Quanto sono deliziose le atmosfere che sa creare Jane Rose Caruso!
Quando inizi la lettura di un suo racconto vieni avvolto da una sensazione di calorosa premura che sprigionano le pagine al solo sfogliarle.
Le illustrazioni, i titoli dei singoli capitoli, sono tanti irresistibili inviti a farsi coccolare e a ritrovare una dimensione di benessere.
Perché la felicità è nelle piccole cose e non bisogna andare tanto lontano per cercarla.
Lo sa bene Melanie che ha cercato per tutta la sua vita di fuggire, di inseguire i suoi sogni di gloria e di successo per dimenticare i dolori che avevano lacerato il suo cuore. Lasciare la sua casa e stabilirsi a Parigi dove condurre la sua vita e perseguire i suoi obiettivi da sola le era sembrata la via più facile ma le basta rimettere piede nella fattoria e riassaporare i dolci e speziati profumi della cucina di Nanà per realizzare che le radici e i legami familiari sono più forti di ogni obiettivo.
Jane Rose Caruso sa bene quali corde dell’anima toccare e con le sue descrizioni in 3D, magicamente evocative, le bastano pochi tocchi e qualche pennellata per creare la giusta dimensione di una bella storia.
La scrittrice sa bene che a tutti noi bastano pochi ingredienti per realizzare la fatidica ricetta della felicità e sembra dosarne le quantità con abile maestria.
Questo vale per Mel e per Jonny, ma anche per ogni lettore.
Il sentiero delle lucciole è una storia che aiuta a vivere meglio, una coccola che fa stare bene, una luce che fa ritrovare la strada di casa.
Ottima per introdurre in clima natalizio, perfetta per tutte le stagioni!
Sinossi:
In seguito alla morte del padre, Melanie Sophie Spencer, affermata psicologa, è costretta a trasferirsi da Parigi nella fattoria dove è cresciuta, a Conerville.Non è facile, per Melanie, ritrovarsi faccia a faccia con i ricordi più dolci, intimi e dolorosi della sua infanzia: la vita in campagna, i sapori e gli odori di casa, ma anche la morte di sua madre e il bullismo subito da adolescente.Dal passato di Melanie non tornano, però, solo i tramonti infuocati, l’odore del fieno appena tagliato e i malinconici ricordi familiari, ma anche Jonny, il suo migliore amico da bambina, la ragione per cui Melanie è riuscita a sopportare tutto.Per la ragazza inizia uno struggente viaggio nel passato, partendo da Conerville… dove i sentieri sono illuminati dalle lucciole e dalla speranza.
Louisa May Alcott nasce a Germantown il 29 novembre 1832, secondogenita di Amos Bronson e Abba May e nello Stato della Pennsylvania trascorre la prima infanzia. Quando la bimba aveva solo due anni, il padre Bronson annotava sul suo diario alcune osservazioni relative al suo carattere analizzandone pregi e difetti in modo lucido e distaccato:
Louisa è ancora piccola perché si possa avere un giusto giudizio del suo carattere. Essa manifesta una attività e una forza della mente fuor del comune al presente, ed è molto in anticipo sulla sorella alla sua stessa età. L’esempio ha contribuito molto a incitare all’azione la sua natura. Essa è più attiva e pratica di Anna. Non trova difficoltà nell’escogitare la sua strada e intende conseguire il suo intento.
Novembre è un mese significativo per Louisa, non solo perché ricorre il suo compleanno.
A Novembre di alcuni anni più tardi lascerà casa e partirà per Boston
Ho deciso di tentare la fortuna; così, col mio piccolo baule di abiti fatti in casa, i miei manoscritti e venti dollari ricevuti dalla Gazzetta per i miei racconti, parto accompagnata dalla benedizione di mia madre, in una giornata piovosa del mese più triste dell’anno.
Ritroviamo una frase simile in Piccole Donne e messa in bocca a Jo, naturalmente, il suo alter ego.
Novembre tornerà spesso a portare a Louisa il suo carico greve.
Il 25 novembre 1877 Abba viene a mancare: l’amata Marmee viene sepolta nel cimitero di Concord, lo Sleepy Hollow, accanto alla figlia Elizabeth.
L’8 novembre 1879 ricevette la notizia May aveva dato alla luce una figlia, Louisa May Nieriker, quella che diventerà la sua nipotina preferita, ma purtroppo a breve seguirà il grande dolore per la perdita della sorella stessa.
Ecco quindi, sebbene anche in modo infaustamente premonitore, non aveva tutti i torti Louisa a far pronunciare alla sua eroina queste parole.
Anzi, nel capitolo 13 di Piccole Donne possiamo leggere il sunto del pensiero di Louisa May Alcott:
— Il mese di novembre è il più antipatico che ci sia in tutto l’anno — disse Meg uno scuro dopopranzo, guardando dalla finestra il povero giardino spoglio di tutti i suoi fiori. — È per questo che io sono nata in quel mese — osservò Jo, completamente inconscia della macchia d’inchiostro che aveva sulla punta del naso. — Se accadesse qualcosa di piacevole adesso, direste che è il più bel mese dell’anno — aggiunse Beth, che si contentava sempre di tutto, anche del novembre. — Lo credo io! Ma non è mai caso che accada qualcosa di piacevole in questa famiglia — disse Meg, che era di malumore — Si sgobba, e non si ha mai un po’ di ricompensa! — Santo Dio! Come siamo neri oggi — gridò Jo — però, non c’è da meravigliarsene, povera piccina, perché tu vedi tutte le tue amiche, che se la pigliano tanto comoda, mentre che tu lavori come un ciuco tutto l’anno! Se potessi fare con te come faccio con le eroine dei miei romanzi! — Adesso non accadono più queste fortune: gli uomini debbono lavorare per vivere, e le donne sposare per interesse! Che mondo! Che mondo! — aggiunse Meg amaramente.
