You love the roses – so do I. I wish The sky would rain down roses, as they rain From off the shaken bush. Why will it not? Then all the valley would be pink and white And soft to tread on. They would fall as light As feathers, smelling sweet; and it would be Like sleeping and like waking, all at once!
Universalmente note per i loro romanzi, le sorelle Brontë ci hanno lasciato anche indimenticabili poesie, che pubblicarono in parte nel 1846 ricorrendo agli pseudonimi maschili di Acton, Currer ed Ellis Bell. Versi in cui rivive tutto il fascino della natura selvaggia delle brughiere dello Yorkshire, le sue distese d’erica, roccia e foschia. Tra incanto e disperazione le tre scrittrici raggiungono vertici di acceso lirismo, di profonda e intensa armonia. Tradotti in modo suggestivo e musicale, riecheggiano in questi componimenti limpidi, sentimentali e cristallini i temi più significativi del grande romanticismo: la nostalgia metafisica, la morte, vissuta a volte come gelida compagna e a volte come consolante promessa, la solitudine dell’artista come sofferta terapia esistenziale, indispensabile per giungere alle vette supreme dell’Essere e della Bellezza.
Recensione:
Bellissima edizione, non solo tradotta ma curata, commentata, “assistita” da note interessanti e approfondite.
Le tre sorelle hanno uno stile poetico molto diverso ma le accomuna la stessa quota autobiografica inserita nei rispettivi componimenti.
Anche quando sembrano seguire il ciclo di Angria o di Gondal, la loro voce irrompe prepotentemente tra i versi, nella loro aggettivamente evocativa, nel tono malinconico o appassionato.
La poesia di Anne è essenziale e chiara, illuminata dalla sicurezza della sua incrollabile fede religiosa.
Lascia che del mio cuore dal profondo
Io Ti serva, qualunque sia il mio fato,
sia ch’io debba lasciare presto il mondo
o d’aspettare mi sia comandato.
L’assonanza non aiuta anzi accresce l’impressione didascalica
Quando vago il crepuscolo svaniva
Nel brumo cielo trapunto di stelle
L’usignolo pensoso s’esibiva
Con le sue dolci melodie più belle
Charlotte è estremamente precisa, controllata dalla Ragione anche in questo atto creativo piuttosto intimistico; risulta piuttosto assertiva e decisa.
Credetemi la vita non è un sogno
Oscuro, come i saggi amano dire; di piogge mattutine c’è bisogno
Spesso perché sia il giorno luminoso.
Componimenti come Il maestro e allieva, il canto di Rochester a Jane Eyre, creano una fluttuante compenetrazione tra vita e arte, tra la componente biografica e la trasposizione letteraria.
Io meditai, vegliai, studiai, ma invano: e tra la folla, senza identità,
mi sentivo dagli altri assai lontano: erano solo forme, di strana qualità.
Ma riconobbi i Grandi, e quella luce
Che alla vera ricchezza ci conduce:
mi conquistò la loro nobiltà.
Se prima poteva esserci il dubbio di un esercizio stilistico, con la sezione dedicata a Emily si entra nella vera poesia.
Le poesie di Emily sono forti, immaginifiche, potenti.
Sedendo solitaria alla finestra
Mentre la sera silenziosa fuggiva
Il soffio presago del vento percorreva
Il cielo grigio di nubi.
I toni lirici e quelli epici si confondono senza interruzione. Permeate dal paesaggio circostanze, sono scandite dal ritmo delle stagioni che si ripresentano mai uguali, in visioni mai banali.
Il sole della sera in limpido splendore
Aveva lasciato il sacro cielo estivo
E le ombre del tramonto si facevano cupe
E le stelle si accendevano nell’azzurro profondo
E tra l’erica sulle montagne lontane
Da sguardi umani e da umane cure
Con il cuore pensoso e gli occhi dolenti
Guardavo tristemente quel cielo solenne.
