Archivio | marzo 2019

L’angelo del focolare domestico di Coventry Patmore

~ My little old world ~ gardening, home, poetry and everything romantic that makes us dream.: The Beauty of a modest soul.
The Angel in the House è un’espressione coniata dal poeta vittoriano Coventry Patmore (1823-1896).

Egli pubblicò la raccolta di poesie intitolata L’Angelo del focolare (in lingua originale The Angel in the House), che, dedicata alla sua prima moglie, Emily Andrews, da cui ebbe sei figli, esemplificava «la quintessenza del credo vittoriano nella strategica separazione netta della sfera femminile da quella maschile, dello spazio domestico da quello pubblico, dell’auto-abnegazione dall’auto-affermazione” .

Dopo la scomparsa di Emily, conobbe in Italia Marianne, che avrebbe sposato, convertendosi nel 1862 alla religione cattolica. Anche la seconda moglie non gli sopravvisse (deceduta nel 1880); Patmore si risposò una terza volta, con la governante dei figli, mostrando di credere veramente al suo ideale e di volerlo mettere in pratica. Le poverette che lo precedettero un po’ meno.
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Questa espressione, “l’angelo del focolare”, rimane la modalità più diffusa per descrivere la posizione della donna all’interno della società vittoriana. Relegata all’interno degli angusti confini domestici, la donna doveva mantenersi pura e innocente e non avere nessun tipo di contatto con il mondo esterno. In questo modo poteva rimanere al sicuro dai pericoli ed essere la custode vivente della moralità per il marito e per la società. Come afferma Elaine Hartnell, l’angelo del focolare era “a domestic woman, a woman who has no existence outside of the context of her home and whose sole window on the world is her husband”.
Nell’età vittoriana esiste invece un’idea ben precisa di “true woman” che doveva possedere le quattro virtù cardinali di:
• Piety: la religione era considerata consona all’educazione femminile perché, a differenza delle aspirazioni intellettuali, non allontanava la donna dalla sua “proper sphere” e cioè la casa e perché controllava e frenava le aspirazioni femminili.
• Purity: la verginità era considerato il più grande tesoro che una donna possedesse e che doveva essere assolutamente preservato fino al matrimonio. In ogni caso, una donna pura non sarebbe mai stata interessata al sesso, che per lei rimaneva solo una bassa necessità per procreare. E’ risaputo che il consiglio dato dal Primo Ministro alla giovane Regina Vittoria alla vigilia della sua prima notte di nozze fu “to lie there and think of England”. Ne conseguiva che i mariti andavano a cercare altrove, nelle “fashionable impures”, il soddisfacimento dei loro “bassi appetiti sessuali”.
• Submission: le donne dovevano essere obbedienti e sottomesse “as little children” perché gli uomini erano considerati a loro superiori “by God’s appointment”
• Domesticity: il posto delle donne è la casa e le attività a loro consone sono il lavoro a maglia e all’uncinetto, la preparazione dei pasti, la gestione della famiglia, il giardinaggio. Si poteva eventualmente consentire lo studio del pianoforte o della pittura, ma al solo scopo di intrattenere e dilettare i membri della famiglia, non per coltivare ambizioni personali. La lettura veniva fortemente sconsigliata con l’unica eccezione delle biografie religiose.
La “vera donna” doveva apparire fisicamente delicata, dolce e debole. Le caratteristiche della “real womanhood” venivano descritte nei sermoni, nei testi religiosi ma anche diffuse attraverso la stampa femminile (Monica Manzolillo).

Di fatto l’età vittoriana rimane un’epoca piena di grandissime contraddizioni.

Mentre il regno era guidato dalla regina Vittoria (una donna), le donne non avevano diritto al voto, non potevano ereditare niente, in caso di divorzio perdevano ogni diritto sui figli, non potevano nemmeno avere un conto in banca; mentre la famiglia reale trasmetteva l’immagine di prolificità e armonia, nel chiuso delle pareti domestiche potevano consumarsi veri e propri drammi e comunque il dovere procreativo della donna non solo ne esauriva ogni aspirazione, ma poteva anche metterne a rischio la stessa vita. 

 

La donna in bianco di Wilkie Collins

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Non c’è un genere che possa definire e comprendere i romanzi di Wilkie Collins, forse perché il suo è un cosiddetto sui generis. Avevo letto il suo Il fiume della colpa ma quello era solo un piccolo assaggio, un antipasto in realtà, di quanto la sua mente formidabile potesse imbandire. Considerato padre del romanzo poliziesco, con La donna in bianco Wilkie Collins inaugura la tradizione del sensation novel, padroneggiando molto bene l’arte narrativa.

Uno stile impeccabile messo a servizio di una trama machiavellica e geniale, non fa che completare con un tocco da maestro, l’opera di un narratore esperto che sa come tenere incollato il lettore pagina dopo pagina, anzi, parola dopo parola!

La costruzione inizia lentamente, l’impalcatura è importante (perché l’opera da sostenere è imponente) e gradualmente introduce alla storia, al primo nucleo tematico e ai primi personaggi. Le storie in realtà sono tante e destinate a intrecciarsi e sovrapporsi e Collins pensa bene di ricorrere al mondo forense-giudiziario per imprestarsi la formula del processo documentale utilizzandolo come finzione narrativa. Ne esce una storia che è la risultante di un fascicolo processuale aperto su un caso misterioso e che si delinea con il racconto di alcuni dei protagonisti, secondo la loro ottica parziale e soggettiva. Ciascun contributo, con il proprio apporto e punto di vista, concorre a delineare il complessivo quadro probatorio in base al posizionamento graduale di tutte le tessere che lo compongono e che ritornano al loro posto originario.

Come un esperto bozzettista Collins tratteggia dei ritratti estremamente realistici, vividi dei personaggi esaltando in ognuno una caratteristica che li rende tutti allo stesso modo indimenticabili. I personaggi di secondo piano non per questo sono peggio caratterizzati rispetto ai protagonisti che per forza di cose sono destinati a stare di più sulla scena e a beneficiare di una considerazione privilegiata. Mr Hartright, Laura Fairlie, Marian Halcombe, Anne Catherick, il conte Fosco, sir Percival.

L’effervescenza del prof. Pesca, la placidità di Mrs Vesey immortalata nella sua posa abituale: “Mrs Vesey, nella vita, sedeva”, la suscettibilità dell’indolente Mr Fairlie e dei suoi poveri nervi, sono abili tocchi che li fanno materializzare davanti ai nostri occhi.

Le descrizioni sono abilmente condotte perché giocate sulla creazione di un ambiente che non solo fa da sfondo all’azione, ma la evoca e introduce avvolgendola nella giusta atmosfera. Di qui l’impiego insistente di un’aggettivazione cupa e misteriosa, carica di significati che rimandano all’oscurità, all’intrigo, al continuo stato di tensione e suspense per un’incombente minaccia.