Quando nella prefazione di Marisa Sestito al romanzo Agnes Grey, pubblicato dalle edizioni Albatros nel 1989, ho letto che una parte della critica ha stabilito una certa somiglianza tra Anne Brontë e Jane Austen, sono rimasta a tutta prima, incredula. Non mi venivano forniti altri elementi se non un generico riferimento alla stessa “sostanziale onestà nel raccontare”. Ma temo che questa caratteristica individuata sia riduttiva per entrambe e possa comunque fornire lo spunto per azzardare paragoni più o meno fondati o anche solo “impressionistici” che però in questo frangente vorrei lasciare ai più esperti.
Ci fu comunque chi, all’inizio del XX secolo, pensava che fosse ingiusto che Anne Bronte, in particolare, venisse trascurata a favore di Jane Austen. Nel 1924, il celebre autore irlandese George Moore scrisse:
“Se Anne Brontë fosse vissuta dieci anni in più, avrebbe preso un posto accanto a Jane Austen, forse anche un posto più alto.” (dal sito annebronte.org)
Ho iniziato a pensare alle due diverse scrittrici, ai loro mondi e substrati socioculturali così distanti, eppure anch’esse figlie, anch’esse sorelle, giovani, malate ed effettivamente accomunate dalla stessa prematura scomparsa. Le rispettive biografie registrano infatti che Jane Austen morì a Winchester, il 18 luglio 1817, Anne Brontë morì a Scarborough il 28 maggio 1849, località dove si recò insieme alla sorella Charlotte (e a Ellen Nussey) e morì consunta dalla tisi. Anne aveva cercato nell’aria di mare un sollievo ai suoi gravi problemi respiratori mentre per Jane si pensava che l’illustre medico, Dr. Lyford, residente nella località citata, avrebbe potuto trovare una cura miracolosa per gli strani disturbi che la affliggevano.
Sebbene colpite da malattie molto differenti, ma entrambe gravissime, provarono a resistere, ricorrendo magari a piccoli espedienti che non le facessero rinunciare del tutto alle loro amate abitudini. Ed è qui che sono rimasta quanto mai colpita dalla singolarità del comune mezzo usato per prendere aria e farsi condurre ad una passeggiata: tutte e due attraverso un calesse trainato da un asinello.
Priva di energie, Anne trascorse le sue giornate guardando il mare, come scrive la Sestito:
“Forte e solitaria come Emily tacitava le loro ansie, tentando in ogni modo di preservare l’autonomia; sino all’ultima mattina quando, dopo essersi vestita, in cima alle scale che la portavano in salotto ebbe paura e turbata chiese aiuto. Alle undici volle vedere un medico per sapere se partendo subito poteva arrivare a casa viva. Le rispose di no. Quando fu troppo debole per rimaner seduta a guardare il mare, la misero sul divano dove, alle due del pomeriggio di quel lunedì 28 maggio, morì, esortando Charlotte a farsi coraggio. A Scarborough, dove volle essere sepolta, rimane la sua lapide[1]“.
Toccante brano che riporta alla mente le stesse circostanze in cui è avvenuta la morte di Jane Austen, a Winchester, nella cui cattedrale è stata sepolta, lontana da casa, così come Anne, la cui tomba si trova al Saint Mary’s Churchyard.
Loro uniche infermiere e compagne fino all’ultimo furono le sorelle maggiori: Cassandra per Jane e Charlotte per Anne. Ellen Nussey, che accompagnava le sorelle Brontë, ci racconta che fu Anne a fare coraggio a Charlotte[2] poco prima di passare, “senza un sospiro, …dal tempo all’eternità” mentre il ricordo che ci consegna Cassandra è struggente perché attinge direttamente al suo vivo dolore:
“Ho perso un tesoro, una Sorella, un’amica che non potrà mai essere superata. – Era la luce della mia vita, rendeva preziosa ogni piccola gioia, alleviava ogni pena, mai le ho nascosto un mio pensiero, ed è come se avessi perduto una parte di me stessa. L’ho solo amata troppo, non più di quanto meritasse […]” [3].
[1] Marisa Sestito, Introduzione a Anne Brontë, Agnes Grey, Editori Riuniti Albatros, Roma, 1989, p. XVI.
[2] Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, Castelvecchi edizioni, Roma, 2015, p. 311.
[3] Jane Austen, Lettere, trad. Giuseppe Ierolli, edizioni ilmiolibro.it, Roma, 2011, L. n. CEA/1. [App.1] 20 lug. 1817, da Cassandra a Fanny Knight, da Winchester a Godmersham, p. 513.
Questo romanzo ha destato in me impressioni contrastanti.
La trama è molto avvincente e ben curata. Apprezzo i riferimenti e i richiami all’opera originale.
Ma non riesco a farmi convincere dallo sviluppo che si è scelto di dare al personaggio di Mary Bennet, caratterizzata in tutt’altro modo da Jane Austen. In Orgoglio e Pregiudizio abbiamo a che fare con una pedante e pesante studiosa che ammorba tutti con le sue massime di saggezza. Qui la terza figlia di Mr Bennet si presenta in modo molto diverso.
Il passaggio alla protagonista di questo romanzo sarebbe rappresentato da un ruolo che Mary si è autoimposta di impersonare per sfuggire a eventuali pretendenti perché il suo obiettivo nella vita è essere libera e indipendente. Attenzione spoiler: Obiettivo del tutto disatteso.
Fortunatamente questo derivato si discosta anche dal suo simile intitolato L’indipendenza della signorina Bennet di Colleen McCullough e R. Zuppet, in cui la povera Mary è completamente stravolta.
