Lady Susan non è mai stata soddisfatta del romanzetto epistolare (parole sue) che una signora, le ha dedicato tanto da decidere di raccontare lei stessa la propria vita. La penna di una vera scrittrice, Helen Bellow, l’aiuterà a dare forma alla sua storia. Mostrerà che non appartiene al mondo dei personaggi minori poiché, nella società classista e maschilista descritta da Jane Austen, passando dai balli della season londinese alla noia della vita in campagna, dai bagni in mare a Greyton agli svaghi di Bath, sarà la protagonista di ogni vicenda. Artefice della propria fortuna, otterrà un titolo, un castello, un patrimonio, un uomo, anzi più di uno, muovendo, come pedine su una scacchiera, fidanzati, mariti e amanti, baroni e baronetti, esquire e ufficiali Sempre con una mossa pronta per superare gli ostacoli e le, inevitabili, sconfitte. Non farà mancare neppure un sorprendente epilogo. “Lady Susan è…tanti sono gli aggettivi con cui potrei definirla e nessuno la racconterebbe fino in fondo. Lascio a voi la scelta” chiosa Helen Bellow nella postfazione al racconto della gentildonna.
Io, Lady Susan
Helen Bellow (Patrizia Lello)
Self – Youcanprint
Niente meno che Lady Susan in persona, la protagonista del romanzo epistolare giovanile di Jane Austen decide di affidare le proprie memoria a una certa miss Bellow incaricandola di scrivere per intero le sue avventure prima, durante e dopo il matrimonio con Lord Vernon. La scrittura di Helen Bellow è davvero perfetta per lo scopo e rende giustizia a quel misto di impunità e di fascino accattivante che sprigiona dalla protagonista.
Lady Susan è cinica e ironica e racconta di sé in modo assolutamente distaccato e imparziale, se non fosse che adotta il suo personalissimo punto di vista e cioè quello di chi deve conquistare benessere e titolo attraverso un marito; se poi quest’ultimo è condiscendente, è meglio. In uno stile che riflette perfettamente il personaggio inventato da Jane Austen, in prima persona, la stessa Lady Susan ripercorre le fasi del nubilato, del matrimonio e della vedovanza che le hanno visto calcare le scene dei migliori salotti della buona società.
La differenza tra intreccio e intrigo è minima.
Questa è la massima che più la rappresenta perché esprime la sua grande capacità di far passare il secondo per il primo e trovare sempre una spiegazione plausibile agli occhi altrui, con nonchalance e faccia tosta.
Considero interessante aver introdotto la figura paterna come mentore e causa ex ante di un’indole così intrigante. Lady Susan non annoia e dimostra di saper fare buon viso a cattivo gioco in tutta la serie interminabile di imprevisti che il destino frappone sul suo cammino, rivelandosi lungimirante fanciulla, scaltra consorte, impietosa matrigna e ingegnosa vedova.
Del resto, il suo mantra è:
Non mentire e non dire tutta la verità.
Ed ella sembra riuscire bene a cavarsela, nonostante tutto non vada sempre secondo i piani. Lady Susan rimane sempre padrona di sé e delle sue alterne vicende.
Oggi ho il piacere di ospitare tra le colonne di questo mio blog l’interessantissimo studio di Sara Grosoli sulla figura paterna nelle opere di Jane Austen.
Lo sguardo lucido e disincantato di Jane Austen non risparmia nemmeno quel totem sociale tradizionalmente rappresentato dalla figura paterna. Tra delusioni, riconciliazioni e tentativi di espiazione, nei suoi romanzi assistiamo alla messa a nudo della debolezza maschile.
La scrittura di Jane Austen si è sempre sottratta a tentazioni agiografiche perché nella sua lucidissima commedia sociale non possono esistere eroi di incorrotta perfezione: tutti i suoi personaggi, senza tralasciare eroine da lei amatissime quali Emma e Elizabeth, vengono presentati agli occhi del lettore con le loro manchevolezze messe in bella evidenza. Forse questo approccio è un riflesso di quello scetticismo empirico che tradizionalmente ha permeato la cultura britannica.
Pur non avendo mai apertamente contestato le regole della società patriarcale in cui viveva, la Austen nei propri romanzi si è permessa un atto di insubordinazione: nemmeno quel pilastro della famiglia e della comunità sociale canonicamente incarnato dalla figura del Padre può rivendicare il privilegio dogmatico dell’infallibilità. Nelle opere della Austen non troviamo quell’aura di affettuosa idealizzazione di cui sono circonfusi i personaggi paterni in certi romanzi di George Eliot (il laborioso Caleb Garth in Middlemarch, il reverendo Rufus Lyon in Felix Holt, the Radical, l’eroe eponimo in Silas Marner) e di Elizabeth Gaskell (il carismatico Ebenezer Holman in La cugina Phillis).
