
Grazie al prestito bibliotecario ho potuto aggiungere questo classico al mio virtuale patrimonio letterario. Non è solo il romanzo più lungo scritto in lingua inglese, o esercizio dimostrativo della ragione poetica aristotelica, Clarissa è un’opera sinfonica in cui l’ouverture è occasionata da una storia di seduzione la quale però dà il la –per rimanere in chiave musicale- a un trattato filosofico morale e teologico immane. Mirabile appare agli occhi moderni il telaio formidabile di oltre cinquecento lettere indirizzate e inviate dai numerosi personaggi che formano la piccola costellazione in cui si muove Richardson, con fine maestria, restando abilmente nascosto dietro alle loro esternazioni epistolari.

Tale e tanto è l’effetto persuasivo e introspettivo di Clarissa che ella diventa parte del presente cosicché dopo averne letto alcuni capitoli la sera, capita di domandarsi al mattino dopo: “che cosa starà facendo ora Clarissa?” o “Che cosa le sarà capitato ancora?!”.
Giustamente nel postscritto l’autore si difende dalle accuse di prolissità del suo romanzo –per il quale rifiuta sdegnato la classificazione di romance- ma nell’assolverlo pienamente gli si deve dare atto di non aver mai lasciato assopire l’attenzione del lettore pungolandola semmai ora con fatti e accadimenti ora con spunti di profonda riflessione.
Del resto nel Settecento era questa la condizione da rispettare: lo scopo edificante del libro consentiva e legittimava allo stesso tempo la scrittura e la lettura, scagionando da accuse di leggerezza sia l’autore –rigorosamente maschile- sia il fruitore.
Le 2800 pagine dei tre tomi sono così scorse nell’affanno di seguire il compimento della tragedia di Clarissa e dei malvagi che hanno attentato alla sua virtù, ma anche con la rassicurante dissertazione sul bene e sul male, sulle abiezioni della natura umana tanto quanto le sue nobili doti, e non sorprenda se l’impresa, per quanto irta sia apparsa all’inizio della scalata, una volta giunti sulla sua sommità ha lasciato senza fiato non per lo sforzo compiuto ma per l’infinito panorama contemplato.
Da annoverarsi tra le letture di Jane Austen, Richardson era sicuramente uno dei suoi autori preferiti e non potrebbe stupire più di tanto ritrovare un po’ dell’antenata Clarissa nell’encomiabile Fanny Price che paga il caro “prezzo” della propria integrità morale fino però a ricevere il premio finale. Non condivideva quindi Jane Austen le ragioni di Richardson convinto della forza suscitata da un finale tragico rispetto alla minore impressionabilità di un lieto fine. Anzi, il fatto stesso che Jane Austen non brilli proprio per i suoi epiloghi sbrigativi e scontati sembra dare ulteriormente ragione al maestro. Di fatto la profonda, quanto intima, esperienza sensoriale e emotiva fissa l’indelebile ricordo di Clarissa Harlowe.