La ricchezza del lessico è impressionante e quasi maniacale e ossessiva è la dovizia di particolari registrati, peraltro in modo affatto casuale; se la prima parte del romanzo può rimanere più lenta, ciò è dovuto al fatto che è propedeutica a presentare e delineare l’impianto indiziario che riserva più di un colpo di scena.wilkie collins

Riconoscibile l’influsso del maestro Dickens, i topoi e le tinte fosche del romanzo gotico e l’eco della tradizione shakespeariana dello scambio di persona: come novella Ero, Laura creduta morta, si vede restituita l’identità e la propria posizione sociale in quanto Lady Glyde. Si avverte anche il fascino oscuro rappresentato dall’Italia, dove Collins si era recato in viaggio da giovane con la famiglia: il conte Fosco, malvagio ideatore di tutto l’intrigo, e il prof. Pesca sono uniti dalla comune appartenenza alle società segrete italiane che entrano di prepotenza nell’intreccio con il loro spietato codice d’onore.

Per quanto riguarda i contenuti questo romanzo offre lo spunto per una riflessione che viene spontaneo fare sulla condizione femminile: le varie figure di donna che incontriamo lungo la storia sono presentate alla mercè dell’uomo, in ogni caso, a prescindere dal ceto sociale o dalla ricchezza. Se non in balia come purtroppo accade a Laura di diventare, le altre donne sono comunque in posizione di dipendenza da un familiare o un marito, quando non sono state rovinate da qualche mascalzone che si è approfittato di loro. L’istituzione del matrimonio mette al riparo per quanto riguarda la rispettabilità sociale ma secondo un’ottica molto più critica, non assicura assolutamente la felicità:

Ero davvero convinta che un futuro da nubile, all’ombra di un affetto mal riposto, che mai avrebbe potuto riconoscere, avrebbe potuto garantire a Laura una prospettiva migliore di un matrimonio con un uomo che adorava perfino la terra su cui ella camminava? Nel secondo caso si poteva almeno sperare che il tempo le venisse in aiuto; nel primo caso, per sua stessa ammissione, non v’era speranza alcuna.

 

A Marian Halcombe, la sorellastra di Laura Fairlie, che si dimostra in diversi frangenti una donna nubile, forte e intelligente, viene affidato il compito di denunciare la precarietà della condizione femminile:

 

Nessun uomo al mondo merita un tale sacrificio da una donna! Gli uomini! Sono loro i nemici della nostra innocenza, della nostra serenità -ci rubano all’amore dei nostri genitori, all’amicizia delle nostre sorelle- ci rubano l’anima e il corpo, e incatenano le nostre vite alle loro, come incatenano un cane alla cuccia! E che ci danno in cambio nel migliore dei casi?

 

Un grido accorato che dimostra ancora una volta quanto fosse sempre attuale il tema e quanto fosse sensibile lo stesso Wilkie Collins alla sua urgenza.

Mrs Oliphant e Miss Austen

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Mentre collaborava con la rivista Blackwood’s Edinburgh Magazine, Margareth Oliphant scrisse un articolo intitolato: “Miss Austen and Miss Mitford” che venne pubblicato nel numero di Marzo del 1870[1]. Questo suo intervento seguiva di poco l’uscita della biografia di Jane Austen scritta dal nipote James Edward Austen-Leigh (A Memoir of Jane Austen) e quella di Mary Russell Mitford (The Life of Mary Russell Mitford, authoress of “Our Village,” etc., Related in a Selection from Her Letters to Her Friends) e ci mostra l’analisi della vita di entrambe le scrittrici condotta parallelamente:

Non abbiamo intenzione di fare alcun paragone tra queste due vite, e nemmeno le due menti sono comparabili. Miss Austen era di gran lunga un’artista più grande, ma la dolcezza dell’atmosfera che circondava la sua umile contemporanea era al di sopra delle possibilità della grande romanziera. Di fronte all’una restiamo ammirati e stupiti, osservando l’opera perfetta che scaturisce dalle sue mani con mezzi così insignificanti, mentre con l’altra facciamo poco più che respirare la freschezza dell’aria e dei fiori, e riconosciamo un piccolo luogo non creato, ma descritto. Eppure le due figure messe qui insieme per caso – diverse come mentalità e destino, eppure così simili in alcune cose concrete – gettano una certa luce l’una sull’altra… donne eccentriche senza rivendicazioni femminili, modeste, gentili, poco invadenti come la più umile delle casalinghe. Lasciateci sperare che i loro ritratti riprodotti in modo così simultaneo possano fare qualcosa per il ristabilimento dell’antico standard che i giornalisti ci dicono sia così cambiato ai giorni nostri; oppure possano almeno dimostrare che la possibilità per le donne di lavorare non è cosa di oggi, ma è esistita, e portata avanti ottimamente, con poco chiasso ma discreto successo, prima che qualcuno degli agitatori attuali di questo argomento molto discusso nascesse per illuminare un mondo ignaro[2].

Nonostante la precisazione con cui vuole stabilire delle somiglianze tra le due scrittrici:  

Entrambe appartenevano a quella classe di persone di buona famiglia di origine clericale, che è in un certo senso quella più piacevole da frequentare nella limitata gerarchia della vita di campagna. Erano di nascita e parentele giuste, con una posizione modesta che nemmeno la povertà avrebbe potuto compromettere seriamente, insieme all’abitudine di frequentare fin dall’infanzia persone distinte ed eminenti, e la consapevolezza di condividere ampiamente la vita della parte più elevata della società, data dal fatto di avere parentele e amicizie che rivestivano in essa un ruolo effettivo. Nessun processo educativo è più efficace di questo semplice fatto, e Jane Austen e Mary Mitford erano entrambe inserite in questo ambito. Avevano avuto entrambe una buona istruzione…

l’autrice dell’articolo, con il senso critico che la contraddistingue, scova subito, dietro al quadretto perbenista confezionato dal nipote, i guizzi del genio nascosto dietro a quell’esistenza pacata e tranquilla trascorsa da Jane Austen in seno alla gentry inglese:

 

Mr Austen Leigh, senza volerlo, fa emergere dalla sua fioca lanterna un raggio di luce che illumina la raffinata vena di cinismo femminile che pervade la mente della zia. È qualcosa del tutto diverso dalla rude e brutale caratteristica maschile che porta lo stesso nome. È la delicata e silenziosa incredulità di uno spettatore che deve osservare una gran quantità di cose senza mostrare alcun turbamento esteriore, e che ha imparato ad abbandonare ogni classificazione morale di peccati sociali, e a collocarli invece al livello di assurdità. Miss Austen non si sorprende, non si offende, men che meno inorridisce o s’indigna, se i suoi personaggi rivelano un carattere volgare o meschino, se rendono evidente come siano egoisti e presuntuosi, o anche quando si lasciano andare a quelle crudeltà sociali di cui si rendono colpevoli così spesso gli egoisti e gli sciocchi, non senza volerlo, ma senza la capacità di rendersi conto del dolore che stanno infliggendo. Lei sta a guardare, si concede un sommesso mezzo sorriso, e racconta la storia con uno squisito senso del ridicolo, e con uno sferzante disprezzo, sia pure espresso sottovoce, per gli attori della vicenda. Simpatizza con chi soffre, ma non si può dire che sia davvero dispiaciuta per loro; li coinvolge inconsapevolmente nella sua percezione del sottinteso divertimento della scena, insieme a un sottile disdegno circa la possibilità che la meschinità, la follia e la stupidità possano davvero ferire una creatura razionale.

download (3)Attraverso la descrizione fatta dal nipote e ancor più la lettura dei suoi stessi romanzi, emerge -e Mrs Oliphant subito lo registra- il carattere di Miss Austen che si distingue per la sua scrupolosa determinazione a descrivere solo ciò che conosceva:

Di per sé, tuttavia, ciò getta una certa luce sul suo carattere, che non è semplicemente quello che appare a prima vista, ma è colmo di una sottile energia, di acume, finezza e riserbo, un carattere nient’affatto raro in donne di buona cultura, specialmente nell’isolamento della campagna, dove qualità del genere è molto probabile che siano sottovalutate o fraintese[3].

