Archivio | novembre 2018

Jane Austen e Barbara Pym, ossia Jane e Barbara

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Quando ho letto per la prima volta un romanzo di Barbara Pym, ho subito pensato di ritrovarci l’influenza di Jane Austen sulla sua conterranea. D’altronde me l’avevano raccomandata diverse definizioni che la volevano proprio come “la moderna Jane Austen”, o che la paragonavano a lei per la capacità e la grazia sopraffine con cui ritrae il quotidiano e le relazioni umane.

Non accosterei i nomi delle due autrici per metterle a confronto -perché possono benissimo coesistere per registrare opinioni e pareri differenti, di maggiore e minore gradimento-, ma terrei presente che la Pym “proviene” e “discende” dalla Austen: perciò la collocherei sicuramente nel firmamento delle scrittrici inglesi per definizione.

Poi, a mano a mano che conoscevo i suoi romanzi, la sensazione iniziale ha trovato una conferma sicura nella citazione esplicita di opere e personaggi di Jane Austen, e l’ipotesi è diventata reale. Anche se cento anni dopo, Barbara racconta la vita di signorine nubili e signore vedove intorno ad una canonica, con ironia e trame imbastite spesso su poco o niente.

Le sue vicende affatto eclatanti, le tranquille atmosfere di ambienti medio-borghesi, i pettegolezzi serpeggianti tra vedove e nubili signorine, la presenza costante di curati appetibili, sembrano ricreare il piccolo mondo antico di Jane Austen e soprattutto obbedire al consiglio dato da lei alla nipote Anna: quello di scrivere di ciò che si conosce senza imbarcarsi in grandi imprese impossibili:

 

Ora stai radunando i tuoi Personaggi in modo delizioso, mettendoli esattamente in un posto che è la delizia della mia vita; – 3 o 4 Famiglie in un Villaggio di Campagna è la cosa migliore per lavorarci su – e spero che scriverai ancora moltissimo, e li sfrutterai pienamente ora che sono sistemati in modo così favorevole[1]

 

Leggendo i giudizi di alcuni lettori i commenti non sono sempre entusiastici perché Pym non gode della stessa lucentezza di Austen, ed anzi incorre in quello che è il possibile rischio insito in una scelta monotematica, risultando a volte ripetitiva, monotona. Ed è per questo motivo che sarebbe necessario conoscere il più possibile la sua produzione narrativa per comprendere appieno il suo stile e il peculiare genere.

Quando la si incontra in Crampton Hodnet, si ha proprio l’impressione di un romanzo ben orchestrato, denso di personaggi interessanti e divertenti, che funzionano perfettamente accordati tra loro, il tutto sulla chiave di un misterioso luogo –Crampton Hodnet appunto- che funge da valvola di sfogo e origina la commedia degli equivoci attorno alla quale è costruito il bluff della storia. I personaggi sembrano usciti dalla penna di zia Jane: l’insopportabile signorina Doggett, la sua dama di compagnia Jessie Morrow, che non conta niente, Francis Cleveland, nipote della signorina Doggett, stanco della vita matrimoniale, e sua figlia Anthea, che invece sogna l’amore romantico. L’arrivo in questo monotono e composito ménage del signor Latimer, il curato scapolo, Barbara Bird, studentessa attraente, e Simon Beddoes subito affascinato dalla bella Anthea, dà vita a simpatici quadretti d’interni…

Ma Pym non è sempre frizzante come in questo romanzo corale; lo è sicuramente meno, in Tutte le virtù e in Qualcuno da amare dove un po’ delude: racconti semplici, lineari, circolari e apparentemente banali, in cui la scrittrice, con il suo ristretto ambito parrocchiale tra zitelle e curati, è ripetitiva, risulta leggermente pedante come loro, ma tutto sommato anche rilassante.

Nei due racconti citati, la vita di paese scorre rassicurante e immobile finché a movimentarla non arrivano nuovi personaggi. Cassandra, una donna giovane e graziosa, sa di possedere tutte le virtù, perché la gente non fa che ripeterglielo. Adam, il marito, un vero gentiluomo benestante che scrive poesie e qualche romanzo, le è devoto ma è assai egocentrico e leggermente pedante. Ma ecco l’imprevisto. Uno straniero alto e affascinante viene ad occupare una casa vicino alla coppia. Per fargli piacere Cassandra organizza un party di benvenuto. Lo straniero si innamora di Cassandra a prima vista e questo produce situazioni imbarazzanti, insidiosi pensieri e qualche pettegolezzo ma poi, nella migliore tradizione della Pym, tutto finisce bene e la virtù trionfa.

Harriet Bede sa come prendersi cura dei curati della sua parrocchia per i quali è molto più che ospitale con calzini e sciarpe fatte a maglia e ottime cene. La sorella Blinda coltiva invece da trent’anni un amore impossibile per l’arcidiacono, che, sposato a una donna intrigante e ambiziosa, non disdegna talvolta di scaldarsi al tranquillo calore dell’affetto di lei. La vita in paese: un bibliotecario incline tanto ai libri quanto alle pinte di birra e un vescovo di un’esotica diocesi africana ansioso di accasarsi.

Il fatto è che spesso la corrispondenza si percepisce dalle atmosfere e dallo stile, da qualcosa di impalpabile che caratterizza i due tipi di scrittura, diversi eppure appartenenti alla stessa matrice originaria, forse allo stesso tipo di humour.

