Terno secco è un racconto pubblicato nel volume All’erta, sentinella! Racconti napoletani del 1889, assieme ad altri due racconti (Trenta per cento, O Giovannino, o la morte). Matilde Serao offre una Napoli pullulante di sottoproletariato e piccola borghesia di fine Ottocento, un panorama geniale e dettagliato che attinge dalla vita di ogni giorno. Terno secco è un mirabile racconto della fatalistica rassegnazione della plebe e della piccola borghesia che affidano le loro superstiti speranze alla mistica del gioco del Lotto. Tema affrontato dall’autrice nel fortunato romanzo Il paese di Cuccagna (pubblicato a puntate sul Corriere di Napoli tra il 1889 ed il 1891).
Autrice:
Matilde Serao (1856-1927) è una delle più celebri intellettuali italiane, candidata sei volte al premio Nobel per la letteratura ed è stata definita da Heny James la Zola italiana proprio per l’impronta naturalista che imprime ai suoi racconti, spaccato della società medio-borghese e proletaria di Napoli.
Non a caso proprio da Zola e dal suo Ventre di Parigi deriverà il Ventre di Napoli, il titolo e l’ispirazione per il suo romanzo più famoso.
Recensione:
In questo racconto si sofferma sull’effetto contagioso e dirompente della scoperta di un trio di numeri scritti su un foglietto. A velocità sorprendente, in un chiassoso quartiere di Napoli, la scoperta di un terno si propaga con effetto contagioso insieme alla febbre del gioco. Tutti vogliono tentare la fortuna, tutti vogliono assaporare l’ebbrezza della speranza, di un sogno di ricchezza e felicità, dalla servetta alla padrona, dalla marchesa all’impiegato. Come se la seguisse con una cinepresa l’autrice inquadra la serva Tomassina mentre sparge la notizia e condivide i numeri trovati in un biglietto della sua signora, di scena in scena. Solo al termine della panoramica l’inquadratura si restringe al nudo e gelido appartamento abitato dalla insegnante francese e dalla sua prorompente figlia, in cui riconosciamo una Matilde adolescente, le uniche a non aver giocato e a non aver vinto.
Lo sguardo pietoso della narratrice si abbassa quindi dinanzi alla dignitosa e consapevole povertà della madre che incassa la beffa del destino e rassegnata si piega alla sua vita defraudata anche della speranza.
Una prosa spoglia, solida ed efficace. Senza orpelli e fronzoli, un’immediatezza espressiva che fa riflettere.
Così, le donne rimasero solissime, nel quartiere. In piedi, immobile, la ragazza pensava alla casa senza un soldo, senza una serva, alla casa donde avrebbero dovuto andar via, forse, fra poco. Confusamente pensava a tutto questo, mentre la madre aveva incrociato le mani candide sulle ginocchia e socchiudeva gli occhi, come se volesse dormire.
Polly Milton è una dolce e volenterosa ragazza di campagna, cresciuta in una famiglia umile ma colma d’amore. Quando giunge nell’elegante dimora di Fanny Shaw, dove è attesa per un soggiorno in città, i suoi vestiti consumati e la sua genuina semplicità destano qualche perplessità nell’amica, abituata allo sfarzo dell’alta società. Polly si trova immediatamente a dover affrontare un mondo diverso dal suo, fatto di spettacoli teatrali, pettegolezzi e abiti alla moda, ma con energia e altruismo, tra incomprensioni, storie d’amore e rovesci finanziari, mostrerà a tutti che la vera ricchezza risiede altrove. La prima parte di Una ragazza vecchio stampo fu pubblicata sulla rivista “Merry’s Museum” nel 1869. In vista della sua pubblicazione in forma di libro nel 1870, Alcott scrisse gli altri capitoli, offrendo ancora una volta ai lettori una protagonista autentica, operosa e indipendente.
La traduzione di Elizabeth Harrowell, integrale e annotata,
Introduzione di Romina Angelici intitolata “Forza d’animo e dolcezza” di cui vi lascio un estratto:
Non è un caso che per la nuova edizione di An Old-fashioned Girl, la casa editrice Flower-ed abbia scelto il titolo di Una ragazza vecchio stampo: esso appare oltremodo rispettoso delle intenzioni autoriali espresse dall’autrice nella prefazione al romanzo:
La Ragazza vecchio stampo non è intesa come modello della perfezione, piuttosto come una miglioria in confronto alla Ragazza di Oggi che appare tristemente ignorante o vergognosa di quei buoni modi antichi che rendono veramente belle e stimate le donne e tramite i quali la casa diventa ciò che dovrebbe essere, un luogo felice dove genitori e figli, fratelli e sorelle imparano ad amarsi, a conoscersi, ad aiutarsi a vicenda.
Inoltre, nel concetto di “ragazza vecchio stampo” Louisa intende racchiudere tutte quelle virtù che si ispirano ai saggi e buoni principi di una volta che solo con l’educazione, il rispetto e la gentilezza si possono mantenere e coltivare. Non solo quindi si contrappone alla ragazza moderna o meglio, alla moda, caratterizzata da frivolezza, ignoranza, superficialità, ma costituisce una tipologia che lungi dall’essere antiquata, è la chiave di volta per farsi strada nel futuro con determinazione e rigore.
Beatrix Potter, la persona che secondo me ha saputo interpretare al meglio il linguaggio e gli incanti della Natura e incarna l’ideale della Primavera.