I padri austeniani sono figure imperfette: vedovi o sposati con donne a loro mentalmente inferiori, inetti o spietatamente egoisti, non sono in grado di accompagnare le figlie nel loro percorso di crescita e di scoperta del mondo.
Ne L’abbazia di Northanger il generale Tilney tiene con i propri familiari un comportamento così tirannico che la giovane Catherine Morland, da lui concupita esclusivamente per motivi economici come potenziale sposa per il figlio, inizia a sospettare che egli si sia addirittura macchiato di uxoricidio; la gretta avidità di questo despota domestico lo spingerà a violare le più elementari regole di cortesia cacciando di casa l’incolpevole Catherine dopo essersi accorto che la ragazza non è quella ricca ereditiera che egli pensava che fosse. Dato che alla fine la vicenda amorosa si conclude positivamente nonostante e forse anche grazie all’opposizione del generale, l’autrice ipotizza con ironia che non sempre la tirannia paterna viene per nuocere.
Mr Woodhouse, ipocondriaco e ansioso, dipende dalla figlia Emma come se fosse un bambino; la costante preoccupazione per il benessere del padre condizionerà inevitabilmente le scelte di vita compiute dalla figlia. Quando Emma decide di sposare il maturo e protettivo Mr Knightley, suo padre ha il terrore di venire abbandonato:
“[…] Però seguitava a non essere felice. Anzi, pareva tanto l’opposto, che alla figlia venne meno il coraggio. Non poteva tollerare di vederlo soffrire, di sapere che egli s’immaginava di essere trascurato; e sebbene il suo intelletto quasi si lasciasse convincere dai due Knightley che, una volta avvenuto il matrimonio, l’infelicità del padre sarebbe presto passata, essa esitava; non poteva spingere la cosa innanzi.”1
Solo in virtù della pazienza di Mr Knightley e di un fortunato gioco di circostanze i due fidanzati riusciranno a convolare a nozze.
Il romanzo mostra con esemplare chiarezza quanto gli errori dei padri ricadano sulla vita delle figlie compromettendo la loro reputazione. L’amica di Emma, Harriet Smith, è figlia illegittima di ignoti genitori che la mantengono presso un educandato femminile. Emma si ostina a credere che l’amica, a causa del suo bell’aspetto, sia figlia di un aristocratico, ma, data l’oscurità delle sue origini, Harriet non può sperare di sposare un gentiluomo. Le benintenzionate macchinazioni di Emma in tal senso si rivelano vane. L’aitante Mr Elton rimane scandalizzato quando, dopo aver rivolto a Emma una proposta di matrimonio, la ragazza lo rifiuta sostenendo di averlo sempre ritenuto in buona fede un corteggiatore di Harriet:
“[…] Io pensare seriamente a Miss Smith!… Miss Smith è una gran buona ragazza; e sarei lieto di vederla felicemente accasata. Le desidero ogni bene: e, certo, ci sono uomini che potrebbero non trovare da obiettare a… Ognuno ha il suo livello: ma quanto a me, non credo di essere a così mal partito. Non ho da disperare così totalmente in un matrimonio con una mia pari, da dovermi rivolgere a Miss Smith!”2
Dopo altri equivoci sentimentali, Harriet si unirà a un ricco agricoltore perdendo per sempre la possibilità di frequentare la gentry locale.
Henry Dashwood, il padre delle protagoniste di Ragione e sentimento, alla sua morte lascia la vedova e le tre figlie femmine in modeste condizioni economiche. Non potendo contare su di una dote cospicua, le ragazze sanno già in partenza che faticheranno ad imporsi in quel competitivo mercato matrimoniale che è parte della buona società inglese dell’epoca. Il loro fratellastro, figlio di un primo matrimonio di Mr Dashwood, è divenuto il capofamiglia, ma, sobillato da una moglie gretta ed egoista, si rifiuta di fornire loro assistenza pecuniaria infrangendo la promessa fatta al padre sul suo letto di morte. Solo il matrimonio di Marianne con un uomo abbastanza vecchio da poter essere suo padre garantirà a tutta la famiglia, cognato compreso, una stabilità finanziaria.