Le Donne eccellenti della Pym, devote e virtuose, non saranno quelle di Jane Austen -perché siamo più avanti con gli anni e il tipo di società di cui si parla-, ma la tagliente ironia è la stessa e a volte fa capolino e costringe ad un sorriso complice. Identico è anche il pudore -che adoro- con cui si parla d’amore: senza svenevolezze e languori. Si può essere eccellenti anche con una vita semplice; che poi la vita semplice non è mai…

Si tratta di una commedia romantica dal gusto dolce-amaro perché lascia intendere come il matrimonio non sia necessariamente il sogno e la meta di tutte le donne, o almeno non di Mildred che raggiunge lo stesso una realizzazione, ha una vita “piena”.

Siamo in un’epoca molto diversa da quella in cui scriveva e ambientava i suoi romanzi Jane Austen: nella Londra postbellica, all’inizio del femminismo e alla fine del colonialismo, in questo suo la Pym offre attraverso un umorismo derisorio e leggermente perfido una critica sociale che al tempo stesso illumina e intrattiene, prendendo di mira proprio gli stereotipi e i luoghi comuni.

Ma le lapidarie sentenze professate da miss Lathbury in fatto di nubilato sono sicura che avrebbero trovato d’accordo anche zia Jane: ‹‹Io non mi sono sposata, ecco forse un motivo di felicità, o di infelicità prontamente evitato››[2]. Modesta e autoironica, non si faceva illusioni sul proprio ruolo sociale: ‹‹Sono una donna che nei momenti delicati prepara sempre una tazza di tè››[3].

Con la lettura di Jane e Prudence tutte quelle che all’inizio appunto potevano sembrarmi impressioni soggettive, hanno ricevuto una prova oggettiva ed è stata la stessa Pym ad offrirmela. A questo punto le coincidenze non sono risultate solo nominative: la coprotagonista di questo romanzo infatti si chiama Prudence Bates, è nubile e viene spesso chiamata “Miss Bates” con il seguente commento esplicativo:

 

A Prudence non piaceva essere chiamata signorina Bates; se assomigliava a qualche personaggio letterario, questo non era certo la povera sciocca signorina Bates, ma come altrimenti avrebbero potuto chiamarla la signorina Trapnell e la signorina Clothier?[4].

 

L’amicizia tra le due donne risale a quando Jane era tornata per un paio di anni a Oxford a insegnare, e Prudence era sua allieva. Ma le due non potrebbero essere più diverse: Jane, quarantenne, è un’accademica dal viso struccato e dall’abbigliamento dimesso, non se la cava troppo bene neanche nelle sue funzioni di moglie di un ecclesiastico; Prudence è al contrario bella, neanche trentenne, schizzinosa, vestita in modo squisito, ha un appartamento così elegante. Ha pure l’abitudine di preferire relazioni insoddisfacenti: l’ultima infatuazione è per il suo orribile capo, che neanche si accorge della sua presenza.

Quando la sua amica Jane cerca di combinare per lei un matrimonio, è questa stessa ad autoparagonarsi alla nostra Emma:

 

Forse Fabian e Prudence avrebbero potuto vedersi a Londra. Incominciò a progettare pranzi e cene per loro. Davvero, mi sento quasi come Pandaro, si disse, solo che questo sarebbe stato un corteggiamento e un matrimonio secondo le convenzioni. Fabian era vedovo, e Prudence nubile; non c’era neppure l’imbarazzo di un divorzio. No, ripensandoci, Jane decise di essere molto più simile a Emma Woodhouse[5].

 

In questo caso la Pym doveva avere non solo presente l’omonimo romanzo di Jane Austen, ma addirittura lo aveva ben aperto davanti agli occhi per attingervi a piene mani e così dichiaratamente.

Sempre ad Emma, o meglio alla sua propensione a combinare matrimoni, si ispira Dulcie la protagonista di Amori non molto corrisposti, che, come si può evincere facilmente dal titolo, non riscuoterà molto successo né per la sua amica Viola, né per sua nipote Laurel, sue coinquiline, entrambe invischiate con Aylwin, un uomo sposato che si sta separando. L’imprevisto quanto improvviso cambio di sentimenti di quest’ultimo, inopinatamente verso Dulcie appunto, è accostato, come a per trarne legittimazione, al finale di Mansfield Park, ed è proprio curioso che sia l’uomo a farlo:

 

Quanto al palese cambiamento di sentimenti, si era ricordato del finale di Mansfield Park, quando Edmund si disamorava di Mary Crawford e cominciava ad amare Fanny. Per certo Dulcie conosceva bene il romanzo, e avrebbe capito. Che sorpresa sarebbe stata, soprattutto per la sua famiglia e per Dulcie stessa, che l’aveva così spesso esortato a fare un matrimonio “sensato”, se, una volta libero, avesse proprio fatto un matrimonio del genere! Eppure era fedele al personaggio dopotutto[6].