In questo caso, l’avventura è appassionante e il romanzo si fa leggere.
Faccio fatica a riconoscere l’occhialuta e stonata Mary Bennet perché ritrovo una Mary insospettatamente simpatica, reattiva, intuitiva e… romanziera.
Passi la visita di Mary a Pemberley, l’improbabile amicizia con Georgiana ma il rapimento -e con questo siamo al secondo a cui sfugge Georgiana-, in cui è coinvolta Mary, le peripezie a Londra, i sopralluoghi, gli avvistamenti, tutto questo insieme costituisce un intreccio non propriamente plausibile. Ovviamente questo è un giudizio del tutto personale e soggettivo perché sono molto affezionata all’opera originale.
Sicuramente è un mio limite, aver trovato Mary Bennet molto lontana dall’idea che mi sono fatta di lei come personaggio.
Non posso dimenticare quanto ho letto nell’introduzione che costituisce un importante richiamo per la mia obiettività di lettrice. Va dato atto quindi alla ragion veduta che dovrebbe stare alla base di ciascun sequel e che dovrebbe salvarlo dall’impietoso, in ogni caso, confronto con l’originale.
L’episodio del rapimento attira su di sé tutta l’attenzione e su di esso si indugia anche troppo e poco credibilmente (come quando tutta la comitiva di Pemberley effettua un sopralluogo nel luogo in cui Georgiana e Mary sono state segregate e poi si reca a fare un picnic!).
Rimane certo che mi trovo molto più a mio agio con la lettura quando ritrovo atmosfere e situazioni più in stile O&P. Davvero divertenti e molto somiglianti i quadretti familiari ricostruiti, come nel caso della visita delle sorelle Bennet a Longburn mentre prendono il tè tra le chiacchiere incessanti di Mr Collins e le sciocchezze di Lydia. I dettagli e i particolari in fatto di menù, musica, viaggi, persino armi, sono ricchi e interessanti.
Ci sono personaggi vecchi che richiedono alcune concessioni, mentre altri nuovi davvero affascinanti.
Un’insolita Mary è un romanzo molto gradevole e si vede proprio che l’edizione è circondata di cure.
Sinossi:
Una volta che Liz e Jane hanno sposato i loro amati Darcy e Bingley, non solo hanno coronato i loro sogni d’amore, ponendo le basi per la loro felicità, ma hanno anche inaspettatamente e incredibilmente innalzato le condizioni della famiglia Bennet. Mary, quindi, non si vede più costretta a vivere nell’incubo di una madre che vuole maritarla a tutti i costi, per questo si sente libera di mettere da parte il carattere scorbutico con il quale aveva cercato di allontanare ogni possibile pretendente, di abbandonare gli occhiali dietro ai quali si era sempre barricata e trova addirittura il coraggio di dichiarare ai suoi genitori la propria scelta di non sposarsi mai e di voler vivere libera per sempre. Quando Liz viene a sapere dell’incredibile cambiamento della sorella, la invita a Pemberley. Sarà in questo scenario meraviglioso che Mary rinascerà grazie all’amicizia con Georgiana e alle bellezze di una vita che non si sarebbe mai aspettata. L’autrice S. M. Klassen ha dato vita a una Mary straordinaria, protagonista di un romanzo dalle molte sfaccettature: non mancano gli accenti gotici che tanto appassionavano i lettori di un tempo.
Conoscete Alex o meglio, Miss Alexandra Gray? Sì, proprio lei, La debuttante dell’Essex!
Ebbene, godetevi questa parentesi natalizia a Graystne Manor: la vedrete intenta a impastare biscotti allo zenzero e ad addobbare la casa mentre cerca di combinare al solito qualche pasticcio.
Natale sta arrivando e, a casa di Alex, fervono i preparativi. Questa volta, Miss Gray ha deciso di fare le cose in grande accogliendo i suoi più cari amici sotto lo stesso tetto per festeggiare insieme la ricorrenza più speciale dell’anno. La zia Celandine e Lord Clerke, appena tornati dal viaggio di nozze decidono di trascorrere le vacanze insieme ai loro parenti dell’Essex mentre Frank è atteso da un momento all’altro. Non tutto va secondo i piani e la festa rischia di essere rovinata da alcuni contrattempi; inoltre Alex non sarebbe lei se non complicasse le cose mettendoci del suo con equivoci e incomprensioni, come al solito. Nella confusione generale sarà in grado il fratello Andrew di darle il giusto consiglio? E Lord Clerke supererà le sue preoccupazioni? L’arrivo di un nuovo ospite porterà ulteriore scompiglio? Un Natale, seppure secondo le tradizioni, molto movimentato quello festeggiato in casa Gray, del resto come sempre accade a Graystone Manor.
Quest’anno sarà un Natale un po’ particolare rispetto a quelli passati.
Forse ci verrà data l’occasione di scoprire la vera essenza del Natale senza tutto l’apparato consumistico e sfavillante che di solito lo circondava.
Ma il Natale quando arriva, arriva! E quale modo migliore di assaporarlo se non con una bellissima raccolta di racconti natalizi?
A creare la perfetta atmosfera natalizia ha pensato la Literary Romance con la Strenna di Natale di ben 14 novelle di autori diversi che ci racconteranno a modo loro il Natale.
Autori diversi, stili differenti, storie ambientate in epoche e situazioni disparate, ma legati da un unico filo conduttore rosso: lo spirito del Natale.
Siamo sicuri che la Strenna di Natale saprà infondere nei nostri cuori, oltre alle tante emozioni di cui è costellata, tutto il calore di cui abbiamo bisogno.
Mettetevi comodi e sfogliate questo meraviglioso libro… e che la magia abbia inizio!
