Archivio | febbraio 2014

Intervista a Miss Jane Austen

JAGentilissima Miss Jane Austen, si sa pochissimo della sua vita, delle sue abitudini e soprattutto delle sue opinioni ma proverò a rivolgerle alcune domande per cercare di scoprire chi è lei proprio attraverso le Sue parole.

Innanzitutto come potrebbe definirsi Jane Austen la scrittrice?

–          Credo di potermi vantare di essere, con tutta la possibile presunzione, la Donna più illetterata e disinformata che abbia mai osato diventare un’autrice (L. 132 a James Stainer Clarke, dell’11.12.1815).

Ma questa sua non è presunzione ma falsa modestia; pensa di non potersi reputare una donna istruita?

–          Nessuna può essere veramente considerata istruita se non va ben oltre quello che si vede di solito. Una donna deve avere una profonda conoscenza della musica, del canto, del disegno, della danza e delle lingue moderne, per meritare questa parola; e oltre a questo deve possedere un certo non so che nell’atteggiamento e nel modo di camminare, nel tono della voce, nel modo di rivolgersi agli altri e di esprimersi, altrimenti la parola non sarà meritata che a metà-

–          Dev’essere padrona di tutto questo e .. deve aggiungere qualcosa di più sostanziale, allargando la mente con vaste letture

–          Io non ho mai incontrato una donna del genere

(dialogo fra Miss Bingley, Mr Darcy e Elizabeth, cap. VIII di P&P)

è consapevole del successo che hanno ottenuto i suoi romanzi e che dura ormai da due secoli?

–          Sono letta e ammirata anche in Irlanda (L. 95 a Cassandra del 3.11.1813).

E non solo, lei è conosciuta dal Mar Baltico alle Indie occidentali; si ha notizia anche del suo sbarco negli USA: suo fratello Francis ricevette una lettera datata 6.1.1852 da parte di una famiglia di origine inglese emigrante, residente a Boston che assicura l’influenza del suo genio in tutta la repubblica americana. Ma qual è secondo Lei l’ingrediente segreto del suo stile?

–          Mi piace così tanto una bella risata… Stravaganze e sciocchezze, capricci e assurdità mi divertono, lo ammetto, e ne rido ogni volta che posso (Elizabeth Bennet, cap. XI,vol. I,  P&P)

I suoi nipoti si sono preoccupati di smentire qualsiasi riferimento a personaggi e fatti della vita reale, ma allora qual è stata la sua fonte di ispirazione?

–          L’immaginazione è tutto (L. 11 a Cassandra del 17-18 novembre 1798).

Ha qualcosa da recriminare?

–          Non avrei dovuto cominciare a scrivere se non dopo i sedici anni; vorrei aver letto di più e scritto di meno (da “Mia zia Jane Austen. Ricordi di Caroline Austen”. Trad. G. Ierolli, jausten.it)

Quale  dote è disposta a riconoscersi?

–          Sono un’ottima governante, cosa che non sono riluttante a fare, perché penso davvero che sia una mia peculiare eccellenza e per questo motivo: ho sempre molta cura di provvedere a quelle cose che soddisfano il mio appetito, cosa che considero il principale merito nel governo di una casa (L. n. 11 a Cassandra del 17-18 novembre 1798).

Non ha mai incontrato il suo principe azzurro, come  avrebbe dovuto essere?

–          Un giovanotto bello, simpatico, ineccepibile (come non ne abbondano nella vita reale) perdutamente innamorato (L. 108 ad Anna Austen del 28.9.1814).

Invece le sue relazioni non hanno avuto un seguito -perché ora mancava il sentimento ora il sostentamento – ma sono stati banditi  sempre, comunque, patimenti o recriminazioni

–          Ciò è sufficientemente razionale; c’è meno amore e più buonsenso in questo di quanto possa talvolta essere sembrato in precedenza, e io sono soddisfattissima. Tutto procederà nel migliore dei modi e si estinguerà in modo molto ragionevole (L. n. 11 a Cassandra del 17-18 novembre 1798).