 

Il resto delle affinità lo stabilisce l’impressione tutta soggettiva e personale di trovarsi a che fare con due scrittrici veramente divertenti e ironiche, di quelle che ti strappano un sorriso anche senza volerlo e senza alcuno studio per risultare simpatiche, men che meno per produrre battute. Unica accortezza: prestare attenzione anche al più piccolo particolare e non tralasciare alcuna parola o dialogo, perché proprio lì può nascondersi una trovata o un’arguzia esilarante. Il che capita leggendo sia l’una sia l’altra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Jane Austen, Lettere, trad. Giuseppe Ierolli, edizioni ilmiolibro.it, Roma, 2011, L. 107 di venerdì 9-domenica 18 settembre 1814, p. 404.

[2] Barbara Pym, Donne eccellenti, trad. Bruna Mora, Milano, edizioni Astoria, 2012, p. 119

[3] Barbara Pym, Donne eccellenti, cit., p. 213

[4] Barbara Pym, Jane e Prudence, trad. Lidia Zazo, Milano, edizioni Astoria, 2015, p. 33.

[5] Barbara Pym, Jane e Prudence, cit., p. 95.

[6] Barbara Pym, Amori non molto corrisposti, trad. Bruna Mora, Milano, edizioni Astoria, 2014, p. 253.

 

Buon compleanno Louisa

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Il 29 novembre,  “il mese più triste dell’anno”, come , l’ebbe a definire la stessa Louisa, ricorreva il suo compleanno (e quello di suo padre).

Ormai sappiamo che Louisa non era l’autrice tanto buona e cara che per decenni è stata considerata per aver scritto romanzi per ragazzi infarciti di insegnamenti morali ed edificanti sentimenti.

O meglio, non è solo quello, perché Louisa aveva ben sperimentato nella sua vita, da ragazzina specialmente, che solo di filosofia e pedagogia non si poteva campare e in lei finirono per convivere l’ardore per gli ideali del padre e lo spiccato senso pratico della madre. Ecco perché Louisa era capace di comporre una storia strappalacrime natalizia con la stessa credibilità di un racconto di terrore: tutto purché potesse scrivere ma anche guadagnare. Le due cose in lei procedono di pari passo.

La stessa persona era capace di scrivere:

Uno degli aspetti più dolci del dolore e della sofferenza è che ci mostrano quanto siamo amati, quanta bontà c’è a questo mondo, e quanto poco basta per rendere ugualmente felici gli altri quando hanno bisogno di aiuto e di comprensione (Jack e Jill)

e dichiararsi tentata, mentre stava terminando I ragazzi di Jo, di concludere il racconto

con un terremoto che ingoi Plumfield e tutto il vicinato nelle profondità delle viscere della terra cosicché nessun giovane Schliemann riesca più a trovarne nemmeno le tracce.

Quindi non mercenaria o arida calcolatrice, quanto scrittrice pragmatica, incarnazione dello spirito americano, sensibile al momento giusto e straordinariamente moderna per aver saputo cogliere in anticipo temi come l’infelicità domestica e la ribellione femminile.

Louisa May Alcott è una  scrittrice realista per eccellenza, che racconta storie vere, non favole, e insegna a vivere senza rinunciare ai sogni impartendo da 150 anni -tale è l’anniversario che ricorre quest’anno dalla pubblicazione del sempreverde Piccole Donne avvenuta nel lontano 1868- la sua straordinaria lezione di umanità:

Io non ho paura delle tempeste perché sto imparando come governare la mia barca.

Maria Messina, una scrittrice italiana troppo a lungo dimenticata

Intervista a Salvatore Asaro, curatore del progetto di rilancio della scrittrice Maria Messina per le Edizioni Croce.

Salvatore Asaro è laureato in Lettere alla Sapienza Università di Roma.Successivamente ha perfezionato i suoi studi a Londra, approfondendo l’opera forsteriana. Di recente i suoi interessi si sono mossi verso i cultural studies e gli studi di genere, dedicando una particolare attenzione alle autrici italiane e in lingua inglese dell’Otto-Novecento, in particolare Elizabeth Gaskell, Charlotte Brontë e Goliarda Sapienza.

Come hai incontrato Maria Messina?

Il mio incontro con la scrittrice palermitana è piuttosto bizzarro. Cinque anni fa la redattrice di una casa editrice mi chiese di fare una ricerca su alcuni racconti – italiani e stranieri – che avevano per tema la migrazione, in prospettiva di una raccolta. Mi misi a fare una ricerca capillare, cominciai a spulciare i cataloghi delle biblioteche e portai alla luce fragilissimi libercoli che consultai con interesse e attenzione. Una mattina, per caso, mi imbattei in una recensione che rimandava a un’altra recensione che rimandava a sua volta a uno scritto di Leonardo Sciascia. Un gioco di scatole cinesi abbastanza aggrovigliato e polveroso che mi ha condotto fino a Maria Messina e alla sua singolare novella “La Mèrica”. Una scrittrice che non avevo mai sentito nominare ma che mi attrasse con forza magnetica che non potrei spiegare in alcun modo senza svilirne la misteriosa intensità. Di lì a breve scoprii che negli anni ’80 lo scrittore di Racalmuto era venuto a conoscenza della produzione narrativa di Maria Messina nel medesimo modo – solo che gli anni del ripescaggio messiniano ebbero vita effimera: morto Sciascia i libri della scrittrice palermitana caddero in un secondo oblio. La coincidenza – due uomini, tutti e due siciliani, che scoprono “la Mèrica” – mi ha suggestionato al punto da continuare la mia ricerca sulla scrittrice e quindi di non fermarmi a una semplice raccolta collettanea (per inciso, la redattrice non volle più inserire “La Mèrica” nell’antologia). La cercai all’interno delle università italiane, ma non trovai informazioni sufficienti, non quelle che cercavo almeno – le risposte delle docenti sono sempre state molto vaghe. Quindi ho recuperato i pochi libri riediti in Italia grazie al genio di Leonardo Sciascia, ho approfondito la conoscenza della scrittrice grazie alla lungimiranza di Giovanni Garra Agosta che, sempre negli anni ’80, aveva recuperato e pubblicato le lettere della scrittrice a Giovanni Verga in cui è possibile scoprire aspetti inediti e interessantissimi sulla donna.