Alcuni temi sono riproposti da tutte e tre ma rielaborate da ciascuna in modo assolutamente personale, spunti di riflessione verosimilmente tratti dai sermoni del rev. Bronte e interiorizzati diversamente. L’imperioso monito tempus fugit assume
John Keats nacque a Londra il 31 ottobre 1795. Il padre Thomas, nativo delle regioni dell’ovest, lavorava come garzone di scuderia presso John Jennings, proprietario della Swan and Hoop Inn (la Taverna del Cigno e del Cerchio), a Moorgate di cui sposò la figlia Frances, e prese il posto negli affari.
John fu il primo di cinque figli: suoi fratelli erano George (1797–1841), Thomas (1799–1818), Frances Mary “Fanny” (1803–1889), e un quarto del quale non si conosce l’identità, poiché morto giovanissimo.
Di lui si disse in seguito che avesse ereditato dalla madre il bel viso, e dal padre la bassa statura, gli occhi castani e l’onestà.
Quando i genitori (che, essendo d’estrazione piuttosto modesta, non avevano le finanze per educarlo nei prestigiosi college di Eton o Harrow) nell’estate del 1803 lo mandarono alla scuola privata del reverendo John Clarke, John iniziò una salda e duratura amicizia con il figlio di questi, Charles Cowden Clarke, un giovane di buona cultura e dal contagioso entusiasmo per la poesia.
La tranquillità di questi anni, tuttavia, iniziò ad incrinarsi, allorché Keats fu colpito da una serie di gravi disgrazie. Il 16 aprile 1804, quando Keats non aveva ancora nove anni, gli morì il padre per via d’un trauma cranico a seguito di una caduta da cavallo, e nel marzo del 1810 perse anche la madre, malata di tubercolosi. I giovani fratelli Keats vennero affidati alla nonna materna, la quale, però, non potendosene prendere cura, fece nominare due tutori: Richard Abbey e John Sandell per volontà dei quali, nell’autunno 1810, John dovette lasciare la scuola del reverendo Clarke per andare a studiare e lavorare come apprendista presso Thomas Hammond, farmacista e chirurgo di Edmonton, nel nord di Londra, nonché vicino di casa e medico della famiglia Jennings.
John aveva un carattere emotivo e rissoso da piccolo, e malinconico da grande: non si fa fatica a spiegarselo guardando le prove e i lutti che ha dovuto superare; anche il fratello Tom, a cui era molto affezionato da piccolo, si ammalò e morì di tubercolosi.
Alla morte del fratello Tom, avvenuta il 1º dicembre 1818, Keats si trasferì dall’amico Charles Armitage Brown in un appartato e silenzioso angolo di Londra, a Wentworth Place, Hampstead
.
L’inverno 1818–19 fu assai prolifico, in quanto produsse a ritmo incalzante gran parte dei suoi componimenti più significativi: anzitutto il suo primo libro di poesie, dal titolo Poems, del quale il componimento Sleep and Poetry rappresenta il contributo più notevole; poi, il poema Endymion, scritto nel 1817 e pubblicato l’anno successivo, dove sotto l’allegoria della vicenda ellenica di Endimione, viene dimostrata l’unicità della bellezza che si rivela in tutte le attività umane.
A Wentworth Place Keats conobbe, tra il settembre e l’ottobre del 1818, Fanny Brawne, che era ospitata insieme alla madre dai Brown: la simpatia si trasformò ben presto in intimità. Ciò nonostante i due non si unirono in matrimonio, a causa delle condizioni economiche poco agiate del poeta e delle sue condizioni di salute assai precarie.
Il fidanzamento venne alla luce solo nel 1878, dopo la pubblicazione di alcune lettere di Fanny a sua sorella.
Sin dagli inizi del 1818, infatti, Keats era travagliato da una lenta consunzione, che lo spinse – su suggerimento dei medici – a trasferirsi a Roma col suo amico Joseph Severn, sperando che un clima più caldo potesse giovargli: non farà mai più ritorno in Inghilterra.
Fu però fermato al porto di Napoli e sottoposto a quarantena per una sospetta epidemia di colera scoppiata a Londra e arrivò a Roma solo a novembre.
Qui si stabilì al n. 26 di Piazza di Spagna dove divise bollette e amore tebano con Shelley.