Risponde a verità che ha rifiutato più d’uno spasimante? Voleva rendersi preziosa o era effettivamente confusa?

–          Vi assicuro di non essere una di quelle signorine (se esistono signorine del genere) da essere così audaci da affidare la propria felicità alla possibilità di una seconda proposta (Elizabeth Bennet, cap. XIX, vol. I, P&P)

Allora come considerate l’aver declinato la proposta?

–          Una decisione  saggia e desiderabile per entrambi… i giovanotti belli devono avere qualcosa per vivere, esattamente come quelli brutti (Elizabeth Bennet, cap. 3 (XXVI), Vol. II, P&P)

Si può ragionevolmente affermare che la vita casalinga più delle occasioni mondane, le fosse congeniale, è così?

–          Sedere senza far niente davanti a un bel fuoco in una stanza ben proporzionata è una sensazione voluttuosa (L. 25 a Cassandra, da Steventon, il 8-9 novembre 1800).

Ma io mi riferivo anche agli affetti domestici: quelli familiari hanno rappresentato sempre per lei una certezza

–          Sono poche le persone che amo davvero, e ancora meno quelle che stimo. Più conosco il mondo, più ne sono insoddisfatta; e ogni giorno mi conferma nelle mie certezze sull’incoerenza della natura umana, e su quanto si possa fare poco affidamento in ciò che appare merito e buonsenso (Elizabeth Bennet, cap. 1 (XXIV), vol. II, P&P)

I suoi rapporti con il mondo circostante, primo fra tutti il  vicinato, per quanto improntati alla correttezza e al  decoro, non hanno mai brillato per cordialità le sembra?

–          È un Mondo cattivo ognuno pensa per sé e non mi aspettavo di meglio da nessuno di noi (L. 149 a Caroline Austen del 23.1.1817).

Ma in generale può definirsi una persona poco incline ad allacciare amicizie?

–          È il mio crudele destino riuscire raramente a trattare la gente come merita (L. n. 15  a Cassandra del 24-26 dicembre 1798).

C’è stato qualche desiderio che non ha potuto soddisfare, per cui prova del rimpianto?

–          Qualche desiderio, qualche desiderio predominante è necessario per dare vivacità all’animo di ciascuno, e nel soddisfarlo permetti loro di crearsene qualche altro che probabilmente non sarà così innocente (L. n. 20 a Cassandra da Bath il 2 giugno 1799).

Verso il matrimonio le sue aspettative sono state deluse?

–          Non sono sensibile a nessuna delle attrattive al matrimonio che sentono le donne…non mi sono innamorata mai; non è una mia tendenza, non è nel mio carattere; e non credo che lo sarà mai. E, senza amore, sono certa sarei una sciocca a modificare una situazione come la mia (Emma, cap. 10, Ed. Newton & Compton,BEN, 1996 pg. 70).

La condizione di nubile non le ha pesato?

–          Una donna sola ma ricca è sempre rispettabile e può essere giudiziosa e gradevole come chiunque altro… La mia è una mente attiva, impegnata, con tantissime risorse indipendenti; e non vedo perché dovrei stare senza far nulla.. Le solite occupazioni delle percezioni, delle mani e della mente… E quanto a persone di cui interessarmi e affezionarmi, la cui mancanza è davvero il grande male, la grande ragione di inferiorità da evitare nella condizione di nubile, … ce ne sarà a sufficienza per ogni speranza e per ogni timore; e anche se il mio affetto per uno o l’altro di loro non potrà essere pari a quello di un genitore, questo corrisponde alle mie idee di benessere più di quel che è maggiormente caldo e cieco. I miei nipoti e le mie nipotine! (Emma, cap. 10, Ed. Newton & Compton,BEN, 1996 pg. 70-71).

E’ stato difficile rispetto ai suoi colleghi uomini affermarsi come scrittrice di romanzi (non a caso i suoi erano pubblicati in forma anonima, firmati “Da una Signora” e le trattative con l’editore erano condotte da suo fratello Henry)?