Puoi raccontarci qualcosa di lei che ce la faccia conoscere meglio e imparare ad amare?

Inspiegabilmente dimenticata, Maria Messina è probabilmente una delle scrittrici del primo ’900 italiano più interessanti; ha una produzione letteraria sconfinata oltre che variegata: ha pubblicato una quantità vastissima di novelle, diversi romanzi e tante raccolte di racconti per bambini, riscuotendo un tale successo di critica e di pubblico, da costringere la nipote – Annie Messina – ad adottare un nome decisamente più esotico (Gamîla Ghâli) quando, più tardi, decise di intraprendere la stessa carriera della zia. Maria Messina esordisce nel 1909, con la raccolta Pettini-fini, dedicata al fratello Salvatore che l’aveva esortata allo studio delle lettere (A te, mio buon fratello – che mi sei stato affettuoso e generoso maestro – offro con gratitudine queste pagine che ti appartengono). Il fratello intuisce prima di chiunque altro il valore delle novelle della sorella e si impegna attivamente affinché possano essere lette e recensite in tutta Italia. Ne invia una copia a Giovanni Verga, che ne aveva ispirato lo stile e i contenuti. Lo scrittore etneo, sempre restio nei confronti degli esordienti, comprende immediatamente la potenza di quella raccolta e avvia un fittissimo scambio epistolare con la sua giovane “allieva”, la sprona a più riprese a continuare con l’arte della scrittura e la segnala ai suoi amici editori, affinché possano esaminare il materiale, e alle più prestigiose riviste letterarie dell’epoca, in particolare a «Nuova Antologia». L’invito di Verga è talmente sincero e partecipativo che Maria Messina decide di dedicare proprio a lui la sua seconda raccolta di novelle, Piccoli gorghi. È lei stessa a parlare dell’accoglienza che i critici dell’epoca le avevano riservato e dello stile che aveva deciso di adottare, sul numero di dicembre del 1919 de «Italia che scrive»:

«Pettini-fini e Piccoli gorghi sono gli inseparabili compagni del mio primo passo; mi fa piacere ricordare, dopo tanti anni, queste novelle rapide e secche, pensate laggiù a Mistretta. Pagine concise e senza aggettivi: come la parola di chi vive profondamente una sua vita interiore, come la mia prima giovinezza che si temprava in solitudine. La critica accolse Pettini-fini e, poi, Piccoli gorghi con espressioni così lusinghiere da far girare la testa ad una esordiente. La buona accoglienza non fu, per me, se non motivo di sgomento: la mia anima solitaria tremò e si chiese più volte: saprò io mantenere le mie promesse?».

Maria Messina ha scritto, a mio avviso, alcune delle pagine più belle della nostra letteratura; i suoi personaggi, in particolar modo le figure femminili, hanno una forza paragonabile forse solo a quelli della letteratura vittoriana o del grande romanzo russo. La costruzione dei personaggi di Marcello e Simonetta de Alla deriva non ha eguali nella narrativa italiana moderna, nemmeno se prendiamo in esame testi e autori a noi più vicini; la potenza di Orsola de Primavera senza sole si può ritrovare soltanto in personaggi come Molly Gibson di Elizabeth Gaskell o Nasten’ka di Fëdor Dostoevskij, così come la modernità di Paola Mazzei de Le pause della vita, un personaggio attuale e descritto con una crudezza quasi spietata. L’autrice ha una capacità narrativa formidabile, elemento che la rende immediatamente riconoscibile; possiede uno stile asciutto, tagliente, un fraseggio quasi tolstojano, con periodi rapidi e ad effetto; riesce inoltre a condensare particolari fondamentali in porzioni circoscritte di testo, celando nel non-detto i punti nevralgici delle sue storie. Leggere Maria Messina significa immergersi totalmente nelle sue storie, alcune brevissime – alla maniera di Čechov – e imparare a dialogare con i suoi personaggi, in particolare con le molte donne che popolano le sue storie. È stata definita un’“attardata”, nel senso di epigona, perché aveva deciso di aderire alla corrente del Verismo, quando questo, effettivamente, era agli sgoccioli; lo stesso Borgese, nel 1928, l’aveva definita una «scolara di Verga». In realtà è un punto su cui bisognerà ritornare, infatti non sono molto d’accordo sulla definizione che la vuole una verista tout court. Amare Maria Messina è naturale, come naturale è stata la scrittura per lei.