 

Non paga, Mrs Oliphant ne passa al vaglio gli esordi con i primi esperimenti letterari dei 16-17 anni, la -secondo lei- inspiegabile mancanza di una vita sentimentale, i romanzi, in particolare Orgoglio e Pregiudizio  -che insieme a Emma è il suo preferito- dilungandosi a parlare dei suoi personaggi e della maestria con cui sono stati tratteggiati. L’analisi è lunga e dettagliata, l’ammirazione è autentica ma Mrs Oliphant non può rinunciare al suo senso pratico e con una virata recupera l’intenzione iniziale con cui è stato scritto questo saggio e cioè dimostrare come la scrittura fosse diventata già da tempo un’occupazione femminile:

Non abbiamo intenzione di fare alcun paragone tra queste due vite, e nemmeno le due menti sono comparabili. Miss Austen era di gran lunga un’artista più grande, ma la dolcezza dell’atmosfera che circondava la sua umile contemporanea era al di sopra delle possibilità della grande romanziera. Di fronte all’una restiamo ammirati e stupiti, osservando l’opera perfetta che scaturisce dalle sue mani con mezzi così insignificanti, mentre con l’altra facciamo poco più che respirare la freschezza dell’aria e dei fiori, e riconosciamo un piccolo luogo non creato, ma descritto. Eppure le due figure messe qui insieme per caso – diverse come mentalità e destino, eppure così simili in alcune cose concrete – gettano una certa luce l’una sull’altra, ergendosi sotto “la piccola distesa di cielo e il piccolo gruppo di stelle” che appartengono loro per natura; donne eccentriche senza rivendicazioni femminili, modeste, gentili, poco invadenti come la più umile delle casalinghe. Lasciateci sperare che i loro ritratti riprodotti in modo così simultaneo possano fare qualcosa per il ristabilimento dell’antico standard che i giornalisti ci dicono sia così cambiato ai giorni nostri; oppure possano almeno dimostrare che la possibilità per le donne di lavorare non è cosa di oggi, ma è esistita, e portata avanti ottimamente, con poco chiasso ma discreto successo, prima che qualcuno degli agitatori attuali di questo argomento molto discusso nascesse per illuminare un mondo ignaro.

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[1] Tradotto in italiano da Giuseppe Ierolli e consultabile al sito da questi curato: jausten.it

[2] http://www.jausten.it/jaindoliphant.html

Margareth Oliphant Oliphant

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Vita  molto sfortunata quella di Margaret Oliphant Oliphant, nata Margaret Oliphant Wilson (Wallyford, 4 aprile 1828 – Londra25 giugno 1897), scrittrice e poetessa scozzese.

Margaret trascorse l’infanzia a Lasswade (vicino Dalkeith), Glasgow e Liverpool. Fin da ragazza si esercitò con esperimenti letterari e nel 1849 pubblicò il suo primo romanzo, Passages in the Life of Mrs Margaret Maitland. Con un discreto successo, l’opera tratta del movimento per la Libera Chiesa Scozzese, movimento per cui i genitori di Margaret simpatizzavano. Nel 1851 venne pubblicato Caleb Field. Lo stesso anno Margaret conobbe il Maggiore William Blackwood a Edimburgo, che la invitò a contribuire al famoso Blackwood’s Magazine. Continuò per tutta la vita a scrivere per la rivista fino ad arrivare a oltre un centinaio di articoli, più che una letterata la Oliphant amava definirsi, una «general utility woman».

 

Nel maggio del 1852 sposò suo cugino Frank Wilson Oliphant, a Birkenhead, andando poi a vivere a Harrington Square, a Londra. Frank era un vetraio specializzato nella costruzione di vetrate per chiese e cattedrali. Era di costituzione molto debole e tre dei loro sei figli morirono ancora infanti[1], mentre il padre iniziò a mostrare sintomi sempre più gravi di una crescente consunzione.

Nel gennaio 1859, durante un viaggio in Italia il marito Frank morì. Margaret, rimasta quasi del tutto priva di risorse, tornò in Inghilterra accollandosi l’onere di sostenere i tre figli rimasti, con solo la sua attività letteraria. Aveva infatti cominciato già a contribuire al mantenimento della famiglia all’inizio della malattia del marito, collaborando alla “Blackwood’s” e al suo ritorno in patria incomincia la sua opera più nota, le Chronicles of Carlingford.

Nel 1860 Margaret era ormai diventata una famosa e affermata scrittrice; sfortunatamente la sua vita privata fu piena di sventura e delusione. Durante un secondo viaggio in Italia con i bambini, perde la figlia amatissima di soli dieci anni, Maggie, nel 1864, sempre a Roma, dove viene sepolta assieme al padre.

Tornata in Inghilterra l’anno dopo, si stabilirà definitivamente a Windsor, per essere vicina a Eton dove fa studiare i due figli maschi che le sono restati. Nel ’68, in seguito alla rovina economica del fratello minore Frank, emigrato in Canada, la Oliphant si fa carico dei suoi due figli maggiori, cui si aggiungeranno, poco più tardi, lo stesso Frank, rimasto vedovo e caduto in depressione, e le due figlie minori. A questo carico va aggiunto il mantenimento a Roma dell’altro fratello, il maggiore, Willie, per circa un quarto di secolo.

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(immagine tratta dal sito: http://www.victorianweb.org)

Queste vicende economiche familiari sono importanti perché, per tutta una serie di motivazioni più o meno valide, esse condizionano la sua reputazione di donna che con il suo solo lavoro e senza alcuna assistenza maschile, è riuscita nella impresa «stravagante» (secondo l’espressione eufemistica di allora) di mantenere tre giovani a Eton, educare le due nipoti, mandandole anche in collegio in Germania, e per di più, mantenere uno stile di vita tale da poter essere invitata, lei figlia di un impiegato, a prendere il tè dalla regina Vittoria, affezionata lettrice dei suoi romanzi. Questa impresa economica, titanica come la produzione letteraria, condizionò fin da principio l’immagine della scrittrice: una woman of letters professionista di successo e quindi valutabile, senza esitazione, con il metro del gusto «popolare» che ella tanto e a lungo seppe accontentare.

Trascorse il resto della sua vita a Windsor per più di trent’anni scrisse e produsse opere letterarie, diventando nel 1880 mentore letteraria della scrittrice irlandese Emily Lawless. L’ambizione per il successo dei figli rimase però insoddisfatta. Cyril Francis, il maggiore dei tre figli rimasti, morì nel 1890 lasciando incompleta la biografia che sta scrivendo su Alfred de Musset, che verrà incorporata nella raccolta della madre Foreign Classics for English Readers. Il figlio più giovane, Francis, detto “Cecco”, collaborò con la madre alla stesura di Victorian Age of English Literature guadagnandosi un lavoro al British Museum. Anche Cecco purtroppo morì nel 1894. Dopo aver perso anche l’ultimo figlio, Margaret iniziò a perdere l’interesse per la vita. La salute incominciò lentamente a calare finché non morì, a Wimbledon, dopo ben 12 lutti familiari, il 25 giugno 1897.