–          Rispetto a noi donne gli uomini hanno avuto ogni vantaggio nel raccontare la loro storia. Gli uomini hanno sempre goduto del privilegio dell’istruzione molto più di noi; la penna è sempre stata nelle loro mani.

Le sono tornati utili gli insegnamenti impartiti da suo padre in casa, a tutti i figli, maschi e femmine? Hanno fatto di lei una donna preparata e  aggiornata?

–          Presentarsi come persone aggiornate significa essere incapaci di considerare la vanità degli altri: cosa che una persona sensibile dovrebbe sempre evitare. Specialmente una donna, se ha la sfortuna di sapere qualcosa, dovrebbe sempre fare in modo di nasconderlo meglio che può (L’Abbazia di Northanger, cap. 14, Ed. Newton & Compton, BEN, 1994,  pg. 91).

Perché la sua penna si è rivolta verso il romanzo e non ad altri tipi di componimenti?

–          Sì romanzi: non adotterò infatti quell’abitudine ingenerosa e impolitica così comune tra gli scrittori di romanzi, di degradare con la loro sprezzante censura, quelle stesse opere il cui numero essi stessi stanno accrescendo, unendosi ai loro peggiori nemici nello stigmatizzare con i più roventi epiteti quelle opere e raramente permettendo che siano lette dalla loro stessa eroina che, se accidentalmente prenderà in mano un romanzo, sicuramente ne sfoglierà le insipide pagine con disgusto. …E mentre l’abilità del novecentesimo scrittore d’un compendio della Storia d’Inghilterra o di colui che raccoglie e pubblica in volume qualche dozzina di versi di Milton, Pope e Price, un articolo dello Spectator e un capitolo di Sterne viene elogiata da un migliaio di persone, sembra che sia universale desiderio denigrare le capacità e sottovalutare la fatica del romanziere, disdegnando opere che si raccomandano solo per intelligenza, spirito e buon gusto (L’Abbazia di Northanger, cap. 14, Ed. Newton & Compton, BEN, 1994,  pg. 39).

Nell’ambito del romanzo Lei comunque ha ritagliato un proprio spazio narrativo; non le è mai interessato seguire il genere sentimentale, avventuroso o horror in voga all’epoca?

–          Che altre penne si soffermino su colpe e miserie. Io abbandono appena posso questi argomenti così odiosi, impaziente di restituire a tutti, se non troppo colpevoli personalmente, una tollerabile serenità, e di finirla con il resto (Mansfield Park, cap. 17, Ed. Newton & Compton, 2003,  pg. 302).

Deve ammettere di aver guadagnato un bel gruzzoletto dalla vendita dei suoi tre romanzi pubblicati prima del 1817…

–          In effetti sembra che l’intera faccenda sia stata scandalosa dall’inizio alla fine (Catharine ovvero la pergola, Vol. III, Juvenilia, trad. G. Ierolli, pg. 222).

Dopo la sua morte c’è stata una netta contrapposizione tra chi la reputava una conservatrice moralista acquiescente e chi invece una ribelle dissacratrice dello status quo, lei cosa ne pensa?

–          Nemmeno la Morte riesce a mantenere l’amicizia nel mondo (L. 32 a Cassandra, da Steventon, il 21-22 gennaio 1801).

Per le edizioni citate:

Orgoglio e pregiudizio, trad. G. Ierolli ed. Jasit per il bicentenario, 2013;

Juvenilia, trad. G. Ierolli, ed. ilmiolibro, 2009;

Lettere, trad. G. Ierolli, ed. ilmiolibro, 2010;

Emma, cap. 10, Ed. Newton & Compton, BEN, 1996;

L’Abbazia di Northanger, cap. 14, Ed. Newton & Compton,BEN, 1994;

Mansfield Park, cap. 17, Ed. Newton & Compton, 2003.