Si tratta di una scrittrice che è rimasta pressoché sconosciuta fino a oggi, mai entrata nei libri di scuola per intenderci…

Questa è una nota dolente. Quando ho iniziato a occuparmi più concretamente del suo recupero, ho portato all’attenzione delle studiose la grande assenza della scrittrice palermitana dai programmi universitari, dai convegni, dai laboratori che si occupano di autrici donne, ma non ho ottenuto i risultati che speravo. Ripubblicare Maria Messina non è stato semplice. Curiosamente la produzione della scrittrice è sempre stata promossa da uomini: prima dal fratello, da Giovanni Verga, da Alessio Di Giovanni e da G.A. Borgese, che hanno agevolato la diffusione dei libri in tutta Italia; poi negli anni ’80 è stato il turno di Leonardo Sciascia e di Garra Agosta e ora sono io a raccogliere il testimone… In questi ultimi anni, fra gli altri, Salvatore Ferlita, Luca Ricci – così come anche Simona Lo Iacono – hanno portato all’attenzione degli studiosi l’assenza quasi paradossale di Maria Messina dal panorama culturale, pubblicando articoli sui maggiori quotidiani nazionali. In questi mesi mi sono occupato in maniera specifica di Primavera senza sole; a tal proposito ho consultato diversi manuali di letteratura, scoprendo che nella quasi totalità, anche in quelli redatti da studiose donne, anzi soprattutto nei loro, l’autrice non è neppure mai menzionata. A uno stupore iniziale è subentrato, lentamente, un sentimento di rabbia. Mi sono chiesto il perché. Eppure nel 1935 Alfredo Galletti – un altro uomo – scriveva nel suo manuale di letteratura italiana: «La produzione romanzesca femminile poi è oggi in Italia di una esuberanza incredibile e veramente strabocchevole […]. Lettori e critici tuttavia sembrano accordarsi nel lodare nella folla dei romanzi muliebri certi lavori di Maria Messina». E pensare che a quell’altezza cronologica la scrittrice si era allontanata dalla scena pubblica già da diverso tempo a causa di una tremenda malattia. Fortunatamente nella difficile operazione di recupero, mi sono potuto avvalere della collaborazione di diverse intellettuali e studiose: innanzitutto Elena Stancanelli, un’acuta scrittrice e giornalista, che ha contribuito alla prefazione de Alla deriva; ma poi c’è stata Barbara Dotti, scrittrice e traduttrice, che mi ha affiancato durante il mio complesso lavoro di ricerca di archivio; Flavia Rossi, che ha introdotto e curato con rigore scientifico Le pause della vita, cogliendo l’aspetto migliore non solo del singolo titolo ma dell’intera produzione messiniana, anche sotto un profilo strettamente biografico; Mara Barbuni che ha letto e accolto con vivo entusiasmo una novella della Messina, decidendo di inserirla all’interno di un’antologia da lei curata e Cristina Pausini, docente di Lingua e letteratura italiana a Tufts (Boston).

A lei è stato intitolato un premio letterario?

Sì, da diversi anni è stato dedicato un premio letterario a Maria Messina, a Mistretta, cittadina che ospitò la scrittrice negli anni dell’adolescenza. Di recente, su mio consiglio, due miei amici hanno dato vita a una pagina Facebook, “Leggere Maria Messina”, con lo scopo di sensibilizzare i lettori che oggi dedicano sempre più tempo ai social.

Sei stato chiamato a curare il progetto di rilancio di Maria Messina per le Edizioni Croce, con quali obiettivi?

Mi ci sono voluti anni prima di riuscire a riportare in libreria Maria Messina e, nonostante il rischio dell’operazione, la casa editrice Croce ha deciso comunque di impegnarsi nel progetto. Il mio obiettivo è essenzialmente quello di far riscoprire al pubblico questa scrittrice straordinaria. E anche sensibilizzare il mondo accademico affinché faccia rientrare la scrittrice nei programmi universitari e quindi renderla oggetto di studio e di dibattito.

Quali opere avete deciso di riportare alla luce e perché?

Il progetto è vasto. Ci sono diversi titoli in cantiere. È già uscito Alla deriva con la bella prefazione di Elena Stancanelli, la quale, come ho detto, si sta impegnando affinché questa grande scrittrice possa riemergere. Tra qualche settimana uscirà Le pause della vita a cura di Flavia Rossi e tra un paio di mesi Primavera senza sole. Il calendario non si chiude qua, ma la casa editrice non dà mai anticipazioni che superano i tre mesi.

Quale opera di Maria Messina consiglieresti di leggere a chi volesse accostarsi a questa autrice per la prima volta?

Tutte, è banale?

Che cosa intendeva secondo te Sciascia quando la definì la Katherine Mansfield italiana? Fu una provocazione per attirare l’interesse della critica o è un paragone calzante? Se sì, su quali basi?

Maria Messina e Katherine Mansfield sono coetanee e condividono la stessa biografia disgraziata. Chi conosce la vita della Mansfield non può non accostarla a quella di Maria Messina. Entrambe le donne hanno attinto a piene mani dalla fontana della vita e hanno regalato al mondo pagine meravigliose, piene di dolore – perché la vita fa male. Dubito che Maria Messina abbia avuto modo di leggere i racconti della scrittrice neozelandese; credo che Sciascia si riferisse piuttosto allo stile narrativo adottato da entrambe le donne. Lo stile mansfieldiano non si discosta affatto da quello della scrittrice palermitana; l’indescrivibile poesia dei loro scritti è contraddistinta da un’aspra ironia. Un altro dato le accomuna e forse le ha indirettamente influenzate: la passione per la letteratura russa. Čechov condizionò e plasmò il modo di scrivere di entrambe, non solo per quanto riguarda la tecnica del racconto breve e brevissimo, ma anche per i temi trattati. L’intera produzione messiniana è infatti intrisa di letteratura russa, esattamente come quella della neozelandese. Il parallelismo sciasciano non è dunque azzardato. Ma al contrario degli inglesi con la Mansfield, gli italiani hanno riservato alla Messina un destino decisamente più crudele.