Helen Beatrix Potter nasce a Londra il 28 luglio 1866, è stata un’illustratrice, scrittrice e naturalista britannica, ricordata soprattutto per i suoi libri illustrati per bambini.
Le sue opere celebrano la vita e la natura nella campagna inglese attraverso il racconto delle avventure di animali antropomorfizzati come il celebre Peter Coniglio (Il racconto di Peter Coniglio, The Tale of Peter Rabbit, 1902). Potter è una delle più lette e amate scrittrici di letteratura per l’infanzia; i suoi 24 racconti sono stati tradotti in 35 lingue e hanno venduto oltre 100 milioni di copie. Avete visto il film? E’ molto corrispondente!
Parentele famos!
La piccola Beatrix trascorre l’infanzia sia per la salute cagionevole, sia per le ansie dei genitori all’ultimo piano della casa di Bolton Garden.
Quella di Beatrix era una tipica famiglia vittoriana, nella quale i figli vivevano solo occasionalmente a stretto contatto con i genitori, mentre erano le governanti a occuparsi della loro educazione e istruzione. Beatrix trascorse un’infanzia piuttosto solitaria, era delicata e spesso malata; dedicava molta parte del suo tempo al disegno e alla pittura, incoraggiata dai genitori, dotati di talento artistico
Il padre era avvocato, la madre, figlia di mercanti ma anche imparentata con Lord Ashton che la collegherebbe fino all’attuale duchessa di Cambridge. Sì avete capito bene, proprio Kate Middleton che non a caso decise di utilizzare quale tema per la festa del primo compleanno del principino George proprio Peter Rabbit!
Con la nascita del fratellino Bertram, Beatrix fu ancora più felice di raccogliere animali e disegnare di tutto. I due fratelli trascorsero l’infanzia lontano dagli altri bambini della loro età e strinsero amicizia con pochi coetanei. Fin da piccoli dimostrarono un particolare interesse per gli animali che vivevano con loro o che trovavano in natura (topi, conigli, pipistrelli, ricci, farfalle e altri insetti); li osservavano con grande attenzione, per poi disegnarli e studiarli.
Per curare l’educazione artistica della figlia, Rupert Potter assunse un’apposita insegnante, dalla quale Beatrix apprese il disegno a mano libera, la geometria, la prospettiva e la pittura di fiori ad acquerello. Beatrix disegnava di tutto: dal giardino della casa di Londra e i fabbricati agricoli di Camfield Place alle nature morte e alle illustrazioni dei libri che stava leggendo, mostrando però di prediligere fiori e animali, dipinti nei minimi dettagli.
Fondamentali furono anche le vacanze estive trascorse in Scozia.
Anche Beatrix ricevette molti rifiuti dagli editori che non volevano pubblicare i suoi disegni e le sue storie illustrate. Allora con tenacia che la contraddistinguerà per tutta la vita, decise di pubblicare da sola La storia di Poter Coniglio a proprie spese per 250 copie.
Poi l’incontro con gli editori Warne e in particolare con Norman fu la svolta. Non solo lui curò la pubblicazione delle sue storie ma tra loro nacque una vera e propria storia d’amore. Purtroppo finita tragicamente. Un mese dopo averle fatto la proposta di matrimonio, che i genitori non vedevano di buon occhio, ma lei aveva comunque deciso di accettare, Norman si ammalò e morì.
Per riprendersi dalla terribile perdita del fidanzato Beatrix si trasferì nel Lake District, che era diventata la nuova meta delle vacanze di famiglia, e acquista Hill Top Farm. Questo periodo corrisponde a una vera e propria rinascita per Beatrix che incontra nuovamente l’amore e si lega indissolubilmente al Lake District (come già altri personaggi e letterati famosi avevano fatto prima di lei) donando alla sua morte una quantità di terreni e fattorie alla Fondazione National Trust (15 fattorie per la precisione e più di 4000 acri di terreni). Qualcuno lo ha visitato? Credo sia incantevole!
Alcune curiosità su Beatrix Potter.
Sapeva disegnare talmente bene da presentare uno studio micologico che venne però presentato da un noto naturalista dei Giardini Botanici Reali di Kew Garden perché le donne non erano ammesse.
Era un’abilissima donna d’affari che sapeva ben trattare per i compensi e i diritti d’autore.
I suoi diari che vanno dal 1881 al 1897 erano criptati da un cd. Codice Potter decifrato da Leslie Linder che riuscì a risolvere il criterio attraverso un riferimento al re di Francia Luigi XVI!
Beatrix Potter disegnò manifesti anche a scopo politico contro le importazioni di merci a basso costo dalla Germania alle soglie dello scoppio della Grande Guerra.
Si risparmiò gli orrori della seconda guerra mondiale perché si spense il 22 dicembre 1943 per un brutto raffreddore.
Tutte le notizie sono tratte dalla biografia di Riccardo Mainetti edizioni Flower-ed.
Se Beatrix Potter immaginava una nidiata di conigli, Miss Charity alleva nella sua anticamera al terzo piano dove vive confinata la maggior parte della giornata, il suo Master Peter, ma anche topolini, un corvo, un’anatra. La sua istruzione è demandata a Miss Blanche che le trasmette la passione per l’acquerello che unita a una speciale sensibilità e un acuto spirito d’osservazione le permette di popolare la sua solitudine di storie intrecciate tra i suoi amici animali.