A proposito di Davis

A proposito di Davis (tit. originale ”Inside Llewyn Davis”)

A proposito dell’ultimo film dei fratelli Coen…mi ha lasciato interdetta.

Coinvolta da un istinto materno di tenerezza verso questo ragazzotto che non sa decidersi tra la sua passione per la musica folk e la carriera in marina mercantile (seguendo le orme paterne), cullata da una colonna musicale tenera e suadente, sorpresa da un Justin Timberlake versione nerd con tanto di occhiale, forse ho dimenticato di seguire lucidamente il corso della storia.

Sicchè mi sono ritrovata alle ultime sequenze del film, quando il cerchio si chiude e il finale si ricongiunge al fotogramma  iniziale, senza capacitarmi del significato. O meglio, intuivo che un significato c’era ma io non riuscivo a coglierlo. Pur concependo il rifiuto di credere che Davis volesse unirsi al suo caro compagno di duetti Mike -che si è suicidato buttandosi giù dal George Washington Bridge (che nome è il George Washington Bridge? si domandano nel film suggerendo che un altro ponte dal nome più altisonante avrebbe reso ancora più tragico il gesto estremo di autolesionismo)-, mi domando ancora che cosa Joel ed Ethan Coen abbiano voluto comunicare narrando l’includente esperienza del cantante folk. Che volessero dimostrare proprio  l’assenza di significato nel film così come nell’esistenza umana?  Leopardi docet in fatto di nichilismo.

Che sia una di quelle opere poetiche, dalle atmosfere autunnali, che risentono di un progressivo inaridimento della ispirazione costretta a produzioni annuali oppure il delicato ritratto della parabola fallimentare di un’esistenza prototipo di una qualunque, combattuta tra la passione e il dovere, l’ideale e il reale: il risultato non cambia.  Il dilemma non è rassicurante perché costringe a scegliere comunque tra due versioni pessimistiche della vita. Meglio quindi chiudere gli occhi e ascoltare la colonna sonora,  davvero stupenda, di Llewyn Davis.

If I had wings like Noah’s dove
I’d fly the river to the one that I love
Fare three well, my honey fare three well

I had a man, who was long and tall
He moved his body like a cannon ball
Fare thee well, my honey, fare thee well

I remember one evening in the pouring rain
And in my heart there was an aching pain
Fare thee well, my honey, fare thee well

Muddy river runs muddy and wild
You can’t give a bloody for my unborn child
Fare thee well, my honey, fare thee well

Just as sure as the birds flying high above
Life ain’t worth living without the one you love
Fare thee well, my honey, fare thee well

Fare thee well, my honey, fare thee well

(Fare Three Well (Dink’s Song) performed by Marcus Mumford & Oscar Isaac for the movie ”Inside Llewyn Davis”)

 

L’amore è…

Certo

Ti sono vicina

Non puoi dimenticare

Anche per un istante

Che  ti voglio avere

Sempre

Nemmeno quando le parole

Sembrano allontanarci

Devi pensare

A lacune da sanare

Non c’è nulla in noi

Da dover cambiare

Tutto è come deve essere

Perché la perfezione risiede nell’amore

E noi ci amiamo.

Tu sai tutto di me

Prevedi i minimi moti

Della mia volubilità

e capisci le debolezze

Del mio cuore.

Ma perché non raccogli la mia anima

Nel cavo della mano

E la preservi dal vanire

Che in ogni modo la disperde?

7 febbraio 1812 nasceva Charles Dickens

La casa sfitta di Charles Dickens, edizioni Jo March

Non di un autore poco noto  si parla ed è un’opera minore quella pubblicata in terza battuta dalle Edizioni Jo March: “La casa sfitta” di Charles Dickens non è certo il suo romanzo più conosciuto ma forse quello più moderno. Scritto a quattro mani insieme a tre suoi stimati collaboratori (Elizabeth Gaskell, Wilkie Collins, Adelaide Anne Procter), La casa sfitta ha un taglio fortemente giornalistico nel modo in cui ciascuno dei quattro ha cercato di dare a suo modo e con gli strumenti della propria arte padroneggiata una declinazione del tema lanciato loro dall’editor Charles Dickens: comporre un racconto attorno al vero o presunto mistero della House to let per il numero natalizio della sua rivista “Household Words” del 1858.