Alcune situazioni mi fanno pensare al primo Pirandello: è un po’ azzardato questo riferimento?

La letteratura siciliana che in quegli anni, bisogna specificarlo, era la letteratura nazionale, è tangenziale a se stessa. Come la Mansfield, anche Luigi Pirandello era coetaneo di Maria Messina e dunque le letture, i modelli cui ispirarsi erano gli stessi: la grande stagione del romanzo russo, l’ironia disarmante di Colette, lo sperimentalismo narrativo di Virginia Woolf e l’ombra immensa del padre della letteratura moderna: Giovanni Verga. Luigi Pirandello, specie all’interno delle novelle, «analizza la piccola e infima borghesia siciliana e, dentro l’angustia e lo spento grigiore di una tal classe, la soffocata e angosciante condizione della donna». In pratica quello che fa pure Maria Messina, ma lei lo fa da donna. Nelle sue storie i personaggi maschili non parlano, sono quasi sempre parlati. E trovo grandioso tutto ciò, non ci sono casi analoghi in Italia, non prima di lei almeno. La sua letteratura è inedita, e sono sicuro che se non fosse stata stroncata dalla malattia nel pieno della sua attività letteraria, avrebbe dato vita a qualcosa di grandioso in Italia, qualcosa non troppo diverso da quello che hanno fatto Virginia Woolf in Inghilterra o Gertrude Stein in America.

Credi in un’affinità metatemporale che ci fa eleggere certi scrittori a nostri autori preferiti?

La letteratura è uno strano luogo. Sicuramente c’è qualcosa di metatemporale che ci porta ad amare certi autori a noi lontani, nel tempo e nello spazio. La letteratura è universale e parla agli uomini di ieri, di oggi e di domani. Può sembrare una frase scontata, ma non lo è.

Le Edizioni Croce hanno in programma l’uscita di un altro romanzo di Maria Messina, Le pause della vita: potresti introdurcelo?

Le pause della vita è un romanzo “anomalo” all’interno della produzione messiniana. Come soltanto in poche altre occasioni, l’ambientazione non è la Sicilia ma la Toscana e soprattutto non si parla della vita degli umili e della condizione dei contadini; si tratta di una storia quasi borghese. Uscito per i tipi della Treves nel 1926, ruota attorno alla figura di Paola Mazzei. Abbandonata dal padre, la giovane spende le sue giornate a San Gersolè, un piccolo paese toscano, con lo zio e la madre. Ottenuto temporaneamente un impiego alle poste, Paola non riesce a intrecciare nessun rapporto con le altre donne dell’ufficio. Si rifugia nei libri e inizia a tradurne uno. Nel frangente, si avvicina sempre più a un vecchio compagno di scuola, uno squattrinato che da lì a breve è costretto a lasciare il paese. Il dolore della solitudine, che nemmeno la traduzione riesce a lenire, spinge Paola a prendere delle decisioni infelici che comprometteranno inevitabilmente il suo futuro. Il romanzo, curato da Flavia Rossi, vanta anche un’introduzione in cui vengono analizzati tutti i meccanismi che muovono la macchina narrativa di Maria Messina. Come ci dice la Rossi all’interno della sua introduzione «“Tutto avviene bruscamente nella vita: il male e il bene. Ma il bene giunge troppo tardi, quando non siamo pronti a riceverlo”. È questa la cupa morale attorno a cui ruota Le pause della vita».

Maria Messina non è famosissima ma di lei hanno detto che dopo averla letta non è possibile dimenticarla e anzi sorge spontaneo il desiderio di leggere ancora e altro su di lei.

Maria Messina non è famosa in Italia, ma nel resto del mondo è tradotta, venduta e anche studiata all’interno delle università. Da quando ho iniziato a occuparmi in maniera più organica della scrittrice, ricevo numerose mail di studiosi e studenti da tutto il mondo, perfino dall’Australia, in cui mi chiedono informazioni; la domanda più frequente è: «Perché in Italia nessuno conosce Maria Messina?». È un quesito che mi lascia interdetto e mi imbarazza non poco. Una volta letto qualcosa di suo, anche solo una brevissima novella, non si può più smettere. È proprio così. In Alla deriva si avverte l’ironia tagliente, come è stato notato altrove, di Chéri di Colette, in Un fiore che non fiorì si legge la modernità di alcuni scritti della Ortese (che deve averla sicuramente letta e perfino suggestionata), in Primavera senza sole l’amarezza disadorna della condizione femminile rimanda inevitabilmente ad alcune delle migliori pagine di Virginia Woolf. Maria Messina è unica, e forse è proprio per questo che è stata volutamente dimenticata.

Grazie per questa interessante e affascinante presentazione e per il tuo lavoro. Non si può non raccogliere l’appassionato invito ad approfondire la conoscenza di Maria Messina da cui spero i nostri lettori si lascino conquistare.

