio, poi la storia comincia a movimentarsi e la scena ad animarsi.

Secondo il mio gusto, almeno inizialmente, sono troppi i personaggi messi in scena e troppe le vite toccate. Il rischio è di farlo risultare un racconto troppo confusionario e difficile da seguire.

Non si sposa un unico punto di vista e questo rende la narrazione poco credibile perché dall’attenzione inizialmente incentrata sulle preoccupazioni e i pensieri di Elizabeth, ci si sposta quasi completamente su quelli di Mr. Darcy, lasciando inconsiderati quelli di lei che prima erano stati proposti al lettore in primo piano.

Ho trovato ridondanti i frequenti riferimenti al passato in corrispondenza dell’entrata in scena di un personaggio “vecchio”. Lo trovo inutile e stucchevole e oltretutto in alcuni casi poco coerente tanto che l’ignavo Mr. Bennet prende addirittura una carrozza per andare a Pemberley senza nemmeno esser invitato e Charlotte viene sospettata di malizia e addirittura di essersi voluta prendere una rivincita sulla sua migliore amica quando ha alimentato la voce sul presunto fidanzamento di quella con Mr. Darcy (un sentimento che  la mia idea di Charlotte non contempla assolutamente). Il personaggio di Lydia Bennet poi è stato completamente “dimenticato”, dopo la prima entrata in scena, preda di un attacco isterico, rimane incalcolata, anche abbastanza inspiegabilmente perché testimone informata dai fatti.

Forse -ipotizzo assolutamente da non addetta-  è un tipico espediente del tessitore di gialli quello di affollare la cd. “scena del crimine” di possibili sospettati per fuorviare e allo stesso tempo tenere desta l’attenzione del lettore ma in questo caso penso che siano davvero troppi i nominativi tirati in gioco. E come se non bastasse, ognuno ha avuto una doppia vita.

Per l’interesse e l’approfondimento dimostrati al personale di servizio avrei visto bene un Pemberley House, dato il successo del genere in questo periodo.

Indubbiamente avvincente, da non far avvertire il peso della mole delle 350 pagine, il giallo svincolato da tutto diventa coinvolgente verso la fine quando rimane il nudo intreccio da sciogliere.

Come se non bastava il pasticcio fatto con i personaggi di Orgoglio e Pregiudizio tirati dentro alla storia a forza, ci sono state anche incursioni improponibili degli Elliot di Persuasione e degli abitanti del villaggio di Highbury di Emma. Tanto più improbabili appaiono queste commistioni tra personaggi romanzati e la puntualizzazione cronologica degli eventi del processo, nonché la  precisa utilizzazione di termini tecnici specifici.

Dopo il Gruppo di Lettura organizzato da JASIT alla Biblioteca Salaborsa di Bologna, del 9.4.2016, aggiungo le seguenti considerazioni:

Non avendo esperienza di altre letture di P. D. James, non sono in grado di valutare quanto la trama imbastita per Morte a Pemberley sia più o meno “gialla” rispetto alle precedenti, sicuramente mi sono resa conto che per valutare un’opera va conosciuto meglio l’autore per poterne apprezzare scelte e rese testuali e narrative.

Grazie alla presentazione di Mara Barbuni ho però imparato a conoscere meglio l’autrice, apprendendo ad esempio che Jane Austen è la sua scrittrice preferita di cui rilegge i romanzi almeno una volta l’anno e di cui adora personaggi. A questa dichiarazione esplicita rilasciata nel corso di un’intervista, vanno comunque ad aggiungersi i continui riferimenti a Jane Austen contenuti nei numerosi romanzi scritti da P.D. James nell’arco della sua lunga carriera e di cui Giuseppe Ierolli ha fornito puntuale testimonianza riportando esattamente i passi in cui veniva da lei citata la scrittrice o un suo personaggio, magari nel bel mezzo di una descrizione della scena del crimine (fino al saggio-diario dal titolo in italiano, Il tempo dell’onestà, in cui P.D. James la nomina ben 36 volte).

Questo, unitamente alle osservazioni espresse ieri anche da Silvia Ogier, mi ha portato a convenire sul fatto che Morte a Pemberley sia stato un personale omaggio alla sua scrittrice preferita, pensato e realizzato secondo il suo stile, alla sua maniera, con un sostanziale rispetto almeno dei caratteri dei due personaggi principali, Elizabeth e Darcy e del loro rapporto di coppia. Lo ha fatto attingendo agli strumenti narrativi e al genere in cui è specializzata, quindi rimanendo fedele alle esigenze di precisa ricostruzione storica e alle regole compositive di un romanzo giallo che ha voluto ambientare nella maestosa e però anche rassicurante dimora simbolica di Pemberley.

Una rilettura del romanzo per l’appuntamento del Gruppo ha smussato un po’ l’iniziale diffidenza verso questo che giungeva a me come l’ennesimo rimaneggiamento di Orgoglio e Pregiudizio, anche se poi il gusto personale conduce verso altre preferenze e mi porta, con maggiore consapevolezza, a confermare le impressioni del primo impatto.