La sua produzione letteraria fu vasta e eterogenea. Nonostante le numerose disgrazie vissute in prima persona, Margaret Oliphant fu un prolifica scrittrice con oltre 120 opere singole, tra cui romanzidiari di viaggio e descrizioni, storie e vari volumi di critica letteraria e una storia della letteratura inglese (The literary history of England in the end of the eighteenth and beginning of the nineteenth century, 1882). Purtroppo, è una rarità che qualcuna di esse sia stata tradotta in italiano. Si possono trovare i racconti: Una piccola pellegrina nel mondo invisibile, Reggio Emilia, Miraviglia editore, 2010; La finestra della biblioteca, a cura di Maria Teresa Chialant, Venezia, Marsilio editore, 2001 e La terra delle tenebre, a cura di Massimo Rizzardini, Lupetti editore, 2008.

 

I suoi editori e lei stessa erano consapevoli che l’eccessiva produzione avrebbe influito negativamente nella valutazione della qualità della sua opera: ma il costante stato di necessità, e più esatto sarebbe dire emergenza, economica impedì sempre di verificare se la sua prolificità, o come lei preferiva dire «il suo procedere a vele spiegate», fosse anche una sua caratteristica naturale. Più di una volta, pensando alla sua professione, una professione maschile, la Oliphant afferma di non aver avuto, in realtà, scelta o meglio che si era trattato di una scelta obbligata: dalle circostanze del quotidiano (che ambiguamente possono essere di carattere economico, ma anche morale) o dalla natura del suo talento o dalle une e dall’altra insieme? Di certo guardava con molta ironia ai suoi colleghi uomini:

Tutti sanno che ci basta poco per soddisfare un gentiluomo; è sufficiente che gli si dia attenzione.

Nell’autobiografia che cominciò a scrivere nel 1885, quando questo genere era molto in voga, si vanta dei risultati economici raggiunti, nonostante i suoi «buoni» editori approfittassero della debolezza della sua situazione:

«I miei editori erano buoni e gentili…ma, probabilmente a causa degli anticipi e del mio costante stato di bisogno ed anche della mia incapacità, per via delle circostanze e per carattere, di tirare sul prezzo – non furono mai prodighi nel pagare…Anche nei momenti di maggior ambizione preferivo che i miei figli mi avessero ricordata come madre piuttosto che sotto qualsiasi altro aspetto e gli amici come un’amica. E adesso che non ci sono più figli a cui lasciare ricordi e che, giorno dopo giorno, gli amici se vanno, cos’è mai per me la fama di una circulating library? Niente, e meno di niente – solo una cosa che ora mi fa arrabbiare, al pensiero che qualcuno possa immaginare, anche per un momento, che me ne sia mai importato…C’è però una cosa che, stranamente, mi ha sempre urtata, ed è il disprezzo implicito nei complimenti che per molti anni si è ritenuto opportuno rivolgermi, direttamente o parlando di me, a proposito della mia operosità…Quell’impareggiabile senso di superiorità in bocca a gente che non aveva né operosità né altro di cui vantarsi, devo ammettere, mi mandava su tutte le furie»).

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Questa donna piccola e grassottella, piuttosto comune, poco loquace e senza particolari distinzioni (per usare parole sue), in realtà possiede il fascino coinvolgente e inesauribile delle personalità complesse dei grandi personaggi della letteratura, tanto ricche di sfaccettature da non poter essere mai comprese fino in fondo. È attraverso la scrittura, che veicola tale complessità, che l’Autobiografia si rivela un capolavoro del genere autobiografico, oltreché della produzione oliphantiana e la chiave alla sua interpretazione e rivalutazione. Nella scrittura della Oliphant si rispecchia infatti una profonda consapevolezza della realtà – dalla psicologia individuale all’atmosfera sociale alle teorie intellettuali alle mode culturali – che non deve stupire, data l’eterogenea vastità della sua cultura, di gran lunga superiore a quella di molte apprezzate contemporanee, che «si prendevano tremendamente sul serio». Ed è proprio per l’eccezionale grado di consapevolezza che affiora dalla sua opera, che si impone come doverosa la rivalutazione di questa grande woman of letters (Beatrice Battaglia, “L’Autobiografia di Margaret Oliphant: vivere da scrittrice professionista nell’Ottocento inglese”, in Memorie, Diari, Confessioni, a cura di A. Fassò, Bologna, Il Mulino, 2007).

 

 

[1] “Uno dei figli morì all’età di un giorno, un altro, Stephen Thomas Oliphant, dopo appena nove settimane, mentre Marjorie Oliphant, l’altra figlia, morì all’età di circa otto mesi. I figli sopravvissuti furono quindi Maggie Oliphant (morta nel 1894), Cyril Francis “Tiddy” Oliphant (morto nel 1890) e Francis Romano “Cecco” Oliphant (morta nel 1864)”

 

Louisa May Alcott e la figura paterna.

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Il rapporto di Louisa con suo padre rimane qualcosa di controverso e comunque non univoco, come altre questioni relative alla vita della scrittrice americana, da sempre etichettata in un certo modo politicamente corretto.

Sicuramente Louisa amava e stimava il padre come pedagogo e pensatore, pur non condividendo del tutto, credo, l’astrusità del suo idealismo che non dava da mangiare alla famiglia Alcott.

 

Mio padre insegnava nella maniera saggia che permette di liberare ciò che risiede nella vera natura dei bambini, così come un fiore sboccia, piuttosto che infarcirli di una quantità eccessiva di nozioni, come se fossero tacchini all’ingrasso.

 

L’originalità del metodo di Bronson Alcott non stava tanto nella maieutica concettuale o nell’indotta introspezione, ma piuttosto nello sviluppo di una serie di attività rivolte a curare l’autoespressione e la creatività dei fanciulli, oltre che a fornire loro occasioni per imparare a essere indipendenti.

 

I migliori insegnanti sono l’osservazione, piuttosto che i libri, e l’esperienza, piuttosto che le persone.