Questo è uno dei tesori sommersi portati in superficie dall’Agenzia Letteraria Jo March di Lorenza Ricci e Valeria Mastroianni. La giovane e targata al femminile Casa Editrice di Perugia, è stata definita da Giovanni Dozzini, in un articolo del 7.1.2014 su Donneuropa.it, “un autentico caso editoriale” per l’enorme successo riscosso con le sue precedenti pubblicazioni (fino a seimila copie vendute di Nord e Sud di E. Gaskell), senza alcun impianto promozionale e lontano dai grandi distributori nazionali. Con Jane Austen, i luoghi e gli amici, fatto uscire intenzionalmente il 16 dicembre 2013, giorno di nascita di Jane Austen, si è voluto rendere esplicitamente omaggio alla scrittrice inglese presentando al pubblico di lettrici e lettori in italiano una biografia itinerante redatta da Mary Costance Hill (e illustrata dalla sorella Ellen) nel lontano 1901. La traduzione è stata curata dai soci fondatori (Mara Barbuni, Giuseppe Ierolli, Silvia Ogier, Gabriella Parisi) della JASIT, la prima Associazione italiana dedicata allo studio di Jane Austen, che con la passione di ammiratori e competenti conoscitori della lingua e della materia si sono accostati con rispetto e deferenza a questo testo.
Una storia nella storia: quella di due sorelle che partono su un calesse alla ricerca dei luoghi e delle persone che hanno avuto un qualche legame con Jane Austen, con un suo familiare, con gli edifici così come con le suppellettili, con le strade così come con le cittadine toccate dal passaggio o da una qualche relazione con gli avvenimenti della vita di lei. Ciascuna delle due ha tradotto sulla carta l’impressione e l’emozione prodotta da questa esperienza sensoriale e intima: Constance ha scritto, Ellen ha disegnato ciò che vedevano con gli occhi e con il cuore. Non si tratta di un testo rivolto solo ai fedeli ammiratori, ma uno spaccato di vita ed ambienti inglesi che coloro che amano l’Inghilterra, con i suoi cottage e le sue camp.ne, e l’età previttoriana, di fine Settecento-primi Ottocento, non mancheranno di sicuro di apprezzare. Innegabile che poi da parte dell’autrice-biografa, e dei traduttori che lo hanno ripercorso passo passo, parola per parola, sia stato anche un sentimentale pellegrinaggio alla ricerca dell’influenza indiscussa ed evidente che hanno avuto i luoghi (in cui è vissuta) e gli amici (di cui si è circondata), sull’opera di Jane Austen, la scrittrice.
La regione geografica, letteraria e metafisica in cui spazia il racconto è stata definita dalla stessa Constance Hill: Austenland, un termine che racchiude tutto il mondo che gravita intorno a Jane Austen. Attraverso le testimonianze dirette, l’incastro degli opportuni passi tratti dalle lettere e la conferma delle memorie scritte dai familiari, sono state ricostruite le tappe di questo viaggio che ha toccato non solo Steventon, Bath e Chawton, dove Jane Austen ha effettivamente abitato, ma anche quelle località minori comunque interessate dal suo passaggio o soggiorno per andare ad un ballo o fare visita ad un’amica. Nell’introduzione al libro, Silvia Ogier dischiude delicatamente davanti ai nostri occhi curiosi l’uscio sulle strade dell’Hampshire, ammiccando con complicità e accompagnandoci per mano in questo itinerario: ci ha provvisti di un bagaglio semplice e completo e di un biglietto non declinabile per questo Grand Tour da devoti Janeites.
Il tè per gli inglesi è il corrispettivo del caffè per noi italiani: qualcosa di irrinunciabile, energizzante, insostituibile nella vita di tutti i giorni. Come è un rito quello di servirlo con o senza latte, accompagnato da tramezzini al cetriolo (i preferiti di Lady Bracknell ne L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde), per le cinque del pomeriggio o a cena, così la nostrana preparazione del caffè prevede un prontuario di passaggi fondamentali, declinati per regioni quanto alla densità, attraverso i quali ottenere una aromatica tazzina di caffè, espresso o dalla moka.
Il tè è così importante per gli inglesi, costitutivo della loro essenza British, espressione del loro cerimoniale di belle maniere (a dispetto delle nostre abitudini “concentrate” e più dirette) che anche la stessa letteratura ne è stata ripetutamente influenzata.
“Sotto certi aspetti ci sono nella vita poche ore più piacevoli di quelle dedicate alla cerimonia del tè del pomeriggio.” diceva Henry James – inglese d’adozione – nell’incipit di Ritratto di signora; “Dalle cinque alle otto corre talvolta una piccola eternità che, nel nostro caso, non poteva essere che un’eternità di piacere.”
Alle diverse varietà di Twinings (che aprì la prima sala da tè londinese nel 1706) rispondono le continentali correzioni della bevanda nera al ginseng, alla nocciola, al limone, d’orzo, fino all’ultimo ritrovato salutista del caffè verde, dalle proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e favorenti il senso di sazietà utile nelle diete dimagranti. In comune hanno il fatto di essere prodotti importati, non autoctoni: il tè dalle piantagioni dell’India e dello Sri Lanka, il caffè dal Medio Oriente e dall’America Latina.
Che cosa sarebbero i romanzi di Miss Austen, delle sorelle Brontë e di Charles Dickens senza le scene di tè pomeridiano? Il tè è così frequente nella letteratura di Jane Austen che Kim Wilson ha pensato di scrivere un libro sull’argomento, A tea with Jane Austen, completo di ricette risalenti al XIX secolo, citazioni dai romanzi e aneddoti sulla vita della Austen. La Wilson scrive:
“Nei suoi romanzi, è il tè ad essere al centro di ogni avvenimento sociale. Forse in “Emma” Miss Bates beve il caffè? Ma certo che no: “Per me niente caffè, vi ringrazio… non prendo mai caffè. Un po’ di tè, per favore.” In “Ragione e Sentimento” cosa stanno bevendo tutti quando Elinor nota il misterioso anello di Edward con la ciocca di capelli? Tè, naturalmente. E in “Orgoglio e Pregiudizio” qual è uno dei supremi onori che secondo Mr. Collins Lady Catherine potrebbe concedere Elizabeth Bennet e alle sue amiche… se non quello di invitarle per il tè?”
