Le eroine di Jane Austen non hanno una professione per quanto non siano sempre ricche ereditiere. Anche se non navigano nell’oro e si trovano in ristrettezze economiche (vedi le sorelle Dashwood) quello che la scrittrice non perdona loro è non essere abbastanza accorte da questo punto di vista. Non assegna loro una professione, non le manda nel mondo a guadagnarsi da vivere, Jane, ma non accetta esse siano sconsiderate e imprevidenti per quanto riguarda la fonte del loro mantenimento che sarebbe il matrimonio e quindi la questione della loro sistemazione.
L’unica eroina a non avere problemi economici e a essere padrona di se stessa è:
Emma Woodhouse, bella, intelligente e ricca, con una casa confortevole e un buon carattere, sembrava riunire in sé alcune delle migliori benedizioni dell’esistenza, ed era al mondo da quasi ventun anni con pochissimo ad affliggerla o contrariarla. (Emma, cap. 1,jausten.it, trad. Giuseppe Ierolli).
Proprio nel romanzo Emma si allarga lo sguardo ad altre figure della scala sociale e scartati i Martin perché troppo in basso in quanto agricoltori, temporaneamente considerata Harriet in quanto amica o vittima di Emma, si parla della governante in modi diversi: in termini idealizzati per Miss Taylor che ha vissuto tanti anni accanto alla giovane Emma assumendo le veci della defunta madre:
Per sedici anni Miss Taylor era stata con la famiglia Woodhouse, più come amica che come istitutrice, molto affezionata a entrambe le figlie, ma in particolare a Emma. Tra loro c’era più di un’intimità tra sorelle. Anche prima che Miss Taylor cessasse di ricoprire l’incarico ufficiale di istitutrice, la mitezza del suo carattere non gli aveva permesso di imporre alcuna restrizione, e ora che anche l’ombra dell’autorità era da tempo svanita, vivevano insieme come amiche, amiche con un forte affetto reciproco, ed Emma faceva solo ciò che voleva; aveva un’alta stima del giudizio di Miss Taylor, ma agiva principalmente a modo suo. (Emma, cap. 1,jausten.it, trad. Giuseppe Ierolli.
Diversamente, quando per Jane Fairfax si prospetta la possibilità di andare a fare l’istitutrice in qualche famiglia perbene, questa occupazione viene paragonata alla tratta degli schiavi:
“Scusatemi, signora, ma non è affatto questa la mia intenzione; non mi sto informando, e mi dispiacerebbe se lo facessero i miei amici. Quando avrò deciso il momento in modo definitivo, non ho alcun timore di restare disoccupata. Ci sono posti a Londra, uffici, dove le richieste producono subito qualcosa. Uffici dove è in vendita… non proprio la carne umana… ma l’intelletto umano.”
“Oh! mia cara, carne umana! Mi sbalordite; se è un’allusione alla tratta degli schiavi, vi assicuro che Mr. Suckling è stato sempre un sostenitore dell’abolizionismo.”
“Non intendevo… non stavo pensando alla tratta degli schiavi”, replicò Jane; “la tratta delle istitutrici, ve l’assicuro, è tutto quello che avevo in mente; sicuramente molto diversa, quanto a colpe di coloro che la praticano, ma quanto all’estrema infelicità delle vittime non vedo dove sia la differenza (Emma, cap. 35, jausten.it, trad. Giuseppe Ierolli.)
Sebbene per lei non se ne prospettò mai l’eventualità, anche Jane Austen guardava al mestiere di istitutrice con parecchia diffidenza:
La tua opinione su Miss Allen mi piace più di quanto mi aspettassi, e adesso nutro la speranza che resti un intero anno. – In questo momento immagino che per lei sia difficile, imporre delle regole – poverina! La compatisco, anche se sono le mie nipoti. (lettera 72, jausten.it, trad. Giuseppe Ierolli).
E sapendo quanto si divertisse a giocare e inventare storie per e con i suoi nipoti, c’è da pensare che fosse proprio il ruolo a suscitare questi sentimenti in Jane.
Tutt’altro stato d’animo viene fatto dichiarare da Anne Bronte alla sua Agnes Grey che dopo un rovescio di fortuna del padre per un investimento sbagliato, propone alla sua famiglia di impiegarsi come governante, esperienza descritta come l’inizio di una nuova vita:
Che bello essere una governante! Uscire nel mondo; iniziare una nuova vita; agire per mio conto; esercitare facoltà mai impiegate prima; mettere alla prova capacità sconosciute; guadagnarmi da vivere e anche di più, per dar conforto e aiuto a padre, madre, sorella, oltre a esonerarli dall’onere di sfamarmi e vestirmi; mostrare a papà di cos’era capace la sua piccola Agnes; convincere mamma e Mary che non ero l’inerme sconsiderata creatura che credevano.
E poi che splendida cosa esser responsabili della cura, dell’istruzione di bambini!
Dilettoso compito! Guidare la nascente idea a divenir germoglio! (Edizioni Albatros, Roma 1989, p. 11).
Le rosee aspettative della giovane Agnes si dovranno scontrare presto con la solitudine, la freddezza, la pesantezza del lavoro e l’iniziale entusiasmo si raffredderà presto, facendole considerare con maggior piacere le attenzioni del curato Weston.