 

Da qui l’importanza data alla drammatizzazione, alle composizioni libere e al disegno tra le materie insegnate. Il programma scolastico era organizzato su ventidue ore settimanali di cui due di aritmetica, due di geografia, una di disegno e le altre diciassette dedicate a fare conversazioni sui Vangeli e sull’anima e sul corpo, oltre che a redigere composizioni libere e diari, trascurando però del tutto le scienze. La prima a tesserne l’elogio è la collega Elizabeth Peabody:  

 

Il sig. Alcott sedeva alla cattedra e i bambini sulle loro sedie, disposte ad arco attorno a lui. Le sedie erano a una distanza tale che i bambini non potevano toccarsi tra di loro. Poi, chiese a ciascuno di loro quale fosse, secondo lui o lei, lo scopo di venire a scuola. “Per imparare” fu la prima risposta. Imparare che cosa? Insistendo su quella domanda, i bambini citarono tutti i più comuni esercizi scolastici, nonché diversi ambiti dell’arte, della scienza e della filosofia. Ma il sig. Alcott disse che mancava ancora qualcosa. Infine, uno dei bambini disse “a comportarci bene”, ed esaminando i possibili significati di quest’espressione, conclusero che venivano per imparare a sentire, pensare e agire nel modo giusto[1]

 

 

Sebbene Amos Bronson Alcott sia famoso come il “padre delle Piccole Donne”, il suo ruolo di guida nella riforma dell’istruzione è sconosciuto ai più. Non soltanto era insegnante e Sovrintendente delle scuole di Concord, ma fu anche uno dei fondatori del primo istituto di istruzione per adulti degli Stati Uniti, la “Scuola estiva di filosofia di Concord”. Per tutta la vita Alcott aveva sognato di poter dare agli adulti un luogo in cui riunirsi e imparare. Ci riuscì molto tardi purtroppo -la prima sessione estiva si tenne nel 1879, proprio a Orchard House- e sicuramente grazie all’aiuto di Louisa che di fatto aveva provveduto alla famiglia. Ma lui era troppo preso dal suo ruolo per pensare a banali questioni pratiche come il sostentamento materiale:

 

Un vero insegnante protegge i suoi alunni dalla sua stessa influenza. Li spinge ad avere fiducia in se stessi e sposta la loro attenzione dalla sua persona allo spirito che lo pervade. Non si circonda di discepoli. È un artista nobile che ha visioni di eccellenza e rivelazioni di bellezza, senza dar loro vita con il carattere o con le parole. La sua vita e i suoi insegnamenti non sono che lo studio di ideali ben più nobili.”[2]

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Da bravo insegnante e pedagogo, Bronson aveva già colto la vivacità non solo fisica ma anche intellettiva di Louisa visto che, quando la bimba aveva solo due anni, annotava sul suo diario alcune osservazioni relative al suo carattere:

è ancora piccola perché si possa avere un giusto giudizio del suo carattere. Essa manifesta una attività e una forza della mente fuor del comune al presente, ed è molto in anticipo sulla sorella alla sua stessa età. L’esempio ha contribuito molto a incitare all’azione la sua natura. Essa è più attiva e pratica di Anna. Non trova difficoltà nell’escogitare la sua strada e intende conseguire il suo intento.

 

Forse per il pedagogo doveva essere una figlia un po’ scomoda, o forse poteva diventare l’esempio perfetto di un esperimento riuscito. Applicazione dei principi del trascendentalismo come sublimazione della libera espressione e della tolleranza, ma anche imposizione di regole inflessibili, soprattutto per forgiare il carattere di Louisa cui venivano impartiti precisi compiti di autocorrezione.

Sta di fatto che la piccola Lu sin da piccola venne invitata dalla propria mamma a tenere un diario in cui annotare pensieri, propositi e occasionali sfoghi per provare a correggere il suo carattere, ma la peculiarità di casa Alcott era che il padre aveva vietato l’uso del pronome di prima persona e la mamma andava poi a leggere e a controllare quelle annotazioni scrivendoci accanto le sue osservazioni e i suoi incitamenti.

 

La sera il babbo ci ha domandato quale dei nostri difetti è quello che ci dà più noia. Ho risposto il mio cattivo carattere. Ho detto alla mamma che mi piace tanto che mi scriva sul diario.

(La mamma) Cara Lu, il tuo diario migliora sempre. Abbine cura e non lo scrivere troppo in fretta. Mi fa piacere che tu rifletta sulle nostre conversazioni e sui tuoi propri pensieri. Il diario ti aiuterà a esprimerli e a capire meglio te stessa. Che esso possa sempre raccogliere pensieri puri e buone azioni. Allora sarai davvero la mia più cara bambina.

 

Alla faccia del rispetto della libertà personale tanto sbandierata dai trascendentalisti.

Scherzi a parte, il carattere da maschiaccio di Louisa che veramente correva come una scalmanata e saltava le staccionate, come vediamo trasposto in Jo, destava non poche preoccupazioni nei genitori che al contempo ne intuivano già le potenzialità e volevano coltivarle, anziché reprimerle.

Credo che lei fosse combattuta tra il padre e la madre, tra le idee dell’uno e il senso pratico dell’altra avvertendo l’irrinunciabilità di entrambi e rimanendo segretamente affascinata dalla carismatica figura del padre, guida e maestro in tutti i sensi, tanto da raccontarne la fanciullezza in Eli’s education (contenuto nella raccolta Spinning wheel storiesIntorno all’arcolaio): Eli, un ragazzo biondo, con gli occhi azzurri, dall’aspetto timido e gentile, vive nel Connecticut dove aiuta il padre nel lavoro dei campi ma approfitta di ogni momento libero per leggere; il padre lo considera un sognatore, la madre lo difende. Ma lui a soli sedici anni decide di lasciare la casa paterna per cercare la sua strada, come ne Il viaggio del pellegrino,[3] riuscendo a diventare un insegnante bravo e benvoluto da tutti i bambini. Forse era quel “giovane e geniale maestro” che Sam May aveva presentato alla sorella Abba a Brooklyn.

Sta di fatto che Louisa interiorizzò pienamente la lezione e accettò, anche abbastanza rassegnata, le regole paterne, finanche quelle della comune di Fruitlands. L’intento era quello di vivere tutti insieme sostentandosi con i soli frutti della terra come propiziato dal nome, ma il risultato deluse talmente le aspettative da essere abbandonato con il sopraggiungere del freddo dell’inverno. Bronson si ritirò scoraggiato, non cieco alla sua famiglia debilitata e provata da una ferrea dieta vegetariana portata all’estremo. Il cibo doveva essere puro e nutrire più lo spirito che il corpo, non si doveva mangiare carne per non uccidere gli animali e neppure togliere il latte ai vitelli, non si usava lo zucchero per boicottare gli schiavisti e si indossavano solo abiti di lino: Louisa era sempre affamata e doveva imparare a memoria il mantra: “La dieta vegetariana assicura un dolce riposo, il cibo dato dagli animali procura incubi”.

Louisa, anni dopo, in un articolo sull’Indipendent pubblicherà Trascendental wild oats (Selvaggia avena trascendentalista) raccontando l’esperienza della comune anche con tono scherzoso, ma senza nascondere l’incapacità dei suoi fautori ad adeguarsi alla realtà della vita.

Di fatto però il padre fu una presenza costante della sua vita, che addirittura la aiutava nei suoi primi racconti e la sosteneva e incoraggiava nelle sue scelte, come quando parte per Boston:

 

Louisa va a Boston, per imparare qualcosa di più intorno alle sue disposizioni per la scuola materna… La signora Fields l’ha invitata a trascorrere un mese nella sua casa in città. Io vorrei che potesse avere successo nel suo insegnamento e soddisfare le sue amiche nella impresa; per le sue doti di cuore e di mente che sono nei suoi libri e studi, posso arditamente sperare in un grande successo in un’arte che richiede la padronanza di ogni capacità per raggiungere i propri scopi[4].

 

Fu sempre il padre a favorirne la carriera letteraria portando all’attenzione dell’amico Frank Sanborn, editore del giornale “Commonwelth” le lettere scritte a casa da Louisa durante la guerra di secessione, come infermiera volontaria all’ospedale militare di Georgetown vicino a Washington: tutto quel bagaglio di incontri commoventi ed emozioni forti furono pubblicati con il titolo Hospital Sketches[5] ed ebbero immediato successo.