Ma alla maggior parte delle persone il binomio tè – letteratura fa venire in mente il delizioso e bizzarro Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll.
“Prendi un altro po’ di tè,” disse la Lepre Marzolina ad Alice, con estrema serietà.
“Non ne ho avuto ancora,” rispose Alice offesa, “perciò non posso prenderne di più.”“Intendi dire che non puoi prenderne di meno,” disse il Cappellaio, “è molto facile prendere più di niente.”
Una fantastica parodia del chiacchiericcio raffinato da ora del tè. Tutti parlano, ma nessuno ascolta o capisce una parola di ciò che gli altri dicono. Scrivendo frasi visibilmente prive di senso Carroll ci fa riflettere sull’inconsistenza dei convenevoli con cui ci intratteniamo ogni giorno.
Di tutte le scene sul tè contenute nelle opere di Dickens le più tormentate sono quelle tra Pip ed Estella in Grandi Speranze. “Qualunque fosse stato il suo modo di comportarsi verso di me” riflette Pip durante uno dei loro incontri al ristorante, “mai era stato tale da darmi fiducia o farmi nutrire delle speranze; eppure continuavo contro ogni fiducia e ogni speranza. Perché ripeterlo migliaia di volte? Era sempre così.” Chiama poi il cameriere, che porta “in successione una cinquantina di componenti accessori, ma di tè neppure l’ombra.” Ciò che finalmente compare è “uno scrigno dall’aspetto prezioso contenente dei rametti. Li immersi nell’acqua calda, e così da tutto quell’armamentario ricavai una tazza di non so che per Estella.” Gli servirà molto più che del buon tè per vincere l’amore della ragazza. Questa particolare angoscia causata da problemi di cuore (e dall’abuso di teina) può essere ritrovata anche nell’opera di T.S. Eliot. Ne Il canto d’amore di Alfred J. Prufrock un’ode alla non-azione e alla paralisi, il tè è ovunque. Si inizia a parlare d’amore mentre si è seduti a tavola per un tè:
Tempo per te e tempo per me, E tempo anche per cento indecisioni, E per cento visioni e revisioni, Prima di prendere un tè col pane abbrustolito.
…Potrei, dopo il tè e le paste e i gelati, Aver la forza di forzare il momento alla sua crisi?
Poesia sull’insicurezza e sui dolorosi rimpianti, due malattie dell’animo che forse nemmeno una confortante tazza di tè può curare. Ma il tè può essere anche occasione simpatica estratta da una delle lettere del genio inglese Sydney Smith, datato 1807:
A Bath è scoppiato un tremendo dibattito: per dolcificare il tè sono meglio le zollette di zucchero o lo zucchero a velo? Così le peggiori pulsioni dell’animo umano si sono scatenate e hanno dato vita alle due correnti degli “zollettisti” e dei “velisti”.
Ci fu chi si interrogò forse per capriccio sulle eventuali differenze tra queste due bevande. Nel 1771, in Svezia, il re Gustavo III volle verificare scientificamente se il caffè giovasse o meno alla salute. Per far ciò, si servì di due gemelli detenuti nelle carceri svedesi per omicidio. Dopo avergli commutato la pena di morte in ergastolo, impose loro la consumazione di tre tazze di caffè al giorno per uno e di tre tazze di tè l’altro. Pare che invecchiò meglio il gemello che fu costretto a bere tè, il quale si spense ad 83 anni.
La somiglianza diventa singolare perché entrambi si prestano a sperimentazioni e speculazioni più che azzardate: il caffè Kopi Luwak, fatto con gli escrementi del Musang, un gatto scoiattolo, noto come la civetta delle palme, che vive in Asia: la bestiola si nutre dei chicchi di caffè e li espelle, sotto forma di feci, dopo averli digerite. Una volta sterilizzati e lavati, i chicchi vengono lavorati per ottenere un caffè dal costo di 133 dollari all’etto. In Cina stanno studiando un metodo simile per ottenere il tè a partire dagli escrementi del panda. L’idea arriva dagli studi di An Yashi, docente ed esperto di natura dell’università di Sinchuan che ha creato un insolito tè: secondo il docente il panda ha un sistema digestivo che non assorbe tutto ciò di cui si nutre e i suoi escrementi conservano molte sostanze nutritive che poi vengono usate per il tè. Il tutto per circa 58mila euro al chilo.Uniti, nella buona e nella cattiva sorte[2].
Il racconto che dà il nome alla raccolta è veramente simpatico e divertente e coglie l’occasione per contrapporre il pragmatismo incrollabile degli americani al mondo fatto di superstizioni e complicazioni inutili degli inglesi, ancora legati a condizionamenti ancestrali.
In questa storia in particolare sono stati sfoderati tutti i cliché del genere gotico e dei racconti di fantasmi per ridicolizzarli, smontarli e metterli alla berlina da parte del realismo materialista made in USA.
Il fantasma di Canterville è indubbiamente il più famoso e a ragione e presenta una parodia distruttiva di tutto l’apparato e la tradizione gotica.
Gli altri tre racconti investono ugualmente la sfera del soprannaturale con sguardo sardonico e cinico di scarsa pietà per i creduloni come Lord Arthur che in Il delitto di Lord Arthur Savile, si fa abbindolare da un chiromante e dalla sua profezia.