Spettatrice disincantata del mondo patinato e interessato in cui si muovono le frivole cugine si autoesclude intenzionalmente dalle loro strategie matrimoniali anche a rischio di essere etichettata come troppo originale. Da sempre è innamorata di un compagno di giochi d’infanzia, e non lo sa. Kenneth Asley fa l’attore per guadagnarsi da vivere e gode di pessima fama, ma senza alcun pregiudizio lei si accontenta di guardarlo da lontano dispensandogli saggi consigli ogniqualvolta le loro strade si incrociano casualmente o meno.
Quando scopre di poter monetizzare le sue storie illustrate per bambini con gli editori Marshall padre e figlio i suoi orizzonti si dischiudono, la cerchia di conoscenti si allarga, l’autostima cresce nella consapevolezza del proprio valore. Il rapporto con i genitori che l’avevano per tutta l’infanzia e l’adolescenza volutamente trascurata e ignorata si riequilibra: con il padre si impone con la propria importanza economica (tanto da poter offrire la somma necessaria per l’acquisto del cottage delle vacanze), quello con la petulante madre non conosce compromessi o sconti.
Maria Messina nasce a Palermo il 14 marzo 1887 da Gaetano, ispettore scolastico, e da Gaetana Valenza Trajana, esponente di una famiglia baronale, originaria di Prizzi. I continui trasferimenti del padre costringono la famiglia a spostarsi con frequenza, prima a Messina, quindi a Mistretta, poi in Toscana, in Umbria, nella Marche e a Napoli.
Iniziata alla scrittura dal fratello Salvatore, che ne aveva intuito il talento, ottiene la notorietà con la pubblicazione di Pettini-fini (1909) e Piccoli gorghi (1911), raccolte di impronta verista che le valgono la stima di Giovanni Verga, col quale intraprende una fitta corrispondenza.
Idillio verghiano
All’età di ventidue anni, iniziò una fitta corrispondenza con Giovanni Verga, che le riservò parole di apprezzamento e gentile incoraggiamento, e tra il 1909 e il 1921, pubblicò una serie di racconti. E’ soprattutto nelle Novelle che si sente l’impronta Verghiana anche se Maria Messina non mancò di sviluppare uno stile suo personale per distinguersi dal Maestro. La loro corrispondenza è stata raccolta nel volume Un idillio letterario inedito verghiano: lettere inedite di Maria Messina a Giovanni Verga, a cura di Giovanni Garra Agosta, introduzione di Concetta Greco Lanza, Catania, Greco, 1979.
Illustre Signor Verga,
InviandoLe il mio primo libro, speravo che Ella lo leggesse, ma non osavo aspettarmene un giudizio suo. Ho cominciato con tante titubanze, e così sola, che temevo che i miei poveri villani – già studiati con tanto amore – messi nel «libro» e mandati in giro sarebbero stati mal visti, forse appena guardati, e per niente capiti come io avevo voluto rappresentarli.
Gli anni ’20 sono quelli del successo letterario, ma anche quelli del peggioramento di una grave malattia che le toglie gradualmente la possibilità di scrivere. Tornata in Toscana, muore a Pistoia nel 1944, dimenticata da tutti.
Era fuggita da Pistoia nell’inverno 1943 durante i bombardamenti per trovare riparo presso una famiglia di contadini, stremata dalla sclerosi. Prima di morire dettò all’infermiera Vittoria Tagliaferri che la accudiva I doni della vita che racconta l’esperienza di sofferenza fisica e spirituale da lei vissuta in prima persona. La nipote Annie, figlia del fratello Salvatore, unico suo parente rimasto, racconta che alla sterile disperazione dei primi anni era subentrata in lei una rassegnazione cristiana con cui cercò di affrontare l’estrema prova che la vita le aveva riservato.
Il 24 aprile 2009, grazie all’interessamento del comune, le sue spoglie mortali sono ritornate a Mistretta, considerata come una sua seconda patria. Qui le è stato intitolato un premio letterario. Oggi le sue opere, tradotte e apprezzate all’estero, sono tornate argomento di studio e di dibattito.
“La vita è bella! Essere infelice, essere misera, essere l’ultima delle creature, ma vivere, ma potere ascoltare, poter vedere! È bello, vivere senza altro scopo che lo scopo di vivere, come le rose che si schiudono nelle albe estive, come le rondini che passano nel cielo del “baglio” e forse gridano di felicità…
Parola di Leonardo Sciascia
La riscoperta di Maria Messina, avvenuta negli anni Ottanta, a quarant’anni dalla morte, si deve a Leonardo Sciascia che al momento di curare un’antologia avente a tema la migrazione, Partono i bastimenti, volle inserirvi due racconti di Maria Messina (“Nonna Lidda” e “La Merica”) promuovendone poi la riedizione per Sellerio di alcune tra le migliori prove della scrittrice. Fu lui a definirla la “Katherine Mansfield siciliana“, grazie al malinconico realismo della sua prosa impegnata a decifrare i risvolti psicologici e sociali della marginalizzata condizione femminile nelle società rurali e in quelle della piccola borghesia meridionale del proprio tempo.