Louisa però non è stata del tutto sincera con suo padre e il fatto che scrivesse racconti gotici e del terrore utilizzando pseudonimi dimostra come volle nascondersi anche da lui che forse non avrebbe approvato il genere intrapreso.

 

E che cosa potrebbe pensare mio padre… se istigassi la gente a fare quello che mi diletto a far fare ai miei personaggi? No, mia cara, resterò per sempre la vittima disgraziata delle rispettabili tradizioni di Concord.

 

Lei che aveva l’abitudine di paragonare suo padre a Re Lear, sembra sorridere nel fargliela alle spalle; lei che proclamava di scrivere per guadagnarsi da vivere, confessava che guadagnare e anche scrivere le riusciva più facile quando invece di creare modelli di amabilità e mansuetudine, si lasciava andare a creare figure di donne vissute, incantatrici, intriganti. Benché la Alcott sostenesse di scrivere per essere una figlia migliore, fu proprio scrivendo ciò che non si dovrebbe scrivere, “comportandosi male”, che riuscì a raggiungere il proprio scopo. Comportarsi male, scrivere ciò che non si dovrebbe, è la strada che molte scrittrici e personaggi femminili hanno scelto per trovare un’uscita dalla Terra dei padri[6].

 

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Senza addentrarci troppo a cercare di capire se fu una scelta o meno, di tutte le figlie fu quella che rimase legata agli affetti familiari, rinunciando a vivere una vita propria. Louisa, la più ribelle e indomita, rimase legata alla famiglia d’origine, quale nume tutelare dell’originario nucleo domestico, vicina al padre fino agli ultimi giorni. Il 1° marzo 1888, sapendo che la fine del padre era vicina, Louisa si recò a Boston per fargli visita. Lo trova:

Molto dolce e debole, mi ha baciato e ha detto: vieni presto. Ha annusato i miei fiori e mi ha chiesto di scrivergli una lettera”.

 

Lui si addormenta per sempre il 4 marzo. Per ironia del destino, morirono a due giorni di distanza l’uno dall’altra.

[1] Record of a School, 1835

[2] Amos Bronson, Alcott Orphic Sayings, 1841

[3] Di John Bunyan.

[4] Dal diario di Amos Bronson Alcott del 6 gennaio 1862.

[5] In italiano Racconti d’amore e di guerra, a cura di Sara Antonelli, Donzelli, 2008.

[6] Chiara Briganti, Anche tu figlia mia!, cit., p. 202.

Intervista doppia ad Amalia & Amaryllis

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Sono già usciti Polaris, dalla penna di Amaryllis, e Il Prezzo della Sposa scritto da entrambe: volete illustrarci il piano dell’opera?

La saga del Sestante di Amaryllis L. Medlar è composta da quattro romanzi: i primi tre coprono temporalmente il periodo dal 1853 al 1856, mentre il quarto è un Regency.

Dall’incontro fortuito di Amelia e Jacob, nel bel mezzo di una sala da ballo gremita di ospiti, prendono forma tutta una serie di vicende che coinvolgono quanti a loro più cari: Alek, Pasha, Effie, Alek, Kristoff…

Per quanto concerne le ambientazioni, il primo volume è interamente ambientato a Londra, nel secondo siamo in Scozia, il terzo varca la Sublime Porta. Sul quarto, per ora, silenzio stampa.Risultati immagini per polaris amaryllis

(l’immagine è di Antonia Romagnoli)

La saga della Sposa di Amalia&Amaryllis è una serie di quattro romanzi in forma epistolare corale, ambientati fra il 1870 e il 1888 in varie nazioni, partendo dalla Svezia e dalla Russia e allargandosi parecchio, fino a toccare altri continenti.

Si parte da un nucleo di personaggi vincolati da legami familiari e affettivi (ereditati dal primo volume del sestante) e ci si espande in un frattale di relazioni sociali che esplora una grande varietà di eventi, interazioni e sentimenti.

Ne “Il Prezzo della Sposa” (pubblicato a ottobre 2018) il tema portante è quello dell’amor vincit omnia, ossia del prezzo che si deve pagare per superare una serie di ostacoli e barriere al coronamento di un sentimento vero.

Ne “L’Onore della Sposa” (pubblicato a marzo 2019) si esplorano in modo più polifonico diverse forme di amore e il tema portante è quello delle apparenze in conflitto con la sostanza, con una serie di declinazioni davvero molto varia.

Nel terzo volume (in uscita entro l’estate 2019) il tema portante sarà quello dell’amore travolgente.

Nel quarto e ultimo volume (in uscita entro l’inverno 2019) il tema portante sarà quello dell’amore salvifico.

…e poi…e poi sorpresa, ci piace mischiare le carte in tavola!

C’è un ordine in cui vanno letti i vostri libri?

Idealmente, le due saghe, del Sestante (Amaryllis) e della Sposa (Amalia&Amaryllis), pur condividendo personaggi e situazioni, sono distaccate. Come collocazione temporale anzitutto, visto che il Sestante copre dal 1853 al 1856 (con un’incursione nel mondo Regency) mentre  la Sposa dal 1870 al 1888. Ma anche e soprattutto come forma narrativa, perché Polaris e i suoi seguiti inediti, sono romanzi narrativi, mentre i libri della Sposa sono tutti in forma epistolare e corali, ossia con un gran numero di personaggi, senza che sia sempre facile identificare i protagonisti.

I personaggi, con il distacco temporale di cui sopra, sono in gran parte gli stessi, ma le due saghe possono essere lette in modo indipendente senza perdersi nulla.

Cronologicamente si dovrebbe leggere prima Polaris e poi attaccare la Sposa, ma noi pensiamo, come opinione personale, che renda di più leggere il primo volume della Sposa e poi andare a scoprire il passato dei personaggi in Polaris, per proseguire con la Sposa.

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Come avete fatto a scoprire che la formula a quattro mani era vincente? Interessi, formazione comune o semplicemente è il caso che vi ha fatto incontrare?

Ci siamo incontrate per caso nel meraviglioso gruppo Regency&Victorian, decisamente galeotto, e scrivere insieme è stata si potrebbe dire una deriva naturale.

Non abbiamo fatto grandi speculazioni, è venuto da sé ed è stata – e continua ad essere – un’esperienza fantastica, perché come interessi siamo complementari e stilisticamente, pur nella diversità, estremamente compatibili.

 

 

Come recita il famoso interrogativo, è venuto prima l’uovo o la gallina? Ossia, qual è stata la scintilla che ha innescato tutto: l’idea di Polaris o de Il Prezzo della Sposa?

Polaris è stato terminato due giorni prima che iniziassimo a scrivere Il Prezzo della Sposa, che ha preso il via con una velocità impressionante e un’energia trascinante che ci hanno un po’ distolto dai rispettivi progetti in singola e portato a concludere la saga, come prima stesura, nel giro di pochi mesi. Ora le revisioni e pubblicazioni dei volumi successivi della Sposa procedono in parallelo con la scrittura del Sestante da parte di Amaryllis e le mille idee in cantiere di Amalia.