Il milionario modello. Attestato di ammirazione sfrutta un modulo tipico della fiaba secondo cui un atto di bontà altruista e disinteressata viene inaspettatamente, e inspiegabilmente, ricompensato. Infatti, in uno slancio di filantropia, un giovane squattrinato regala una sovrana a un vecchio mendicante che si rivela essere un eccentrico miliardario ricevendo in cambio un finale piuttosto scontato e da “tutti vissero felici e contenti”.
Infine, La sfinge senza segreti ripropone ancora una volta il grande pericolo a cui espone l’autosuggestione: una vedova affascinante quanto enigmatica, finirà vittima della sua passione per il mistero coinvolgendo anche il suo ammiratore.
Wilde è in grande forma e produce la sua prosa migliore dando fondo a tutta la sua ironia divertente e divertita.
Mary Bennet è un personaggio alquanto particolare. Non vengono spese troppe parole per descriverla e sembra non godere di una grande considerazione da parte dell’Autrice.
Sin dall’inizio però, si distingue tra le generiche cinque figlie di Mrs Bennet e a presentarla sono le beffarde parole di Mr Bennet che la interpella chiedendole un parere esperto in quanto persona dedita a profonde riflessioni perché legge dei libri voluminosi.
Che ne dici, Mary? Visto che, lo so, sei una signorina dedita a profonde riflessioni, leggi libroni e prendi appunti.”
Mary voleva dire qualcosa di saggio, ma non sapeva come farlo.
“Mentre Mary riordina le idee”, proseguì lui, “torniamo a Mr. Bingley.” (cap. 1)
Poiché Mary non è né pronta né reattiva alla provocazione del padre, ma anzi non solo indugia ma entra anche in confusione, il lettore ricava subito un’impressione negativa di lei, di signorina sapientona e noiosa (e sicuramente non brillante) e quando la madre riferisce il successo ottenuto dalle figlie al primo ricevimento, la lode che la stigmatizza è proprio quella di essere la ragazza più istruita del vicinato. Dal suo punto di vista non può ricevere complimento più grande.
Jane ne era stata contenta quanto la madre, anche se in maniera più tranquilla. Elizabeth condivideva la soddisfazione della sorella. Mary si era sentita menzionare a Miss Bingley come la ragazza più istruita del vicinato, e Catherine e Lydia erano state così fortunate da non essere mai rimaste senza cavalieri, il che era tutto ciò a cui tenevano in un ballo. Tornarono quindi di ottimo umore a Longbourn, il villaggio dove vivevano, e del quale erano gli abitanti più in vista. (cap. 3)
Mi sembra di cogliere una leggera nota di ironia nel conferire il primato della ragazza più istruita del vicinato a Mary caratterizzato da alcuna accezione positiva.
Soprattutto se si considera che poco più avanti si aggiunge che l’istruzione di Mary è stata ricercata per compensare le sue scarse doti fisiche:
…Mary, che, essendo l’unica della famiglia a essere bruttina, si era dedicata assiduamente alla cultura e all’istruzione ed era sempre impaziente di dimostrarlo. (cap. 3)
Quindi non solo Mary non è una persona brillante ma è proprio convinta (diremmo oggi) e non potendo fare sfoggio di alcuna qualità estetica, si ripromette di mettere in mostra le altre sue competenze scolastiche.
Mary non aveva né genio né gusto, e sebbene la vanità l’avesse fornita di determinazione, l’aveva anche fornita di un’aria pedante e di un modo di fare presuntuoso, che avrebbe oscurato anche un’eccellenza molto maggiore di quella di cui era dotata lei. Elizabeth, disinvolta e spontanea, era stata ascoltata con molto più piacere, sebbene non suonasse così bene, e Mary, alla fine di un lungo concerto, fu lieta di procurarsi elogi e gratitudine con delle arie scozzesi e irlandesi richieste dalle sorelle minori, che, insieme ad alcune delle Lucas e a due o tre ufficiali, si erano riunite all’estremità della sala impazienti di ballare. (cap 6)
Nel giro di poche righe vengono messe a confronto due tipi di personalità: quella costruita, infarcita di nozioni e quindi pesante e bigotta e quella lasciata libera, più verace e seppure priva di eccellenze, apprezzabile e gradevole.
E il confronto continua a distanza mentre vediamo Elizabeth reagire sempre con la risposta pronta e un sorriso alle provocazioni subite da Mr Darcy nel corso dei primi capitoli, mentre Mary pronuncia le sue sentenze ammorbanti che invece di essere perle di saggezza, hanno tanto il sapore di piccoli sermoni.
Spegne ogni entusiasmo allo slancio fraterno di Lizzie di andare a trovare Jane che si trova malata a Netherfield:
“Ammiro la prontezza della tua generosità,” osservò Mary, “ma ogni impulso del sentimento dovrebbe essere guidato dalla ragione, e, secondo me, lo sforzo dovrebbe sempre essere proporzionato allo scopo.” (cap. 7)
In un’occasione Mary sembra essere a fuoco e cioè quando dà prova di aver centrato l’argomento esprimendosi a proposito dell’orgoglio di Mr Darcy:
“L’orgoglio”, osservò Mary, che ci teneva alla solidità delle sue riflessioni, “credo sia un difetto molto comune. Da tutto ciò che ho sempre letto, mi sono convinta che sia davvero molto comune, che la natura umana vi sia particolarmente propensa, e che siano molto pochi quelli che non provano sentimenti di auto-compiacimento per questa o quella delle loro doti, reali o immaginarie. La vanità e l’orgoglio sono cose diverse, anche se le parole sono spesso usate come sinonimi. Una persona può essere orgogliosa senza essere vanitosa. L’orgoglio appartiene più all’opinione che abbiamo di noi stessi, la vanità a quello che vorremmo che gli altri pensassero di noi.” (cap 5)
Mary quindi non rifulge quindi per simpatia né per intelligenza.