Come Dickens commissiona ai suoi fidati colleghi un lavoro corale e concentrico (tre racconti e un poema), così la ricca ma non più giovane signora Sophonisba incarica il fedele servitore Trottle e  l’antico spasimante Jarber di svolgere le indagini atte a svelare il mistero che avvolge l’antistante casa rimasta da sempre  sfitta. Si collegano così, uniti dall’unico filo conduttore, Il matrimonio di Manchester, L’ingresso in società, Tre sere nella casa, Il rapporto di Trottle,  scritti rispettivamente, nell’ordine, dalla Gaskell, lo stesso Dickens, la Procter in forma di poema, e infine Wilkie Collins, tutti autori pubblicati dal giornale da lui diretto.

L’esperimento andrà talmente bene da essere ripetuto l’anno successivo, sempre in occasione dell’uscita di Natale, con un altro collage “The Haunted House” (La casa stregata) di storie di fantasmi.

Siamo lontani dalle ampie atmosfere  di Grandi Speranze, la cifra stilistica è quella dei racconti a puntate,  conditi con ingredienti tipici del codice giornalistico: suspense e mistero per catturare e tenere desta l’attenzione del pubblico lettore.  Il tema di fondo è  però sempre la storia commovente di un’infanzia negata, di adulti senza scrupoli e malvagi che con la denuncia comporta la riflessione.  E’ il lavoro in cui si coglie meglio la vena giornalistica di Dickens, le sue qualità di editore e caporedattore, capace di indirizzare e convogliare l’energia creativa degli scrittori in prodotti riusciti, risultati sinfonici. E questa intuizione esprime  risvolti inaspettatamente moderni fruibili sia da un pubblico giovane amante del giallo, sia di quello appassionato di letteratura al quale era sfuggito questo piccolo gioiello, nascosto dagli splendori delle opere più famose del grande scrittore. 

Wilkie Collins (1824 – 1889) è considerato il padre del romanzo poliziesco inventore della formula di intrattenimento programmatico per la classe media: “make’em laugh, make’em cry; make’em wait” (falli ridere, falli piangere, falli aspettare). Amico e collaboratore di Dickens, scrive per lui nella rivista Household Words per dieci anni e dopo aver pubblicato alcuni romanzi si dedica ai racconti del mistero che hanno trovato trasposizione cinematografica. “La pietra di luna” è uno di questi cui si aggiungono gli altri romanzi gialli La donna in bianco, La legge e la signora, La follia dei Monkton.

Elizabeth Gaskell (1810 – 1865), nota soprattutto per aver scritto la biografia della sua amica Charlotte Bronte (The life of Charlotte Bronte di prossima (ri)pubblicazione, in italiano dalla Casa Editrice Baldini & Castoldi) è stata di recente rivalutata per il quadro dettagliato e realistico che fornisce dei primordi della città industriale e della condizione femminile; moglie di un ministro di culto unitario, impegnata in attività umanistiche e filantropiche, conosce molto bene la vita grama di una classe lavoratrice povera e sfruttata fedelmente trasposta nei suoi romanzi, che invoca giustizia e umana comprensione. Mary Barton, North and South sono ambientati a Manchester, la città industriale del Nord dove la scrittrice vive e può osservare da vicino le terribili condizioni degli operai. In Ruth narra la storia di una donna caduta che riesce a riscattarsi con la penitenza e l’annullamento mentre il delicato affresco di Cranford, un  piccolo villaggio dove il tempo sembra essersi fermato,  apre lo sguardo su uno sparuto gruppetto di comari ridicole e tenere che si oppone in tutti i modi a qualsiasi cambiamento. Anche Wives and Daughters (Mogli e Figlie) riproduce la vita di provincia, fatta di pettegolezzi e distinzioni di classe, con i quali devono misurarsi due sorellastre frutto di un infelice secondo matrimonio.  