First Impressions about Mia cara Jane

Queste sono le mie prime impressioni dopo aver letto:

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Mia cara Jane. Le lettere mai scritte di Amalia Frontali, ebook.

Un ottimo retelling, curato nella ricostruzione storica e senza sbavature. Finalmente un derivato che è stato scritto in italiano e che questa volta dovrebbe essere tradotto ed esportato per essere portato a conoscenza dei nostri amici inglesi.

L’idea è di riempire i tre anni che vanno dall’iniziale conoscenza tra Jane Austen e Tom Lefroy, alla fine della loro platonica relazione o almeno quando tra loro si sono del tutto interrotti i contatti, con una corrispondenza intercorsa segretamente. Quelle raccolte, la cui natura romantica -come spiega l’autrice del volume in premessa- è solo frutto della sua fantasia, sarebbero le lettere che Tom Lefroy scrisse a Jane durante tutto il tempo in cui di fatto sono stati separati perché gli incontri, ufficiali o nascosti che fossero, furono davvero molto sporadici.

L’esatto svolgimento però degli eventi salienti tra i due è stata pienamente rispettata e ogni Janeite doc può stare certa che non solo i riferimenti cronologici, ma anche le circostanze collaterali e future riguardanti le loro vite, è stata ampiamente onorata (come ad esempio il riferimento a Livorno dove effettivamente riposano le spoglie degli avi Langlois e Lefroy). E, particolare per nulla trascurabile, ma anzi apprezzabile il tutto è stato scritto e confezionato con una prosa talmente elegante e suadente, con giri di frase e circonlocuzioni sillogiche e un lessico aulico che richiamano il perfetto stile austeniano.

Con molto garbo si è cercato di delineare una relazione amorosa tra Tom e Jane, cercando di cogliere l’insistenza di lui e la ritrosia di lei, senza mai trascendere in svenevolezze sentimentali o accenti tragici anche nei momenti più bui di questo rapporto. Lo stesso finale,  nonostante spoilerato dalla realtà dei fatti, sa essere convincente e un po’ colorato da citazioni e collegamenti letterari trasversali.

Nonostante quelle che leggiamo siano solo le lettere compilate da Tom -che però inspiegabilmente sono sfuggire al rogo censorio di Cassandra?- si percepisce nelle risposte e nel sottofondo, lo stato d’animo ora discreto, ora ammiccante, ora provocante, ora tenero, della corrispondente. I ragionamenti con cui Tom Lefroy cerca di convincere e inchiodare Jane a prendere atto della superiore forza del loro interesse reciproco mostrano una logica ferrea e una sagacia tipiche sì dell’uomo di legge, ma sicuramente anche di un degno interlocutore della nostra, capace di essere all’altezza degli attacchi della sua penna sferzante.

Il ruolo di consulente letterario improvvisato per Tom, dato che quegli anni vedevano le bozze iniziali di Elinor e Marianne e di First Impressions, se da un lato è giustificato narrativamente come segnale indicativo del grado di confidenza raggiunto tra i due, dall’altro permette alla scrittrice del libro di esprimere qualche sua osservazione e opinione sui romanzi.

Forse è un bene che Jane sia stata protetta dietro al destinatario delle missive così da preservarla da qualsiasi intrusione non autorizzata, forse è questo il segreto di tanta delicatezza raggiunta nel finale e nella sensazione che questo libro lascia sulla bocca dello stomaco.

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Nomen est omen

 

Oggi, 3 aprile, è San Riccardo sia per il calendario dei santi della Chiesa Cattolica che di quella Anglicana[1]. Del resto si tratta di Riccardo di Chichester, vescovo, o anche detto di Winch, sua città natale. Riccardo infatti nacque nel 1177 da una famiglia nobile decaduta; coltivò i suoi studi ad Oxford e li proseguì poi a Parigi e a Bologna. Qui rimase sette anni completando la sua formazione in diritto canonico e sempre qui a Bologna gli si presentò l’occasione della vita: restare all’Università come docente e sposare la bella figlia di un suo professore. Ma Riccardo aveva ben altri piani e tornò in patria dove divenne prima docente universitario e poi segretario dell’arcivescovo di Canterbury. Dopo che ebbe preso i voti nel 1240 iniziò il suo ministero come parroco e poi due anni più tardi, nominato vescovo, cadde subito in disgrazia presso il re Enrico III che lo privò di tutti i suoi possedimenti tanto da dover tornare a lavorare la terra per il proprio sostentamento. Questo non lo spaventò ma gli permise di mostrare tutta la sua umanità e comprensione verso i poveri e i malati che visitava in giro per la sua diocesi, anche a piedi, pur di portare loro una parola di conforto. Dopo tre anni fu riabilitato ma non per questo smise le sue attività pastorali e anzi introdusse importanti novità nell’organizzazione del clero (come l’introduzione del celibato), nell’amministrazione dei sacramenti e nella recita delle preghiere. Morì a Dover nel 1253, fu canonizzato 9 anni più tardi.  Viene ricordato come patrono dei carrettieri e dei cocchieri, lavori che svolse da ragazzo presso la fattoria del padre.