Le opere
È sempre riduttivo paragonare uno scrittore ad altri ma credo sia, anche se semplicistico, il modo migliore per dare dei riferimenti che lo possano inquadrare. Maria Messina non può essere semplicemente etichettata come una “alunna” di Verga, perché nella sua opera si possono cogliere molti altri aspetti: l’ironia di Colette, lo sperimentalismo di Virginia Woolf, l’influsso della letteratura russa che amava, il primo Pirandello verista. Il pregio della sua prosa è un’acuta analisi della psicologia femminile presentata con uno stile asciutto e tagliente, spesso con immagini plastiche e similitudini evocative. Questo vale in special modo per i romanzi: Alla deriva, Primavera senza sole, La casa nel vicolo, Un fiore che non fiorì, Le pause della vita, L’amore negato.
Ma c’è anche un’altra produzione di Maria Messina, di ispirazione chiaramente verista e che si traduce nelle Novelle e nella letteratura per l’infanzia.
Personcine
Personcine è una raccolta di racconti, pubblicata nel 1921 che presenta l’infanzia come tema chiave e costituisce uno spaccato delle realtà più umili dell’Italia rurale di inizio Novecento. Oggi possiamo goderne grazie alla Casa Editrice 13 lab di Milano.
Bambini e ragazzi vengono ritratti in scene di vita quotidiana, manifestando la tenerezza e l’innocenza della giovinezza come tesori inestimabili in grado di donare significato profondo agli episodi più semplici e genuini. La sensibilità dell’autrice dialoga in maniera non banale con la letteratura per ragazzi del Primo Dopoguerra: Maria Messina affianca i valori tradizionali del patriottismo e del rispetto dell’autorità a preziosi spaccati di ciò che la naturalezza di un bambino può insegnare alla società sua contemporanea. Altro tema ricorrente tra le righe è il punto di vista femminile nell’Italia dell’epoca e l’importanza dello sguardo profondo e comprensivo della donna di tutte le età.
Quelli immortalati nei racconti di Personcine sono ritratti d’infanzia scattati come fotografie, con la stessa nitidezza e precisione.
Sei un uomo, tu. La vita è dura, e ci vogliono le gambe buone per camminare nelle vie della vita.
Un’infanzia difficilmente serena ma sempre alle prese con difficoltà, tribolazioni, delusioni o anche disillusioni amare.
Povera piccola, venuta in città come un uccellino inebriato di sole!
Sullo sfondo spesso e volentieri la miseria e/o la guerra e un’umanità sofferente, che un narratore comprensivo sa rappresentare con le parole, sa cogliere con l’immediatezza di un’immagine efficace.
…i bambini piccoli restavano presso le madri, turbati dall’attesa che pesava su tutti i cuori.
Il suo non è il realismo spietato e morboso d’oltralpe, ma uno stile affranto e delicato, umanamente solidale con la sofferenza che è sparsa ovunque, sia nelle grandi città, sia nei paesini di provincia, persino negli occhi di un bambino.
L’amuleto d’ambra. Un racconto dell’India coloniale
Louisa May Alcott
A cura di Daniela Daniele
Elliot Edizioni
Sinossi:
In questo romanzo mai pubblicato finora (il manoscritto è stato solo recentemente ritrovato dalla curatrice di questo volume) l’autrice di Piccole donne rielabora l’immaginario indiano reso popolare da Jules Verne per narrare il passato coloniale del protagonista diviso tra la nostalgia per l’Oriente e la malinconia parigina. Un ex colonnello inglese sopravvissuto alla rivolta dei mercenari Sepoy a Delhi crede di riconoscere su un palcoscenico di Parigi la fanciulla indiana che gli aveva salvato la vita. Tra audaci domatori e abili seduttrici, Alcott ci avvolge nel vortice di emozioni tipico dei suoi primi thriller, narrando la magia ma anche le contraddizioni di una società dello spettacolo seppur ancora agli albori. Ne emerge un testo di grande fascino che si snoda tra i fasti e i posticci travestimenti del teatro, il tedio e le crisi coniugali degli spettatori di una nuova modernità, alla costante ricerca di emozioni esotiche e nuovi diversivi.
Recensione
L’amuleto d’ambra è un racconto dell’India coloniale che narra dell’incontro da un inglese e una baiadera indiana che lo salva dalle mani sanguinose dei guerriglieri Sepoy.
Si rincontrano a Parigi, tempo dopo, quando lui sta cercando di recuperare le forze e superare la drammatica esperienza, anche se non ha dimenticato. Lei è una famosa ballerina odalisca che incanta migliaia di spettatori ogni sera a teatro. L’amuleto è rimasta l’unica cosa che hanno in comune.
Straordinaria è la vividezza con cui vengono rappresentate e riportate sulla pagina scritta il fascino esotico delle musiche, le essenze indiane, gli accessori e i costumi, nonché la sontuosità degli scenari teatrali parigini con l’influenza di quelli vittoriani: l’accuratezza descrittiva è degna solo di una conoscenza approfondita e di un interesse specificamente rivolto.
Obbedendo a un improvviso impulso, si arrampicò su un albero che cresceva lì vicino e guardò tra il fruscio delle foglie il piccolo cortile sottostante, rivestito di marmo e circondato di mura cariche di piante lussureggianti, e debolmente illuminate dalla luna crescente. Una fonte sorgeva e ricadeva nel bel mezzo di un angolo fiorito, e danzando attorno ad essa a piedi scalzi, con le chiome al vento e avvolta in un morbido vestito bianco, c’era una ragazza che sembrava una degna abitante di quel luogo incantato.