Ma di recente anche a quattro mani abbiamo iniziato (finito, ormai :P) qualcosa di nuovo.

Per molti aspetti, gli avvenimenti della Sposa hanno condizionato i seguiti di Polaris e, viceversa, i profili caratteriali che negli epistolari presentano i “magnifici sette” (Amelia, Jacob, Stiva, Alek, Pasha, Marfa, Effie) dovevano in qualche modo trovare riscontro nel passato. Passato e presente si sono influenzati a vicenda e i personaggi, scrivendosi si può dire da soli, ci hanno svelato moltissimo di se stessi. Speriamo riescano a sorprendervi come hanno sorpreso noi.

 

Che rapporto avete con gli pseudonimi?

Gli pseudonimi, avendo pubblicato singolarmente, erano già lì quando ci siamo conosciute e prima che decidessimo di imbarcarci in questa avventura.

Ma poi Amalia&Amaryllis suonava così bene, così vittoriano, che abbiamo deciso di abbandonare le nostre firme complete per dare vita a questa specie di marchio per gli epistolari, che amiamo moltissimo.L'immagine può contenere: testo

Da dove nasce la vostra passione per i Paesi dell’Est?

Ci piace molto il contrasto riscontrabile, nell’Ottocento, tra la Svezia, che per diritto, politiche sociali e cultura era tra le nazioni più avanzate d’Europa, e la Russia, dove tutto il potere era nelle mani di pochissimi ed il divario socio-economico era tragicamente ampio. Senza l’aiuto e l’appoggio dei Principi Kuragin, Ivan, un mezzadro affrancato, non sarebbe mai riuscito a sposare Ann, la figlia di un Pari di Svezia, per quanto si fosse sforzato di migliorare la propria posizione.

 

Ogni romanzo ha un tema predominante: in Polaris è la crittografia, ne Il Prezzo della Sposa il gioco degli scacchi, nel prossimo cosa dobbiamo aspettarci? In base a cosa li decidete?

Allora, per quanto riguarda la Saga della Sposa, abbiamo cercato di evocare nel titolo di ogni volume quella che sarebbe stata una delle particolarità della storia: il prezzo di un singolo pezzo, negli scacchi, rappresenta il valore del suo sacrificio, mentre l’onore, in ambito ottocentesco, speravamo richiamasse al modo più classico in cui questo veniva smacchiato, ossia sul filo della lama.

E per il terzo…aspettatevi Tempesta.L'immagine può contenere: 1 persona, persona seduta e spazio al chiuso

A cosa dovete la scelta del genere epistolare? Quali sono i maestri a cui vi ispirate?

Amalia si era già lanciata nel genere con Mia cara Jane e sicuramente ha saputo dare ad Amaryllis un abbrivio sulle modalità, che certamente differiscono dal narrativo puro.

I personaggi erano tanti, ansiosi di esprimersi, e visto che volevamo che parlassero con le loro parole e pensassero i loro pensieri, la forma epistolare era l’unica che rendesse loro giustizia e al contempo che esprimesse un aspetto così fondamentale del mondo ottocentesco come la corrispondenza, con le sue latenze temporali e i suoi sottintesi sopra, sotto e fra le righe.

I maestri sono molti, e vari e non so se siamo degne di chiamarli maestri, nel senso che ogni autore, qualsiasi cosa scriva e a qualunque livello, ha per maestri tutti gli autori che ha amato. E noi ne amiamo tanti. Citiamo solo Jane Austen, quella di Lady Susan e delle Lettere, che da sola basterebbe a fare genere.

 

Per quanto mi riguarda, siete riuscite a creare dei personaggi cui è difficile non affezionarsi, con uno stile accattivante e assolutamente originale. Quali sono gli altri vostri punti di forza?

 

Lavoriamo molto bene insieme, il che rende lo scambio di idee e opinioni estremamente fluido e articolato. In parallelo al romanzo pubblicato ci sono centinaia di pagine di parti tagliate, conversazioni e commenti, piccoli brani, note, per cui i personaggi hanno tutti anche una parte sommersa che noi chiamiamo “a uso interno” che li esplora più a fondo e che rende più facile e credibile renderli “vivi” nelle parti che poi passano l’esame e vengono approvate.

Cerchiamo innanzitutto di essere realistiche e di non violare lo spirito dell’epoca esplorata, pur creando anche personaggi che si scontrano duramente con la rigida morale vittoriana. La credibilità e la coerenza psicologica dei personaggi sono aspetti ai quali attribuiamo moltissima importanza e però ne attribuiamo anche, opportunità questa offerta dalla forma epistolare, alle diverse visioni che hanno, del medesimo personaggio, tutti gli altri che gli sono intorno e non smettono di scrivere.

Uno dei personaggi “storici” che ha assunto particolare rilevanza nella saga è Aleksandr Porfirevich Borodin, noto principalmente oggi per le sue composizioni musicali (Principe Igor tra tutte) era ai suoi tempi stimato e conosciuto principalmente come professore di chimica all’università di San Pietroburgo – quella dove Lena, per quanto meritevole, faticherà non poco per essere ammessa – e per essere stato il principale, strenuo sostenitore del primo corso aperto alle donne in medicina (con specializzazione in ostetricia) di tutta la Russia. Anche il buon Tchaikovsky, che non ha bisogno di presentazioni, lo abbiamo chiamato in causa e, come Borodin, da personaggio marginale, ha guadagnato i suoi spazi nei volumi successivi al secondo.

Il vostro pregio è aver dimostrato che si possono allargare gli orizzonti e le latitudini, e parlare di amore e corteggiamento dell’Ottocento anche al di fuori dei salotti inglesi. Qual è il messaggio che intendete lanciare?

Indubbiamente il mondo vittoriano, dove l’aggettivo si deve intendere in senso lato, ha superato ampiamente i confini dell’Impero Britannico, il quale, pur mantenendo una posizione strategica, non era certamente l’unica realtà che si potesse incontrare nell’Europa di quel tempo. Ci siamo divertite, letteralmente, a viaggiare in varie epoche e immergerci in mentalità diverse, dalla corte dei Romanov alle vicende matrimoniali di Francesco Giuseppe fino ai monti del Tirolo e a sconfinare, nell’ultimo volume, in terre molto lontane.

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Avete poi uno speciale modo di raccordare i vostri romanzi -sulle vostre pagine autore nei social- con immagini, per lo più opere pittoriche, rappresentative: è secondo me un bellissimo percorso, attraverso le varie forme dell’arte, che potenzia la capacità espressiva della parola scritta.  Era questo l’intento?

 

Pensiamo che l’iconografia sia uno strumento essenziale per entrare nello spirito dei romanzi che scriviamo, perché permettono di entrare in un mondo diverso dal nostro e ormai molto lontano, per molti aspetti. Ciò non toglie che ci siano anche quadri temporalmente successivi che rispecchiano perfettamente scene o personaggi del romanzo.

Un grande aiuto ci viene anche dalle fotografie, specialmente per la parte finale de La Saga della Sposa.

 

Qualche anticipazione sul prossimo romanzo? La data di uscita?

Il secondo volume de La Saga della Sposa, intitolato L’onore della Sposa, è uscito a marzo 2019 e sta avendo un successo insperato: è bellissimo vedere la grande famiglia di A&A crescere ed espandersi.