Perché questo preambolo? Perché questo nome, la convergenza agiografica, alcune citazioni hanno stabilito un collegamento diretto quanto involontario con Jane Austen. Non penso sia casuale che il nome Riccardo riconduca l’errante memoria a lei per il fatto che verso questo nome proprio la scrittrice non mostrava una particolare predilezione.

In un universo preciso e ordinato quale quello austeniano, nulla era casuale e l’onomastica reclamava uno spazio significativo nella conversazione o poteva diventare soggetto e spunto di componimenti, oltre che esigere notevole rispetto: il corretto appellativo costituiva una questione seriamente importante.

Sarà per questo che la odierna ricorrenza mi ha fatto subito pensare al valletto di Godmersham Park, Richard appunto (ma anche Henry aveva un servitore omonimo), immortalato da un’entusiasta Jane, felice per le nozze di Francis e Mary, mentre siede a cassetta nel calesse che accompagna i genitori della sposa:

Ecco che arrivano, il postale corre da Thanet/L’incantevole coppia, fianco a fianco;/Hanno lasciato indietro Richard Kennet/Con i genitori della sposa[2].

In un’altra poesia di Jane Richard è un salvifico inventore di pillole miracolose:

È vostro dovere Mr. Best/stare attento alla vostra salute/Altrimenti saranno vane le pillole di Richard/e le cure della vostra Consorte[3].

Sentimenti poco cordiali accompagnano la personificazione della neve  con questo nome:

“Mr. Richard Snow si è tremendamente affezionato a noi”[4].

Il nome Richard quindi ritorna spesso sia nelle Lettere che nelle Opere, a volte lasciato cadere accidentalmente in un passo di Orgoglio e Pregiudizio, all’interno di un discorso svampito di Lydia:

“Lo sa, mamma, che lo zio Philips parla di mandar via Riccardo?”[5],

e sempre con accenni di scarso gradimento. Questo ha fatto ipotizzare che nella famiglia Austen circolasse proprio questa sorta di scherzo a riguardo. Lo autorizzerebbero sia un riferimento esplicito in una delle tante lettere a Cassandra:

Le nozze di Mr. Richard Harvey sono rimandate, fin quando non avrà un nome di Battesimo Migliore, cosa su cui fonda grandi Speranze[6],

sia l’affondo parodico rivolto all’eroico padre dell’ancor meno eroina Catherine, appena alla sesta riga del primo capitolo di Northanger Abbey, contro questo sfortunato nome:

Il padre[7] era un pastore né disprezzato né povero, anzi era un uomo assai rispettabile e nonostante il suo nome fosse Richard non era mai stato bello[8].

Stabilire un legame ontologico tra nome e persona doveva essere un’idiosincrasia diffusa, o almeno si può credere che Jane Austen l’avesse assimilata dalla mentalità dell’epoca. Nel Tristram Shandy, essa fornisce spunto al logorroico padre del protagonista che dà il titolo al libro, per una delle sue cervellotiche teorie sull’influsso positivo di un nome importante nella vita di una persona, e viceversa nel caso specifico del figlio. Una teoria non certo priva di fondamento, se è vero che sul capo del tristissimo Tristram, il cui nome è stato apposto per sbaglio, si scatenano incidenti e sfortune di tutti i tipi: dall’incidente con il forcipe alla nascita a quello con la finestra a ghigliottina, tutti aventi lo stesso oggetto martoriato, cui si allude di continuo ma che mai viene nominato.

Casuale non è stata sicuramente per Jane Austen la scelta del nome da assegnare a Mr. Knightley che incarna l’immagine ideale del gentleman inglese e chissà quali altri felici o meno collegamenti dovevano nascondersi dietro ad altri nomi. Perché -si sa- come diceva il saggio Plauto, nomen est omen.

Romina Angelici

 

[1] http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2016/4/3/SAN-RICCARDO-Santo-del-giorno-il-3-aprile-si-celebra-san-Riccardo/692465/

[2] Jane Austen, “Ecco che arrivano”, trad. Giuseppe Ierolli, jausten.it, sez. “altre opere: poems”.

[3] Jane Austen, “Oh, Mr. Best”, trad. Giuseppe Ierolli, jausten.it, sez. “altre opere: poems”.

[4] Jane Austen, Lettere, cit., L. 98 di sabato 5-martedì 8 marzo 1814, p. 379.

[5] Jane Austen, Orgoglio e Pregiudizio, cit., p. 72.

[6] Jane Austen, Lettere, cit., L. 6 di giovedì 15-venerdì 16 settembre 1796, p. 34.

[7] Di Catherine, che già di suo aveva tutto contro per essere un’eroina.

[8] Jane Austen, L’Abbazia di Northanger, Newton & Compton, Roma, 1994, p. 22.