Contrariamente a quanto le sue descrizioni particolareggiate farebbero pensare, Louisa May Alcott non ebbe esperienza diretta dell’India ma era innegabilmente una vorace lettrice. Oltre, quindi, all’amore mai dimenticato per il teatro e l’arte drammatica di Louisa, e dato in prestito a Jo, la fonte di ispirazione diretta del racconto è Julies Verne a cui si deve il prestito che la stessa Louisa nel suo diario definisce più vistoso, ma influenze indirette giungono anche da E. A. Poe, E. Gaskell e W. Collins, tutti vittime del fascino esotico.
Siamo molto distanti dalle atmosfere di Piccole Donne e lontani anche da quelle rappresentazioni teatrali arrangiate nel salotto dei March così come nel fienile dietro la casa degli Alcott.
In questo caso la storia e la tematica è per adulti e Louisa sfoggia le sue capacità di analisi e di revisione per connotare di accenti romanticismo la sua vena noir di thriller psicologici.
La postfazione di Daniela Daniele è un vero e proprio saggio, non solo un mero approfondimento; colei che ha rinvenuto il racconto del tutto inedito e pubblicato per la prima volta in italiano da Elliot Edizioni, ci guida in un articolato viaggio alla scoperta dei meandri che si snodano dal corso principale del racconto scoprendone le sue fascinazioni e diramazioni.
Anche se una strategia semiautobiografica è costantemente in atto nell’opera di Louisa May Alcott, poche altre narrazioni riescono meglio di questa a catturare i sentimenti dell’autrice sulla sua carriera. … l’amuleto d’ambra mostra un’inusuale tenerezza verso la donna romantica e inquieta che l’autrice era stata un tempo.
Ebbene sì, Orgoglio e Pregiudizio festeggia oggi, 28 gennaio 2023 il 210^ compleanno e può ben spegnere con soddisfazione le sue altrettante candeline!
Tante le edizioni che hanno lastricato il percorso di stampa fino a oggi, tante le copertine che hanno cercato di catturare l’essenza del romanzo.
E’ il romanzo a cui sono affezionata, che ha fatto scoccare il colpo di fulmine con Jane Austen, che ha orientato i miei gusti letterari e ha deciso il mio futuro da lettrice.
Per me, tutto iniziò con questa copia, affrontata nel 1985 come compito delle vacanze estive e nonostante i nomi improponibili, Giovanna, Guglielmo, ma anche Carlo, la storia mi piacque sin da subito.
Poi lo rilessi tante e tante volte, con traduzioni diverse, in edizioni più o meno commentate, e l’amore è cresciuto a dismisura. Posso confermare che è tutto vero quel che Calvino dice dei classici.
Perché questo, Signore e Signori, è il Classico per eccellenza.
Non solo ha tutte le caratteristiche per essere intramontabile, ma ha una modernità e una verve che non passeranno mai di moda e saranno sempre di un’attualità disarmante.
Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
Se c”è un libro a cui calza alla perfezione questa massima è Orgoglio e Pregiudizio.
Che non mi stancherei mai di rileggere, all’infinito, che porterei con me su un ‘isola deserta e che a ogni rilettura mi riserva sempre un piacere sempre nuovo.
Jane Austen, nella lettera del 29 gennaio 1813 scrive a Cassandra dell’arrivo della sua copia personale:
Voglio dirti che ho avuto il mio adorato Bambino da Londra.
Nella lettera si racconta anche dello scherzo giocato ai danni di Miss Benn che ospite al cottage, non sa di avere davanti l’autrice del libro che stanno leggendo in salotto:
Miss Benn era a pranzo da noi proprio il giorno dell’arrivo del Libro, e nel pomeriggio ci siamo completamente dedicate a esso e le abbiamo letto la metà del 1° volume – premettendo che essendo state informate da Henry che quest’opera sarebbe stata presto pubblicata gli avevamo chiesto di mandarcela non appena uscita – e credo che ci abbia creduto senza sospettare nulla. – Si è divertita, povera anima! che non potesse che essere così lo sai bene, con due persone del genere a condurre il gioco; ma sembra davvero ammirare Elizabeth.
Fu sempre in questa lettera che Jane Austen dichiarò la sua passione per Elizabeth:
Devo confessare che io la ritengo la creatura più deliziosa mai apparsa a stampa, e come farò a tollerare quelli a cui non piacerà almeno lei, non lo so proprio.
Orgoglio e Pregiudizio ha avuto tanti figli, derivati di tuti i tipi: seguiti, spin off, riscritture, mash up, adattamenti, di tutto di più; e in questo senso continua a proliferare più che mai.
Un derivato particolarmente originale e frutto dei nostri tempi è stato quello dei The Lizzie Bennet Diaries: una riscrittura recitata moderna pubblicate a puntate su youtube.
Se non c’è un collegamento diretto, allora c’è un riferimento o una citazione o un omaggio implicito.
Da ultimo, per citare un esempio, il successo di Felicia Kingsley, Non è un paese per single che è una sorta di Orgoglio e Pregiudizio rivisitato in chiave moderna e trasportato sulle colline del Chianti.