Juvenilia, Jane Austen, Edizioni Rogas

JUVENILIA. LA RACCOLTA COMPLETA di Jane Austen | rogas-edizioni

Una ventata d’aria fresca i componimenti giovanili di Jane Austen. Sketches, canovacci, piani di lavoro, esercizi, comunque denominati, sorprendono per la loro carica umoristica e per le potenzialità espresse da un’autrice che poteva avere dai 12 ai 18 anni, esperta conoscitrice già a quell’età del panorama letterario della sua epoca.

Sono esercizi stilistici, primi esperimenti, anche favole a volte, che difficilmente avrebbe potuto scrivere solo per se stessa quanto per divertire la cerchia dei familiari ai quali sono rivolti non solo per le espresse dediche, ma anche per tutta quella serie di ammiccamenti e riferimenti a situazioni o caratteristiche oggetto di ilarità condivisa in famiglia e che ora lei mette in risalto nella loro ridicolaggine, estremizzandoli o enfatizzandoli cercando la complicità degli altri a cui sembra strizzare l’occhio. E a noi oggi con loro.

C’è tanto materiale, tanta sostanza, per una ragazzina di soli 12 anni, anche se sono stati rimaneggiati e rivisti stilisticamente più tardi; si sperimentano i nomi di quelli che diventeranno poi i grandi protagonisti dei romanzi scritti da grande, ci sono i topoi della letteratura sentimentale sonoramente beffeggiati e dissacrati con quegli svenimenti “a turno sul sofà” o i pianti a dirotto “attaccati alla bottiglia”.

Questa ragazzina quindi riusciva a stigmatizzare con occhio critico debolezze e difetti altrui e a volgerli in divertimento e contemporaneamente imbastiva le trame di quelli che sarebbero stati o sarebbero potuti essere i suoi capolavori.

Come ho scritto altrove (cf. il mio saggio Jane Austen.Donna e scrittrice, Flower-ed), l’autobiograficità secondo me non consiste nel preciso riferimento a circostanze reali della sua vita, quanto a quel senso di complicità familiare che si presuppone e si sprigiona dal loro tono confidenziale. Una complicità basata su opinioni condivise, discorsi pregressi scambiati, avvenimenti o notizie commentate insieme e poi rielaborate e trasposte sulla carta per la loro incontenibile forza umoristica.

La sua del resto era una cerchia familiare intellettualmente vivace, che evidentemente era in grado di capire al volo quale romanzo di recente lettura (collettiva, ad alta voce) veniva riproposto o chi fosse la conoscenza comune che aveva prestato il suo colorito acceso alla sfortunata e avvinazzata Alice!

Il volume delle Edizioni Rogas è arricchito da uno scritto di Virginia Woolf, che per prima ha evidenziato come si possa conoscere uno scrittore proprio dalle sue opere secondarie che hanno il pregio di mostrare, se non il risultato compiuto, il metodo di lavoro che c’è nel durante, la composizione e il getto dell’ispirazione. A noi questi Juvenilia lasciano l’amara considerazione di quanto abbiamo perso.

Sempre affascinante è la disinvolta competenza con cui Beatrice Battaglia parla di Jane Austen e ci introduce alla giusta considerazione dei lavori giovanili di una scrittrice più umorista che moralista, come ha voluto far credere la critica che ha adottato l’interpretazione vittoriana di una Jane Austen tutta casa e chiesa.

La raccolta Juvenilia comprende ventisette componimenti, divisi in tre volumi, e mostra come la sperimentazione sia ovunque  (e consapevole): nei temi, nel genere (anche se la forma epistolare è quella che prevale) e nello stile; anche la sintassi è infarcita di figure retoriche ridondanti. Le allitterazioni, le iperboli, i casuali nonsense, il sarcasmo sottinteso, a volte anche l’eccessiva ovvietà di una banalità ne fanno una spassosissima fucina di ironia e ingegnoso diletto.

La voce del vento. Amanda Foley

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Inghilterra 1882. La giovane Kitty Reed, sopravvissuta a un naufragio, trascorre le giornate nella dimora estiva di famiglia che condivide con l’eccentrica zia Lavinia. Animata da mille progetti, una sera a un ballo incontra Richard, duca di Lansbury, un uomo più vecchio di lei, ma molto affascinante che le fa ritrovare la voglia di amare. Ma la felicità ha il suo prezzo, soprattutto quando si custodisce un segreto che inevitabilmente emerge, in un gioco crudele. Affrontare il passato una volta per tutte, le servirà a comprendere che nella vita è possibile realizzare sogni e ideali solo se ci guardiamo dentro e comprendiamo chi vogliamo essere.

Questa volta Amanda Foley si racconta un’intensa storia d’amore ambientata nel tardo Ottocento. Senza lasciare nulla al caso, la storia romantica principale che pure costituisce l’ossatura del racconto, si arricchisce  di temi sociali trattati.: la disuguaglianza tra i ceti, l’istruzione, lo status di inferiorità della donna, il matrimonio come mezzo di sopravvivenza. Se Kitty è una ragazza affatto frivola ma anzi sensibile alle ingiustizie che subiscono i più deboli, è anche una donna bisognosa d’ amore e passione. Insidiata dal villain della situazione in una serie di colpi di scena, saprà difendere la propria virtù grazie agli insegnamenti preziosi di zia Lavinia?