Un giorno, mentre stava discorrendo di alcuni amici in biblioteca, durante una serata tranquilla, iniziò a tossire sangue e anche se le sue competenze non erano mediche ma di farmacista, capì che non sarebbe più tornato in Inghilterra.
Infatti riposa al cimitero acattolico di Roma dove morì il 23 febbraio 1821.
Mi hanno colpito subito queste parole che introiettano immediatamente nel mondo incantato di Emily Dickinson in cui Sara Staffolani ci conduce delicatamente per mano.
Raramente mi è capitato di leggere una biografia così partecipata e sentita. L’affinità tra l’autrice e il soggetto del suo racconto è immediata e palpabile.
Sara Staffolani ci fa entrare nella dimensione più esclusiva e privata di Emily e ci svela i tanti mondi a cui si apre la sua complessa. Una persona anticonvenzionale, particolare, speciale, ma che comunque sfugge a qualsiasi etichetta che la possa definire e comprendere tutta.
Una vita tutto sommato ordinaria, ma vissuta intensamente e analizzandone ogni impercettibile moto sia dell’animo che del mondo esterno. Il volo di un’ape e l’anima che si chiude come una pietra sono registrati con la stessa precisione tachigrafica.
La Mia Vita era stata – Un Fucile Carico
Si parla sempre della solitudine di Emily Dickinson ma in verità essa è costellata di tante figure familiari e amiche che hanno intessuto attorni a lei legami forti, rapporti totalizzanti, affetti tanto teneri quanto soggetti a repentini capovolgimenti, dolorosi lutti e lacerazioni.
Ognuno che perdiamo prende una parte di noi;
Uno spicchio alla fine rimane
Che come la luna, una torbida notte,
E’ chiamato dalle maree
Un personaggio misterioso rimane Emily la poetessa, ancor più della consorella Emily Bronte, le cui insondabili analogie non sfuggivano per prima a lei.
L’uso della parola, magnetico, plastico, simbolico e volutamente criptico, ha assolto perfettamente ai suoi piani e scopi.
Enigmatica, vestale della Poesia e del focolare domestico, lei che sin dall’inizio si oppose al destino “domestico” previsto per il suo sesso.
Aver cosparso il cammino della sua vita di questi adamantini foglietti bianchi cui erano affidati i suoi versi, è stato come lasciare innumerevoli attestazioni di sé accampando sul mondo terreno il suo fermo desiderio di Eternità.
Se potrò impedire
A un cuore di spezzarsi
Non avrò vissuto invano
Se allevierò il dolore di una vita
O guarirò una pena
O aiuterò un pettirosso caduto
A rientrare nel nido
Non avrò vissuto invano #emilydickinson
Se non avessi visto il sole avrei sopportato l’ombra ma la luce ha reso il mio deserto ancora più selvaggio
La solitudine e la purezza ricercate come condizioni di vita per cui viene ricordata contrastano solo apparentemente con la durezza delle sue poesie. Nei suoi componimenti, che sappiamo essere stati scoperti alla sua morte, la parola viene sapientemente dosata e usata nella sua realtà plastica e materiale da cui i concetti e gli stati d’animo traggono sostanza e valenza universale.
Scriveva in una delle sue lettere:
Potrà immaginarmi – senza un ritratto? Non ne ho ora, ma sono piccola come uno Scricciolo, e ho i Capelli ribelli, come il Riccio della Castagna – e gli occhi come il fondo dello Sherry che l’Ospite lascia nel Bicchiere – Può andare così?
In attesa di leggere la biografia firmata da Sara Staffolani, Le colline, il tramonto e un cane, non ne esprime la complessa personalità il biopic A Quiet Passion che ne riduce i dissidi interiori a una questione di coscienza.
Non del tutto convincente risulta anche il tentativo di farne una serie tv di e per teenager americani decontestualizzando la verità storico biografica con un’affascinante operazione di mash-up spazio-temporale.