E la sua prima impressione indigesta non è scusabile nemmeno con la modestia, perché non è nemmeno riservata né timida.
Mi domando allora perché Jane Austen abbia voluto creare un siffatto personaggio e se la sua funzione sia stata solo di mettere in risalto quello di Elizabeth.
Forse Mary rappresenta il modello di quelle signorine ben istruite che la società proponeva ma che di fatto risultavano di nessuna compagnia e gradimento quando si trattava di stare in società.
Chissà se Mary è stata ispirata da qualche conoscente della famiglia Austen capitato in visita nel salottino della canonica di Steventon?
Sinceramente Mary Bennet che non ha mai attirato la mia attenzione o il mio interesse prima d’ora, prima cioè di riflettere su alcuni sequel ispirati a Orgoglio e Pregiudizio che hanno scelto di sviluppare proprio il suo personaggio.
Andando a rileggere i passi in cui la penna dell’autrice le dedica un po’ di considerazione, trovo molto difficile ammettere la possibilità che un personaggio simile possa avere un’evoluzione al di là del ruolo originariamente assegnatole. Soprattutto un’evoluzione in senso positivo giacché non ci sono appigli in quella direzione nella sua delineazione.
A questo Mary replicò con molta gravità, “Lungi da me, mia cara sorella, sottovalutare piaceri del genere. Senza dubbio sono congeniali alla maggior parte delle menti femminili. Ma confesso che per me non hanno alcun fascino. Preferisco infinitamente un libro.” (cap 39)
Mary è costantemente impegnata nello studio, uno studio tutto sommato anche inconcludente se è vero che spazia dal generico al particolare senza alcun criterio, almeno apparentemente, logico.
Trovarono Mary, come al solito, immersa nello studio del basso continuo e della natura umana ed ebbero qualche nuovo brano scelto da ammirare e qualche nuova osservazione di trita moralità da ascoltare. (cap 12)
Per il resto Mary non c’è, è di sopra con i suoi libri e il suo strumento, ci viene detto nel cap. 55:
Dopo il tè, Mr. Bennet si ritirò in biblioteca, com’era suo solito, e Mary salì al piano di sopra dal suo strumento. Essendo così rimossi due ostacoli.
Ed è sempre impegnata con essi dato che non ha mai tempo da perdere nemmeno per una passeggiata:
Bingley, che voleva restare solo con Jane, propose a tutti di fare una passeggiata. Si misero d’accordo. Mrs. Bennet non aveva l’abitudine di camminare, Mary non aveva mai tempo da perdere, ma i rimanenti cinque uscirono insieme. (cap. 58)
Ma poi chi l’ha detto che Mary non vuole sposarsi come tutte le altre ragazze sue coetanee, in età da marito?
Che Mary sia così diversa dalle altre ragazze e che le sue velleità non siano matrimoniali ma di autonomia e indipendenza, appare una conclusione vieppiù azzardata.
Lo si intuisce quando appare un possibile pretendente. Il cugino Mr Collins ha deciso di scegliere una delle sorelle Bennet perché Longburn House rimanga in famiglia.
Dalla supponente recensione formulata sulla lettera di Mr Collins lei non si smentisce ma si intravvedere un barlume di interesse che ha rivolto a quest’ultimo:
“Dal punto di vista dello stile”, disse Mary, “la lettera non sembra scritta male. Forse l’idea del ramoscello d’olivo non è molto originale, ma credo sia ben espressa.” (cap 13)
I suoi giudizi dimostrano che Mary non è un ingegno acuto ma la sua esperienza si basa soltanto su ciò che ha letto sui libri ricorrendo a frasi fatte e prese in prestito da essi.
In sala da pranzo furono presto raggiunti da Mary e Kitty, che erano state troppo occupate nelle rispettive stanze per farsi vedere prima. Una veniva dai suoi libri, l’altra dalla sua toletta. I volti di tutte e due erano discretamente tranquilli, e non sembrava ci fosse stato nessun cambiamento in loro, salvo il fatto che la perdita della sorella prediletta, o la collera che provava per quella faccenda, avevano reso il modo di parlare di Kitty più stizzito del solito. Quanto a Mary, era abbastanza padrona di sé per sussurrare a Elizabeth con un’espressione di solenne riflessione, subito dopo che si erano sedute a tavola,
“È una faccenda molto deplorevole, e probabilmente se ne parlerà parecchio. Ma dobbiamo arginare la marea delle malignità, e versare nei cuori feriti di tutte noi il balsamo del conforto tra sorelle.”
Poi, rendendosi conto che Elizabeth non aveva nessuna intenzione di rispondere, aggiunse, “Per quanto infelice sia questo evento per Lydia, possiamo trarne un’utile lezione; che in una donna la perdita della virtù è irreparabile, che un passo falso la conduce alla rovina eterna, che la sua reputazione non è meno fragile della sua bellezza, e che la cautela non sarà mai troppa nel modo di comportarsi verso l’indegnità dell’altro sesso.”
Elizabeth alzò gli occhi al cielo stupefatta, ma era troppo angustiata per replicare. Mary, tuttavia, continuò a consolarsi dal male che dovevano fronteggiare con massime morali di quel genere.
Stranamente non interviene quando Mr Collins legge a voce alta i sermoni di Fordyce e le sorelle chiacchierano d’altro e ridono.
Ma quel genere di libro menzionato starebbe benissimo tra le letture di Mary e questa implicita somiglianza potrebbe favorire un accostamento tra loro.