Le sue versioni televisive hanno fatto sognare spettatrici di tutte le generazioni convincendo anche gli spettatori e se quella cinematografica accontenta meglio chi predilige la storia romantica, nella serie BBC le Janeites doc hanno riscontrato maggiore aderenza e rispetto al testo scritto.
La trasposizione filmica ha fatto sì che Mr Darcy diventasse nell’immaginario collettivo l’incarnazione dell’uomo ideale, affascinante e irraggiungibile ma anche un po’ rude; poi anche in questo caso ci sono stati dei riadattamenti.
Una cosa è certa: auguriamo a Orgoglio e Pregiudizio la fama indiscussa e imperitura di cui già gode, mantenendo sempre la sua eterna giovinezza e freschezza!
E come si dice in questi casi: 210 anni e non sentirli!
You love the roses – so do I. I wish The sky would rain down roses, as they rain From off the shaken bush. Why will it not? Then all the valley would be pink and white And soft to tread on. They would fall as light As feathers, smelling sweet; and it would be Like sleeping and like waking, all at once!
Il manoscritto è una prima stesura senza data, priva di titolo e con numerose cancellature e correzioni: non reca nessuna indicazione di eventuali suddivisioni (capoversi, capitoli). Il titolo The Watson è presumibilmente una invenzione del nipote J. E. Austen-Leigh, il quale pubblicò il romanzo in appendice alla seconda edizione del suo Memoir nel 1871.
L’edizione autonoma a cura di A. B. Walkley, Leonard Parsons, London, 1923, si limita a ristampare tale testo; la prima edizione ad adoperare il manoscritto della Austen è a cura di R. W. Chapman, The Watsons, a fragment by Jane Austen, now reprinted from the manuscript, Clarendon Press, Oxford, 1927 che poté consultarlo perché fino a 1978 era di proprietà degli eredi di William Austen-Leigh.
Il manoscritto è diviso in due parti: sei fogli dell’originale sono custoditi alla Pierpoint Morgan Library di New York: la parte rimanente alla Bodleian Library dell’Università di Oxford[1].
I Watson con l’eroina che si chiama Emma e il padre malato è stato alle volte interpretato come un prototipo del successivo Emma. Ma sarebbe più esatto dire che ha aspetti di somiglianza piuttosto evidenti con tutti i romanzi di Jane Austen al punto che se fosse semplicemente spuntato fuori dal nulla, non ci sarebbero stati dubbi sull’autore. A parte il nome, le due protagoniste vivono condizioni un po’ diverse: Emma Watson, dopo quattordici anni di assenza, fa ritorno nella sua famiglia d’origine e si ritrova a dover assistere il padre, ormai vecchio e molto malato, e farsi accettare dai fratelli, tra i quali i rapporti sono inquinati da piccole gelosie e invidie meschine.
Mr. Watson ricorda molto il rev. Austen e poiché la morte di lui, avvenuta a Bath il 21.1.1805, segna un brusco silenzio letterario o comunque un vuoto di notizie su Jane Austen in quel periodo, si è ipotizzato che fosse il doloroso ricordo provocatole dall’analoga condizione tratteggiata nel padre di Emma Watson a impedirle di portare a compimento il frammento abbozzato nel periodo intorno alla morte del proprio.
Jane non dovette essere sempre d’accordo con le decisioni prese dal rev. Austen, come quando decise il trasferimento a Bath per lasciare la parrocchia di Steventon a James o morendo lasciò moglie e sorelle in balia della generosità dei fratelli maschi. Verso di lui esprime sentimenti di rispettoso affetto ma non autentico slancio: lascia pensare la duplice versione della lettera con cui annuncia la morte del genitore e allo stesso tempo cerca di consolare il fratello minore Frank:
Dobbiamo sentire il peso della perdita di un tale Genitore, altrimenti saremmo dei Bruti[2].
Della sua tenerezza di Padre chi potrà renderne giustizia… Conserva il sorriso dolce e benevolo che l’ha sempre contraddistinto[3].
In seguito ne accennerà in una lettera, sempre con termini di stima e tradendo un po’ di nostalgia quando le viene richiamato alla mente l’interesse di lui per gli studi umanistici e l’ambiente universitario, caratteristiche che ritroviamo anche in Mr. Watson:
Mr. W. è stata un’utile aggiunta, dato che è un Giovanotto disinvolto e un piacevole conversatore – è molto giovane, forse a malapena ventenne. È del St John di Cambridge, e ha parlato molto bene di H. Walter come studioso; – ha detto che era considerato come il miglior classicista dell’università – Quanto sarebbe stato interessato il Babbo a una descrizione del genere![4].
Non dobbiamo pensare però che la scrittura de I Watson sia malinconica perché comunque il guizzo allegro di Jane Austen trova comunque il modo di fiorire qua e là come margherite in un prato.
Non mancano infatti battute di spirito come quella contenuta nella conversazione con Lord Osborne a proposito dell’economia domestica:
L’economia femminile può fare moltissimo, milord, ma non può trasformare un’entrata piccola in una grande.
Come anche quell’annotazione divertita sul percorso della vecchia cavalla evidentemente abituata a fermarsi davanti alla modista:
La vecchia cavalla continuava col suo trotto pesante, senza bisogno di guidarla con le redini per farla girare nei punti giusti, e fece un solo errore, fermandosi davanti alla modista, prima di accostarsi all’ingresso della casa di Mr. Edwards[5].