Se sì, e come, è tutto da scoprire in una lettura avvincente e piacevole.

Per un’autrice che non conosce la banalità, è un’altra prova di scrittura emozionante e originale che brilla tanto sui personaggi principali quanto su quelli secondari.

Lo consiglio!

 

Fantasmi a Northanger Abbey

Fantasmi a Northanger Abbey di [Romagnoli (curatrice), Antonia]

Cosa c’è di meglio, in vista delle imminenti festività, che sedersi accanto al fuoco ad ascoltare storie? Uno per ogni sera, i dodici racconti qui raccolti, scandiranno il periodo natalizio rendendolo ancora più emozionante e avvincente.

Il gruppo Regency & Victorian vi invita di nuovo a vivere un magico Natale in pieno clima austeniano, rendendo omaggio alla grande Autrice attraverso i suoi immortali personaggi.
Antologia curata e coordinata da Antonia Romagnoli.
Racconti di: Gladys Dei Melograni, Antonia Depalma, Patrizia Ferrando, Amalia Frontali, Elena Grespan, Cassandra Lloyd, Emanuela Locori, Arnaldo Lovecchio, Lisa Molaro, Pietro D’Onghia, Francesca Prandina, Antonia Romagnoli, Danila Sciacca, Federica Soprani, Susy Tomasiello, Matteo Zanini.

Gloucestershire, 1813

Le feste natalizie trascorse in un’antica dimora, cupa, misteriosa, piena di ombre. Quale occasione migliore per sedersi attorno al fuoco e raccontare storie di fantasmi?
È quello che accade a Northanger Abbey, ora appartenente a Mr. E Mrs. Tilney, quando per mettere a tacere un ospite un poco spaventato da veri fantasmi, i due coniugi sfidano i loro amici a narrare ciascuno un racconto di spettri.
Le dodici notti di Natale diventano così altrettante novelle, declinate secondo l’indole e le esperienze dei personaggi narranti, mentre nell’abbazia inquietanti apparizioni muovono i loro passi all’insaputa di tutti. O quasi…

Una Lady nella campagna inglese

L'immagine può contenere: fiore e pianta

Edith Holden (1871-1920) fu insegnante, illustratrice e naturalista inglese, delicata autrice dei due libri “The Country Diary of an Edwardian Lady” e “The Nature Notes of an Edwardian Lady”, entrambi pubblicati postumi. In questa narrazione, Sara Staffolani, studiosa che avete già avuto modo di apprezzare grazie alla biografia di Jean Webster e a quella di Emily Brontë (entrambe in promozione!), ci guiderà attraverso gli avvenimenti della sua vita, interamente dedicata alla scoperta continua della natura, alla difesa degli animali e all’insegnamento del disegno; ci porterà fra i luoghi e le leggende dell’Inghilterra e dell’amata Scozia; ci lascerà immergere nell’incanto della campagna, tra api e ramoscelli di caprifoglio, sentieri e cespugli di mirtilli…


Sara Staffolani, “Una Lady nella campagna inglese. Vita e opere di Edith Holden”, coll. Windy Moors, vol. 20, flower-ed 2018 (ebook e cartaceo). In uscita venerdì 16 novembre.

Il Prezzo della Sposa di Amalia & Amaryllis

 

Il Prezzo della Sposa (Saga della Sposa Vol. 1) di [Frontali, Amalia, Medlar, Amaryllis L.]

Frutto di un singolare connubio letterario e definito dalle stesse autrici, un romanzo corale epistolare, Il Prezzo della Sposa è un complesso reticolato affascinante come il gioco degli scacchi.

Esso inaugura la Saga della Sposa: una serie di romanzi epistolari a narrazione corale che accompagnano i numerosi personaggi, nella loro evoluzione personale e familiare, per tutta la seconda metà del XIX secolo, fra i fasti dell’Impero Russo, la notte artica di Svezia, le danze sfrenate della Puzsta, passando per la perfida Albione, fino al selvaggio West.

E rimane il più esaltante, perché da esso si sviluppano i nuclei tematici principali e la portata dell’opera trova compiuta espressione.

Nel 1870 i destini di tre famiglie s’incrociano in una tenuta non lontana da San Pietroburgo. La giovanissima Ann di Salmis, nobile svedese e provetta scacchista, stringe un’amicizia indesiderabile con il calmucco Ivan Orchadev, figlio ventenne di una famiglia di mezzadri dei Principi Kuragin.
In una narrazione epistolare corale, che esplora la polifonia dei carteggi privati fra vari membri delle tre famiglie protagoniste e di altre disseminate per l’Europa, la storia di Ann e Ivan, una partita a scacchi dopo l’altra, si dipana negli anni, affrontando gli ostacoli delle differenze di censo e della disapprovazione familiare e sociale. Li incontriamo bambini e non possiamo non innamorarcene.
Originale l’ambientazione e il modulo narrativo che sposa il genere epistolare alla tradizione del gioco degli scacchi per corrispondenza. Ciascun personaggio svela se stesso e gli altri in un gioco di specchi rifrangenti la propria immagine o la propria interpretazione dei fatti. L’incastro di date e rapporti epistolari non è solo ben riuscito ma avvincente.

La lettura si è rivelata quindi una complessa ed elegante partita a scacchi, giocata in più mosse e da più giocatori. Prova di intelligenza e di forza silenziosa.