Anche per le sorelle Bronte, costrette presto a fare di necessità virtù, il mestiere della governante era un passaggio purgatoriale da dover affrontare prima di giungere alle gioie del paradiso: e la meta poteva essere rappresentata non solo dal matrimonio, ma anche dalla possibilità di riuscire ad aprire una scuola tutta loro, di cui essere insegnanti e direttrici. Questo sogno percorre tutto l’epistolario di Charlotte, che se ne fa voce e artefice, e con armi e bagagli si imbarca nella ardimentosa avventura di andare a Bruxelles a imparare il francese per poterlo poi insegnare. Emily che l’accompagnava, sappiamo, resisterà poco ma l’altra, tenace, porterà a termine almeno questa parte del suo progetto, anche grazie alla piccola eredità della zia. La vicenda viene trasposta in Villette (prima ancora in The Professor) e Lucy Snowe incarna l’alter-ego della scrittrice che si trasferisce dall’Inghilterra nella città fittizia ricalcata su Bruxelles, per insegnare in un collegio femminile, dove conosce il professore di letteratura, Monsieur Paul Emanuel, dal carattere deciso e irascibile. Se l’angelo della tempesta non avesse spazzato via la nave di Paul negli abissi dell’oceano, avrebbero potuto coronare il loro duplice sogno di sposarsi e dirigere una scuola insieme.
Nella realtà quindi non c’era sempre il lieto fine e le cose andavano invece molto diversamente; Charlotte sembra saperlo bene quando descrive l’imbarazzo e l’umiliante isolamento in cui viene relegata Jane Eyre costretta ad assistere al ricevimento che si tiene a Thornfield Hall, seduta in un angolo, a farsi oltretutto schermire e criticare: Blance Ingram le lancia più di una frecciata velenosa, ricordando la mezza dozzina di governanti avute da piccola (con scarsi risultati potremmo osservare) e definendole detestabili e ridicole, e la madre di lei la elegge a paradigma di “tutti i difetti della sua classe”. Contro tutte loro Jane potrà proclamare la sua rivincita finale: “Lettore mio, l’ho sposato!”.
Seduta in un angolo Becky Sharp difficilmente sarebbe riuscita a rimanerci più di qualche minuto, per la sua effervescenza innata e la determinazione a farsi largo nella vita: la sua scalata sociale parte proprio dall’unica professione che una buona istruzione e la mancanza di mezzi le possono offrire. Figlia di un pittore e di una ballerina francese, la protagonista de La Fiera della Vanità di Thackeray inizia così il proprio viaggio all’interno degli ambienti aristocratici inglesi. Orfana e senza soldi, Becky viene mandata dalla direttrice della scuola per ragazze di buona famiglia nell’Hampshire, per svolgere la mansione di «istitutrice» delle figlie di Sir Pitt Crawley. E possiamo stare certi che non starà con le mani in mano visto che, senza una madre che lo faccia per lei, Becky deve procurarsi un matrimonio rispettabile da sola.
Del resto dobbiamo convenire che il buon Sir Pitt non sarà Lord Orville di Cecilia, ma non si dimostra particolarmente esigente. Diversamente, lo è il curriculum richiesto a un’istitutrice di tutto rispetto che viene ricapitolato nel romanzo The Governess, del 1840, della contessa di Blessington:
“Deve essere di un aspetto gradevole, di modi raffinati e una perfetta musicista. È tenuta a istruire i suoi alunni in francese, italiano e inglese, la geografia e l’uso dei globi, con musica, disegno e danza; in tutte le sue branche di insegnamento, si suppone che sia una professionista. Equanimità di temperamento e allegria di disposizione, unita a una salute di ferro, sono requisiti indispensabili. Deve inoltre essere capace di tagliare e realizzare i vestiti dei bambini. Stipendio venticinque ghinee all’anno…”.
Sappiamo bene che nell’Ottocento, difficilmente l’istitutrice poteva essere un partito appetibile e il suo destino era incondizionatamente legato alla necessità di procurarsi da vivere, essendo ancora più improbabile ricevere un’insperata eredità. Se non avevi una famiglia benestante a proteggerti o peggio ancora la malattia, la morte, i rovesci finanziari te ne privavano, le cose potevano complicarsi parecchio e insegnare ai bambini, garantendosi un piatto caldo e un tetto sulla testa, non era una prospettiva da disdegnare.
Che poi al di là dell’Oceano, nel cosiddetto Nuovo Mondo, la prospettiva di guadagnarsi da vivere o quella dell’insegnamento non fossero considerate disgrazie ma occasioni positive di realizzazione personale non è stato solo un escamotage narrativo di Louisa May Alcott o Lucy Maud Montgomery.
A parte qualche piccola e comunque sfortunata disavventura, il lavoro per Louisa non è mai disdicevole e accetterà di tutto, anche i mestieri più degradanti, pur di riuscire a mantenere se stessa e a mandare qualcosa anche a casa. Anche Lucy Maud affronterà una seria gavetta prima di diventare una scrittrice di successo ma l’insegnamento è considerato un bene prezioso e un’occasione di crescita sia per chi lo dà sia per chi lo riceve e la sua Anne può essere orgogliosa di dichiarare:
Sono ben felice di essere Anne Shirley, maestra di scuola ad Avonlea (Anne di Avonlea, a cura di Enrico De Luca, edizioni Lettere Animate).