Per non parlare del tenero episodio con il signorino Blake che sembra uscito direttamente da una delle tante serate di ballo a cui Jane Austen stessa partecipava.
Cassandra Austen raccontò ai nipoti qualcosa della progettata conclusione de I Watson: Emma avrebbe “declinato una proposta di matrimonio da parte di Lord Osborne, e gran parte dell’interesse del racconto sarebbe ruotato intorno all’amore di Lady Osborne per il signor Howard, per contro innamorato di Emma che avrebbe comunque finito per sposare”. I lettori hanno spesso ritenuto per scontato che “Lady Osborne” equivalga in questo caso a Miss Osborne, il che risponderebbe benissimo alla tipica struttura delle trame di Jane Austen, lasciando alla matura Lady Osborne forse un ruolo di ostacolo come quello di Lady Catherine de Bourgh in Orgoglio e pregiudizio. Ma è possibile che non vi sia confusione di nomi e che la bellissima Lady Osborne si sarebbe servita di tutta la dignità del rango nel tentativo di accalappiare il semi-dipendente signor Howard.
Nello stile, come nella trama e nella caratterizzazione sembra probabile che I Watson avrebbe retto il confronto con gli altri romanzi di Jane Austen, se lo avesse finito[6].
Virginia Woolf ci invita proprio a rilevare il valore de I Watson in quanto opera incompiuta:
Le opere secondarie sono sempre interessanti perché mostrano il metodo con cui procede lo scrittore: l’aria scarna e dura dei primi capitoli ci dimostra che Jane Austen era uno di quegli scrittori che nella prima stesura espongono sommariamente la vicenda, ma poi ripetutamente vi ritornano finché questa acquisti rilievo e atmosfera. [… ] doveva prima creare l’atmosfera in cui avrebbe poi fruttificato il suo genio peculiare […] non c’è tragedia, non c’è eroismo, eppure chissà perché la piccola scena è molto più commovente di quanto non possa far supporre la sua superficiale solennità […] Ci incita a suggerire ciò che manca. Ciò che lei ci offre è apparentemente una trivialità, tuttavia composta di elementi che si espandono nell’immaginazione del lettore e investono di durevole vita quelle scene[7].
Sicuramente quelle pagine abbozzate sarebbero state ampliate e sviluppate, o per meglio dire cesellate, per diventare un altro grande romanzo dei suoi e questo ci fa dolere per l’ennesima volta della sua prematura scomparsa. Una vita più lunga e soprattutto più serena, in quelle condizioni ideali che aveva trovato in Chawton, le avrebbero permesso di rimaneggiare il lavoro interrotto e dargli una forma completa.
✦✦✦ EDIZIONE INTEGRALE, ANNOTATA E ILLUSTRATA (In copertina elementi grafici della prima edizione) ✦✦✦
𝐓𝐫𝐚𝐦𝐚
Il libro della felicità – “Pollyanna” (1913) racconta la storia di Pollyanna Whittier, una ragazzina orfana di madre che cerca di condurre una vita gioiosa, sebbene in povertà. Tutto cambia il giorno in cui perde anche l’adorato padre; rimasta sola, Pollyanna viene mandata a vivere con la ricca zia Polly Harrington. Tra nuove scoperte e difficoltà quotidiane, la ragazzina insegnerà a tutti il “gioco della felicità”, che le aveva insegnato suo padre, che consiste nel trovare sempre qualcosa di cui essere contenti a prescindere dalle circostanze. Una storia toccante, capace, con la sua dolcezza, di strappare un sorriso a grandi e piccini. La presente edizione, pubblicata in occasione del centenario dalla morte dell’autrice, offre un testo integrale, annotato e corredato da otto tavole che si rifanno alle illustrazioni della prima edizione. «Come vedi, cara, sei stata tu a farlo. L’intero paese sta giocando al gioco, e l’intero paese è perfettamente felice… e tutto grazie a una ragazzina che ha insegnato alla gente un nuovo gioco, e come giocarci.»
Recensione
Ben presto scopro che Pollyanna è una creaturina irresistibile, incantevole per il suo candore, determinata a trovare il bello in tutte le cose e le situazioni. Per molti versi molto simile alla Anne di Tetti Verdi di Lucy M. Montgomery.
Pollyanna chiama il suo atteggiamento positivo “il gioco della felicità” e a poco a poco scopriamo che è contagioso, sebbene scettici dubitiamo della sua fattibilità. Inevitabilmente la conoscenza di Pollyanna, addentrandosi nelle pagine e nelle sue avventure, diventa un toccasana.
“Sembra che non trovate molto difficile essere contenta di tutto” replicò Nancy sorridendo un po’ al ricordo dei coraggiosi sforzi di Pollyanna di farsi piacere la spoglia stanzetta nell’abbaino.
Pollyanna accennò un sorriso.
“Beh, comunque questo è il gioco, sapete.”
“Il … gioco?”
“Sì; il gioco dell’ ”essere semplicemente felici”.”
Una lettura rilassante, riconciliante con il mondo, che fa bene all’anima. Pur nella sua stucchevole prevedibilità questo libro rappresenta una iniezione endovena di fiducioso ottimismo e sono felice, per dirla con Pollyanna, che sia stata proprio la prima lettura dell’anno!