Poiché non potevo fermarmi per la Morte –
Lei gentilmente si fermò per me –
La Carrozza non portava che Noi Due –
E l’Immortalità –
Procedemmo lentamente – non aveva fretta
Ed io avevo messo via
Il mio lavoro e il mio tempo libero anche,
Per la Sua Cortesia –
Oltrepassammo la Scuola, dove i Bambini si battevano
Nell’Intervallo – in Cerchio –
Oltrepassammo Campi di Grano che ci Fissava –
Oltrepassammo il Sole Calante –
O piuttosto – Lui oltrepassò Noi –
La Rugiada si posò rabbrividente e Gelida –
Perché solo di Garza, la mia Veste –
La mia Stola – solo Tulle –
Sostammo davanti a una Casa che sembrava
Un Rigonfiamento del Terreno –
Il Tetto era a malapena visibile –
Il Cornicione – nel Terreno –
Da allora – sono Secoli – eppure
Li avverto più brevi del Giorno
In cui da subito intuii che le Teste dei Cavalli
Andavano verso l’Eternità –
L’ossessione della morte appartiene al poeta per definizione. Tanto quanto l’amore. In Emily Dickinson la sublimazione passa per il processo creativo che coinvolge l’intero suo essere.
Buon compleanno, Emily!
“Che sia l’amore tutto ciò che esiste È ciò che noi sappiamo dell’amore; E può bastare che il suo peso sia Uguale al solco che lascia nel cuore”
Una lettura istruttiva e affascinante, dal titolo evocativo, quella in cui mi conduce Carmela Giustiniani, la cui scrittura sa spiegare ed entusiasmare allo stesso tempo, con semplicità ed efficacia convincenti.
La vita di Elizabeth Barrett Browning (1806-1861) è una vita appassionata e appassionante, a cui non si può restare indifferenti ma anzi guardare con grande partecipazione emotiva.
Vivere di e con la poesia è una scelta che colpisce comunque, tanto più quando appartiene a una giovane ragazza che ha tutte le circostanze contro: di età, genere, epoca, estrazione sociale. Dalla sua, solo una determinata sensibilità e intelligenza che costituiscono la sua forza straordinaria nel mostrarle sempre la via giusta.
Minata nel fisico, indomita nello spirito, Elizabeth riesce a mettere in pratica il suo ideale di vita e a tradurre in realtà le sue visioni; sentì fin da subito quanto la forza della sua immaginazione fosse potente per controllarla e che l’ambizioso scopo della sua vita fosse fare qualcosa di importante.
Leggere è parte della mia vita e soffro orribilmente quando non leggo – l’anima divora se stessa.
Nella sua solitaria esistenza condotta in una torre d’avorio cesellata di letture e versi ricamati, irrompe con la sconvolgente urgenza di un anelito da sempre nutrito, il poeta Robert Browning che da valente cavaliere espugna quella stanza all’ultimo piano in cui la principessa si nasconde nell’oscurità. Da questo incontro organizzato dal destino e suggellato da profonde e definitive dichiarazioni d’amore, scaturisce una delle più belle storie romantiche di tutti i tempi.
“Mi avete toccata più nel profondo di quanto pensassi che perfino voi poteste. D’ora innanzi sono vostra per tutto”.
Tra Elizabeth Barrett e Robert Browning si stringe un’unione che travalica le istituzioni sociali: il loro è un esempio di vita intimamente connessa all’arte, connubio d’amore e di poesia, niente di più sublime e vicino alla perfetta felicità raggiungibile da due anime su questa terra.
La biografia edita da flower-ed mi mostra un’Elizabeth Barrett Browning anticonformista per mentalità e per necessità, nemica degli orpelli imposti dall’ipocrisia sociale, paladina del vero e della libertà, unici principi ispiratori della sua condotta.
Il legame con L’Italia, gli anni vissuti in Toscana, la causa dei moti del 1848 sposata con fede veemente, rappresentano un motivo di interesse in più per lei, anche se ad innamorare sono le sue poesie d’amore che parlano direttamente al cuore con un linguaggio universale e senza tempo.
Se devi amarmi, non sia per altro
Che per amore. Non dire:”L’amo
per il sorriso… lo sguardo… per il modo
gentile di parlare… per la mentalità
che si abbina alla mia e che certo un giorno
mi arrecò un senso di dolce sollievo” –
Perché queste cose, mio diletto, potrebbero mutare
per se stesse, o forse per te… e un amore siffatto