 

Adelaide Anne Procter (1825 – 1864) iniziò presto la sua carriera letteraria come poetessa vedendo i suoi versi pubblicati da Dickens sulla sua rivista Household Words con lo pseudonimo Mary Berwick. In seguito  fu impegnata attivamente in gruppi femministi e dopo la conversione al cattolicesimo, in attività filantropiche a favore dei poveri senzatetto e donne disoccupate. Morì di tubercolosi i a 38 an senza essere mai stata sposata. Proveniente da una famiglia con stretti legami letterari (lo stesso Dickens, Gaskell, Charles Lambe, Wordsworth, Thackeray), dopo una preparazione da autodidatta si iscrisse al Queen’s College in Harley Street nel 1850. Editore a sua volta di una rivista vittoriana di stampo espressamente femminista “Victoria Regia” e successivamente nel 1858 ha contribuito a fondare la English Women Journal e nel 1859 la Società per la promozione del lavoro delle donne. I primi due volumi di poesie furono intitolati Legends and Lyrics e il terzo Una coroncina di versi pubblicato a beneficio di un ospizio cattolico per donne e bambini. 

 

 

 

Tristezza

E’ in mattine come queste

che ti capita di domandarti

se pesi più la tua anima

d’una piccola porzione di cielo

se la brina sospesa sulle tue ciglia

Le vesta del pianto silvestre

Impedendone l’umano.

E’ in mattine come queste

Che ti capita di sentire la tua vita

Più arida e leggera di una foglia secca

E di soppesare la tua tristezza

Più evanescente ed eterea

Di un vapore acqueo.

Il vicario di Wakefield di O. Goldsmith

The Vicar of Wakefield (1910 film) - Alchetron, the free social ...

 

Il vicario di Wakefield di Goldsmith pecca di presunzione e di bontà nella stessa misura.

Se esistesse una pagella potrei dargli un 10 per i sermoni edificanti, la reattività di perdono, l’irriducibilità allo sconforto anche nella miseria più nera (quando tutto gli è stato tolto: la figlia, la casa, gli averi, la libertà), eppure alla voce “umanità” gli assegnerei  nemmeno la sufficienza.

Orbene mi spiego: egli è tanto perfetto quanto affettato, tanto giusto quanto onesto, da non sembrare reale e rimane talmente impresso nelle pagine del libro, da confondersi nella loro piattezza.

I suoi colleghi in carne e ossa che ogni giorno incontriamo sulla nostra strada hanno purtroppo qualche difettuccio in più ma risaltano in tutta la loro rotondità di personaggi reali tanto da  rendersi più simpatici e più vicini a noi. Non vanno esenti dalle antipatie comuni, favoriscono chi possono e sono pronti a rimangiarsi quanto hanno appena detto se il contrario torna a loro di maggior favore.

Don Abbondio è solo uno sbiadito esempio rispetto ai confratelli moderni di come, per non fare male, non si faccia niente e di come per consolare ci sia sempre tempo.

Ed è proprio questa somiglianza a renderceli più cari; vederli soggetti alle nostre stesse passioni, gelosie e parzialità che ce li fa considerare meno astratti e più in basso del pulpito domenicale, consapevoli del significato delle loro prediche correttive proprio perché ne sperimentano essi stessi le conseguenze.

Quando poi il loro Pastore li richiama al proprio dovere si disperdono come gli alunni alla ricreazione, sordi alla voce del maestro, gioiosi per non aver fatto i compiti.

C’è qualcheduno in realtà che smentisce un po’ la categoria, offusca lo splendore dei costumi con una  condotta morigerata, mostrando di perseguire solo il bene delle anime e dispensando anche sorrisi oltre a perle di saggezza.

Perciò accontentiamoci di preti più umani purché sinceri, piuttosto che di ritratti della perfezione e siamo più indulgenti con loro, così sensibili agli appetiti piuttosto che ai sentimenti abituandoci a scusarli.