L’autrice
Eleanor Hodgman Porter (1868 — 1920) scrisse vari racconti e quindici romanzi per ragazzi e per adulti, fra i quali ricordiamo: The Turn of the Tide (1908), The Story of Marco (1911), Miss Billy (1911), Miss Billy’s Decision (1912), Miss Billy Married (1914), Just David (1916), The Road to Understanding (1917), Oh, Money! Money! (1918) e Mary Marie (1920). Pollyanna (1913), insieme al suo seguito Pollyanna cresce (1915), la resero celebre in tutto il mondo.
Terzo e ultimo volume della Lulu’s Librarym la raccolta di storie che Louisa scrisse a sedici anni per le sue sorelline e per dedicarle alla figlia di Emerson, Ellen, e che sarebbero uscite di lì a poco in una raccolta dal titolo Fiabe floreali. Le rivede a distanza di anni, nel 1887, per inserirle nella raccolta che porta il nome dell’amata nipotina.
Sinossi:
In questo terzo volume di racconti, uscito a Boston nel 1889, pochi mesi dopo la morte dell’autrice, Alcott accantona l’aspetto fantastico che aveva in parte caratterizzato le storie precedenti, e si concentra con sguardo attento e penetrante sulle piccole gioie, i dolori, le speranze e le delusioni di bambine e bambini delle classi più disagiate, in un’America fortemente industrializzata e disuguale, dove le sacche del disagio e dell’ignoranza sembrano espandersi, nelle città come nelle campagne. Con la sua sensibilità etica e sociale, l’autrice compone in questo volume degli «schizzi» di vita, liberandosi dal retaggio del buon vecchio Dickens per entrare nel cuore e nella mente dei suoi piccoli protagonisti. Ecco allora il peso della miseria e del lavoro minorile che logora anche l’attesa dei giorni di festa, ma al tempo stesso rilancia la generosa inventiva dei ragazzini poveri (Un tacchino di Natale); il miracolo terreno di un’assistenza mirata e caritatevole che ridona la luce e la gioia di vivere a una bambina colpita dalla cecità (L’allodola cieca); il romanzo di un giovane povero che sogna un futuro migliore e il cui talento viene sfruttato sordidamente da benefattori imbroglioni (Musica e maccheroni); i capricci dei bambini ricchi, deviati a fin di bene dalla lezione della realtà o dalle sagge memorie dei nonni (Il borsellino rosso, Lettino di bambola); ma anche il modernissimo ritratto di piccole donne in fiore, di varia estrazione sociale e culturale, che si confrontano, si scontrano, solidarizzano, con la voglia crescente di un’educazione e un’indipendenza tutta al femminile (Il segreto di Sophie).
Recensione
La raccolta si apre con un racconto intitolato Ricordi della mia infanzia e non esito a definirlo il più interessante per la quota autobiografica che reca con sé. Le lezioni, il teatro nel fienile, le corse a perdifiato, i grandi filosofi frequentati, i sacrifici e l’amore per la lettura: ecco raccontata in estrema sintesi la giovinezza poco spensierata di Louisa che però riesce a tracciare il suo soddisfacente bilancio:
Ogni esperienza andava a finire nel calderone per uscire come spuma, o evaporare in fumo, fino a che il tempo e la sofferenza non rafforzarono e purificarono quel misto di verità e fantasia, e una salutare sorgente per bambini cominciò a sgorgare con piacere e profitto.
Gli altri hanno per protagoniste, per la maggior parte, piccole donne e una delle questioni più ricorrenti è, oltre alla bontà d’animo, l’educazione/istruzione femminile. L’intento pedagogico è chiaro, se non tornassero a ricordarlo gli edificanti interventi di una occasionale zietta. Louisa vuole convincerci della fideistica certezza che il bene viene sempre ricompensato e la generosità e operosità femminili sono il miglior strumento d’azione. Queste storie non narrano di grandi avventure e ricchezze se non quelle che può procurare un cuore sollecito. I personaggi sono eroi ed eroine di cui è piena la vita quotidiana che compiono azioni altrettanto valorose. Lo sguardo comprensivo di Louisa non si ferma alle situazioni disagiate vicine a lei, ma riesce ad abbracciare con sensibilità lungimirante quelle analoghe, magari viste durante i suoi viaggi in Europa come nel racconto di Tino, Musica e Maccheroni, o quello dell’olandese Trudel, L’assedio di Trudel).
Con tanti ringraziamenti Tino lasciò il Grand Hotel, sentendosi troppo giù di corda per preoccuparsi più di tanto di quello che gli era accaduto, perché tutti i suoi bei sogni erano rovinati come quella cesta di porcellane delle Mille e una notte che un uomo aveva rovesciato a calci mentre sognava di essere un re.
Una lezione di inclusività che riteneva utile impartire alla piccola Lulu.
Passando attraverso diversi registri, dal commovente de L’Allodola cieca, al fantasioso La festa dell’argenteria umanizzata, Louisa confeziona un regalo davvero speciale: che mentre insegna riesce a divertire.
L’arte di trasformare le ciglia aggrottate in sorrisi non è mai passata di moda, e le buone maniere rimuovono meravigliosamente le piccole preoccupazioni della vita.
È quindi per tutti questi motivi che gli insegnamenti che veicolano le Storie di Natale di Louisa sono sempre validi perché si appellano alla solidarietà umana e ai valori incrollabili della pietas e dell’amore.