Addirittura si paventa una possibile unione tra Mary e Mr Collins che getta ulteriore discredito su Mary: Mrs Bennet vuole combinare l’affare ma Mary non ne è completamente estranea.
Mrs. Bennet accarezzò il desiderio che volesse rivolgere le sue attenzioni e una delle figlie minori, e Mary poteva essere indotta ad accettarle. Tra tutte, era quella che aveva il più alto grado di stima verso le qualità del cugino; era rimasta spesso colpita dalla solidità delle sue riflessioni, e sebbene non lo considerasse certo intelligente quanto lei, riteneva che se incoraggiato a leggere e a migliorarsi da un esempio come quello che poteva dargli lei, avrebbe potuto diventare un compagno piacevole. Ma il mattino successivo ogni speranza di questo genere svanì. (cap. 22)
Ma allora questo sta a dimostrare che per quanto Mary si applichi allo studio dei libri, della musica, etc, il suo scopo fondamentale non è né più né meno quello delle altre sorelle e cioè accaparrarsi un marito e sistemarsi con il matrimonio.
Solo che con strumenti diversi: c’è chi flirta con gli ufficiali, chi sfodera le massime di Fordyce. A ciascuno il suo.
Nell’accostarla a Mr Collins, come eventuale non tanto destinataria, quanto disponibile alla sua proposta di nozze, Jane Austen ne completa la figura di un pastore in gonnella, se non fossero bastate le sue considerazioni moraleggianti con le quali appare all’improvviso a compiere i suoi interventi saccenti.
E se il ballo è la principale occasione di mercato matrimoniale, a Mary non è dato sfuggire nemmeno a questa vetrina mettendosi in mostra.
La sua scena principale è quella dell’esibizione durante il ballo a Netherfield:
Ma l’intervallo di tranquillità non durò a lungo, poiché, una volta finita la cena, si cominciò a parlare di canto, e lei ebbe la mortificazione di vedere Mary, a seguito di preghiere molto limitate, prepararsi a intrattenere la compagnia. Con molti sguardi significativi e mute preghiere cercò di impedire una tale prova di cortesia, ma invano; Mary non volle capire; una tale opportunità di esibirsi per lei era una delizia, e iniziò a cantare. Lo sguardo di Elizabeth restò fisso su di lei con le più penose sensazioni, e seguì il suo procedere attraverso le varie strofe con un’impazienza che fu molto mal ripagata dalla conclusione, visto che Mary, avendo ricevuto, tra i ringraziamenti della tavolata, un accenno alla speranza che potesse essere persuasa a concedere di nuovo il suo favore, dopo una pausa di nemmeno mezzo minuto ricominciò. Le capacità di Mary erano assolutamente inadatte a un’esibizione del genere; aveva una voce debole e modi affettati. Per Elizabeth era un supplizio. Guardò Jane, per vedere come stesse reagendo; ma Jane stava tranquillamente chiacchierando con Bingley. Guardò le due sorelle di lui, e vide che si scambiavano segni di derisione tra di loro e verso Darcy, che tuttavia continuava a restare impenetrabilmente serio. Guardò il padre per implorare il suo intervento, temendo che Mary continuasse per tutta la sera. Lui colse l’accenno, e quando Mary ebbe terminato il secondo brano, disse ad alta voce,
“È stato molto bello, bambina mia. Ci hai deliziati abbastanza. Lascia che si esibiscano le altre signorine.”
Mary, sebbene avesse fatto finta di non sentire, rimase alquanto sconcertata, ed Elizabeth, dispiaciuta per lei, e dispiaciuta per le parole del padre, temette che la sua ansia non avesse portato a nulla di buono. Ora toccava a qualcun altro. (cap 18)
Purtroppo la scena è vista con gli occhi e l’imbarazzo di Elizabeth che realizza l’inadeguatezza dei suoi familiari all’opera, ma sono sicura che Mary sia tuttora convinta di aver fatto una bellissima figura. Sta di fatto che con la sua esecuzione non ha sedotto o incantato nessuno dei presenti.
La ritroviamo nel capitolo finale, quando è l’unica figlia a rimanere in casa dato che Kitty è spesso invitata a casa delle sorelle maggiori sposate per beneficiare della frequentazione di una compagnia superiore a quella cui era abituata.
Non Mary. Pare che Mary non venga invitata, nonostante avesse fatto formale richiesta di attingere alla biblioteca di Netherfield (e badate bene, non a Pemberly!) all’annuncio del fidanzamento tra Jane e Mr Bingley.
Mary fece formale istanza per usare la biblioteca di Netherfield; e Kitty chiese con grande energia qualche ballo ogni inverno. (cap 55)
Solo a questo punto si intravede una flebile speranza di cambiamento in Mary: quando, rimasta l’unica figlia su cui Mrs Bennet può contare, deve per forza aprirsi alla vita sociale e alla frequentazione del vicinato sacrificando lo studio:
Mary fu l’unica figlia a rimanere in casa, e fu necessariamente distratta dal perseguire i propri talenti dall’assoluta incapacità di Mrs. Bennet di restare da sola. Mary fu costretta a frequentare di più gli altri, ma poté ancora esercitare le sue doti di moralista in ogni visita quotidiana; e, visto che non era più umiliata dal paragone tra la bellezza delle sorelle e la sua, il padre intuì che si era sottomessa al cambiamento senza troppa riluttanza.
Dobbiamo allora concludere che tutta l’acidità di Mary era dovuta a un suo presunto complesso di inferiorità rispetto alle altre sorelle?
Sono sicura che Mrs Bennet, da madre premurosa e attenta qual è, non abbia mancato una sola volta di sottolinearlo con tatto.
Per le citazioni tratte da Orgoglio e Pregiudizio ho attinto al sito di Giuseppe Ierolli, jausten.it.