Per il terzo, abbiamo in progetto di pubblicarlo entro la prossima estate e la saga si chiuderà col quarto volume entro l’anno

.L'Onore della Sposa (Saga della Sposa Vol. 2) di [Frontali, Amalia, Medlar, Amaryllis L.]

Un affascinante proseguo del 2019 ci aspetta, non solo per farci emozionare ma anche per imparare. Grazie e complimenti a voi per l’originalità, l’inventiva, le competenze e le capacità.

 

Romina

 

 

L’Onore della sposa

L'Onore della Sposa (Saga della Sposa Vol. 2) di [Frontali, Amalia, Medlar, Amaryllis L.]

Con il secondo volume della Saga della Sposa, Amalia & Amaryllis tornano a stupirci.

Pest, 1876.
Liselotte Nilsson raggiunge la cugina in Ungheria, ospite a casa di ricchi borghesi e, fuori dal suo ambiente, in palese difficoltà linguistica, cerca conforto nella scherma, passione coltivata fin dall’infanzia. Inaspettatamente, s’imbatte in un tenace e valido avversario…
Nel frattempo il mondo attorno all’idillio matrimoniale di Ann e Ivan continua a girare.
I personaggi noti evolvono e vengono osservati da occhi e prospettive differenti, mentre l’arazzo complessivo si amplia di nuove voci e nuove situazioni, in una sinfonia poliedrica e variegata, ricca di contrappunti, in cui l’Amore, nelle sua varie e diverse forme, non tutte positive, non tutte romantiche, ma tutte reali, è il vero protagonista.

Superbo esempio di arte epistolare dipanata in un complesso reticolato di amori, relazioni, legami burrascosi e teneri, tra vecchie e nuove conoscenze. Viene così tessuto un arazzo ricamato con fili pregiati e mani esperte, assolutamente da leggere perché il risultato è assolutamente magistrale.

Diverse e variegate, avvertono le autrici, sono le forme dell’Amore e difficile è a volte capire i contorti meccanismi che conducono al riconoscimento di questo complicato sentimento così come tenero è assistere al suo miracoloso timido sbocciare.

Il libro è diviso in due parti che finiranno per incontrarsi grazie anche a un’ampia partecipazione di personaggi che rendono composito e appassionante il quadro finale.

Con i più sinceri complimenti alle autrici, attendo il prossimo episodio.

Il Prezzo della Sposa (Saga della Sposa Vol. 1) di [Frontali, Amalia, Medlar, Amaryllis L.]

Il sentiero alpino. La storia della mia carriera. Lucy Maud Montgomery. Trad. Riccardo Mainetti. Flower-ed

 

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Questo libro, che rappresenta la prima traduzione italiana dell’autobiografia scritta da Lucy Maud Montgomery, deve il suo titolo ai versi di una poesia, Alla Genziana a frange, letta per caso in un giornale e conservata tra i libri di scuola, che recita:

 

Poi un sussurro fiorisce dal tuo sonno

Come posso scalare

Il sentiero alpino, così duro, così impervio,

Che conduce a vette sublimi;

come posso raggiungere il lontano traguardo

di una vera e onorata fama,

e scrivere sulla sua lucente pergamena,

un umile nome di donna.

 

La proposta dell’editore di scrivere la storia della sua carriera, a 42 anni e dopo aver pubblicato Anne of Green Gables, le diede la certezza di aver raggiunto una di quelle vette sublimi e di essere considerata quindi una scrittrice di successo.

Quella che sarebbe dovuta uscire in sei puntate, si dipana in realtà in una narrazione in dieci capitoli di cui i primi cinque dedicati all’infanzia trascorsa nell’Isola del Principe Edoardo, terra che è stata di nutrimento all’ispirazione della scrittrice, come lei stessa riconosce: “Non fosse stato per gli anni da me trascorsi a Cavendish, Anne of Green Gables non sarebbe mai stata scritta”.

Come capitato ad altre prima di lei, non sa individuare una data certa dell’inizio della sua scrittura perché scrivere è stato sempre lo scopo centrale verso cui convogliare tutti i suoi sforzi.

Per tutto il tempo in cui racconta della sua infanzia sembra di essere immersi nelle pagine del libro di Anne, magari in qualche capitolo poi accantonato, e di ritrovare la ragazzina dalla fervida immaginazione con l’abitudine di dare un nome a tutte le cose che la circondano.

Lucy Maud svela spontaneamente i retroscena che hanno suggerito alcuni degli episodi più esilaranti che vedono Anne come protagonista (come l’incidente della torta farcita), e soprattutto i riferimenti autobiografici tra l’autrice e la sua eroina sui quali spesso ci si interroga.  Così veniamo a sapere che come Anne anche la piccola Lucy entrò in classe con il cappello ancora indosso suscitando l’ilarità generale e sprofondando in un tremendo imbarazzo e che anche lei aveva paura di attraversare da sola, specialmente verso sera, il boschetto infestato.

Aveva un quadernino Lucy, in cui annotava idee per trame, avvenimenti e personaggi e proprio lì andò a scovare quella relativa a una “Coppia di anziani fa domanda a un orfanatrofio per un bambino. Per errore viene inviata loro una bambina”.

E nonostante The Story Girl venga dichiarato il suo preferito, Anne of Green Gables rappresentò in concreto la realizzazione del suo sogno. Respinto da più di un editore, e nascosto in una cappelliera, quando riuscì ad essere pubblicato, riscosse un tale successo di pubblico da meravigliare soprattutto l’autrice che non immaginava mai che il suo libro sarebbe potuto piacere a tutti, non solo alle ragazze adolescenti per le quali era stato pensato.

La gavetta fu abbastanza lunga ma sempre sostenuta da uno forte spirito di sacrificio e di concentrazione sull’obbiettivo finale: gli anni di insegnamento e l’impiego presso la redazione di una rivista, forgiarono e se possibile, rinsaldarono la sua determinazione, perché al lavoro e all’impegno indefesso era già stata abituata. Un animo sensibile e una mente estremamente ricettiva e una fantasia poetica hanno fatto il resto.

Dopo gli ultimi due capitoli ameni in cui la scrittrice cita se stessa riportando le lettere composte durante il suo viaggio di nozze nelle Isole Britanniche (come le chiama lei), Lucy Maud si congeda da noi, tornando al vero oggetto del suo racconto, e cioè la sua opera di scrittrice.

Il Sentiero alpino è stato scalato dopo anni di fatica e sforzo. Non è stata un’ascesa agevole, ma anche nella difficoltà del suo punto più duro c’è stato un piacere e un gusto noto solo a coloro i quali aspirano alle vette più alte.

Una traduzione ottimale garantisce la fluidità della lettura e impreziosisce un testo già ricco di interessanti informazioni riguardanti l’infanzia e i primi cimenti della grande e amata scrittrice canadese, se non altro per l’autorevolissima fonte da cui provengono.

Come un affettuoso testimone, queste pagine sono state scritte per infondere coraggio in quanti stanno faticando lungo lo stesso percorso, semmai dovesse capitare loro di cedere e demoralizzarsi, perché l’esempio di colei che si definisce come un’infaticabile piccola scribacchina possa costituire il giusto incentivo a proseguire verso il coronamento del loro sogno.