La bisbetica domata di Shakespeare

ImmagineShakespeare ha rappresentato La Bisbetica Domata nel 1594; l’aveva scritta cinque anni prima basandosi su motivi popolari e un racconto dell’Ariosto, I suppositi, tradotto nel 1566.

Apparentemente offre un ritratto alternativo della donna: bisbetica, riottosa, pungente,  e quindi diversa dai canoni che la vorrebbero fragile, dolce, remissiva. Caterina è ribelle, indomita, non si sottomette né al padre né al marito; irosa, aggressiva, dispettosa, tutto il contrario della grazia e dell’arrendevolezza femminili, di quanto incarnava la stessa Laura dell’Ariosto.

Zeffirelli la porta al cinema nel 1967 e per il personaggio della protagonista vuole a tutti i costi Liz Taylor che incarna perfettamente la bella e intrattabile (affiancata da Richard Burton).

Nonostante l’introduzione bucolica ad una Padova universitaria, che riflette la visione dell’Italia nell’immaginario inglese, l’adattamento cinematografico è appesantito da un’accuratissima ricostruzione storica scenografica che toglie ritmo e mordente alle battute e ai dialoghi.

In sostanza la storia è quella di Battista che ha due figlie e non mariterà la seconda, Bianca, molto richiesta e corteggiata, se prima non troverà lo sposo adatto alla primogenita, Caterina, temuta sia in casa che fuori per le sue reazioni eccessive, i suoi scatti furiosi, il suo caratteraccio. I corteggiatori di Bianca, per aggirare la condizione posta da Battista,  introducono allora in casa sua, Petruccio, un signorotto di Verona, rozzo e volgare, in cerca di dote e per niente preoccupato dai difetti della ragazza che gli propongono in moglie.

Dopo un anomalo corteggiamento, Petruccio riesce a condurre all’altare Caterina e a carpirne il consenso tappandole la bocca con un bacio. Il vero colpo di scena però si avrà quando, dopo un inizio di vita coniugale molto burrascoso, alla sfida lanciata dal suo stesso marito durante il convito per le nozze della sorella Bianca, Caterina sorprenderà tutti dimostrandosi la moglie più obbediente. La commedia termina con un vero e proprio capovolgimento di fronte perché a lei è fatto pronunciare un discorso di celebrazione della sudditanza della moglie al marito:

“Tuo marito è il tuo signore, la tua vita, il tuo custode, il tuo capo, il tuo sovrano: è uno che di te si cura, e che per mantenerti sottopone il proprio corpo a dure fatiche per mare e per terra, affrontando di notte i cieli tempestosi, e le fredde giornate, mentre tu te ne stai calda calda in casa, al sicuro. E nulla ti chiede, se non il tributo del tuo amore del tuo bell’aspetto, della vera tua obbedienza: un prezzo invero scarso per tanto debito. … Perché mai i nostri corpi sarebbero morbidi, deboli, lisci, inadatti alla fatica e alle lotte di questo mondo, se non perché la fragile nostra condizione e i nostri cuori debbono essere in accordo con il nostro aspetto esteriore?”.

Era un po’ maschilista questo Shakespeare, oggi  parole come obbedienza, debito, sudditanza della donna all’uomo, suonano anacronistiche, hanno il sapore di quei manifesti d’epoca che elencavano i doveri di una moglie cristiana verso il marito. In realtà il Poeta non si è smentito nemmeno questa volta perché a leggere bene tra le righe non è l’obbedienza che esalta, ma l’amore e il rispetto.  Imprescindibile quello reciproco, il rispetto tra i coniugi  vale da edificante esempio ai figli e indirizzo positivo di riferimento per la propria identità personale e affettiva.

Il rischio è che a forza di invocare tanto la parità, ci si dimentichi di osservarla veramente.  Ben vengano quindi il rispetto per la donna e quello verso l’uomo, per la moglie tanto quanto per il marito, per la madre così come per il padre.