In Persuasione il narcisismo patologico e la boria pomposa di sir Walter Elliot sono dolorosamente notati dalla figlia Anne, sensibile e trascurata in famiglia, che frena l’impulso a criticarlo apertamente in nome di un astratto rispetto dovuto alla figura genitoriale. Nel corso del romanzo l’inoperosità dello stolido e scialacquatore baronetto viene messa a confronto con lo zelo professionale e lo spirito di sacrificio degli ufficiali di marina, suggerendo un’ardita critica ai privilegi di casta che informavano (informano? Se pensiamo ai recenti governi conservatori composti per la maggior parte da toff etoniani…) la società classista inglese.
Lo scenario narrativo di Mansfield Park contempla un doppio esempio paterno, dato che la protagonista, Fanny Price, è costretta dalla povertà ad abbandonare la sua numerosa famiglia naturale per andare a vivere nella sfarzosa dimora dello zio, Sir Thomas Bertram. Questi è un uomo di saldi principi morali che si è sempre impegnato per il benessere della famiglia, ma la sua presenza severa opprime i suoi familiari. La rigida educazione che ha impartito ai figli li ha resi, tutti tranne Edmund, insofferenti alla disciplina e smaniosi di godersi i piaceri della vita: Tom, l’erede, ha pesanti debiti di gioco, mentre le sorelle fuggiranno con i loro amanti. Quando, di ritorno a casa dopo un lungo soggiorno all’estero per motivi d’affari, il baronetto trova la figlia Maria fidanzata con un giovanotto stupido e goffo, ma dotato di un ingente patrimonio, cerca di intervenire per evitare che la ragazza debba in seguito rimpiangere la propria scelta:
“[…] Non poteva piacerle, non le piaceva. Sir Thomas prese la risoluzione di parlarle seriamente. Per quanto vantaggioso potesse essere quel matrimonio e nonostante la lunga durata e la pubblicità del fidanzamento, la felicità della figlia non doveva essere sacrificata […] Sir Thomas le si rivolse con affetto solenne; le disse i suoi personali timori, si informò dei desideri di lei, la implorò di parlargli apertamente e sinceramente, e le assicurò che qualsiasi inconveniente sarebbe stato affrontato e la relazione troncata se si sentiva angustiata prospettandosene gli sviluppi. Egli avrebbe agito in suo nome e l’avrebbe liberata da ogni impegno.”3
Dato che la figlia, per motivi di orgoglio, non vuole cambiare idea, Sir Thomas non nega il proprio consenso a nozze così mal combinate e chiude opportunisticamente gli occhi. Con la nipote si comporta in modo diverso: spinto dal desiderio di vederla accasata e di non doverla più mantenere, non esita, convinto di essere nel giusto, ad usare mezzi coercitivi per indurre Fanny, che è priva di dote, ad accettare di sposare il ricco Mr Crawford nonostante l’evidente riluttanza della ragazza. Molti commentatori hanno visto in questo comportamento sottilmente brutale un riflesso della sua attività di proprietario di una piantagione di canna da zucchero a Antigua, aspetto sul quale Jane Austen prudentemente sorvola.
Il padre biologico di Fanny è bello, ma rozzo, intelligente, ma incolto. Quando, dopo un’assenza di molti anni, la figlia torna in famiglia per una visita, egli non cerca di conoscerla e stabilire con lei un rapporto confidenziale. A Mansfield, invece, il cugino Edmund ricopre un ruolo di protezione quasi paterna essendo l’unico in famiglia a preoccuparsi per la salute delicata di Fanny e a curare la sua educazione letteraria.
Di tutti i padri austeniani il più simpatico è, senza ombra di dubbio, Mr Bennet, padre di Elizabeth, la protagonista di Orgoglio e pregiudizio: intelligente, colto, dotato di un bizzarro senso dell’umorismo, ama esprimersi per paradossi e burlarsi degli sciocchi che lo circondano. L’indolenza e l’egoismo gli impediscono di occuparsi con serietà dell’educazione delle figlie e di mettere denaro da parte. E’ legato a Elizabeth da un affetto ricco di complicità: la coinvolge nei suoi scherzi e la spalleggia nel suo rifiuto di sposare l’ipocrita e servile Mr Collins. Pur amandolo molto, Elizabeth non ignora i difetti del padre:
“Se il giudizio di Elizabeth si fosse basato esclusivamente sulla propria famiglia, non avrebbe potuto delineare un ritratto molto piacevole della felicità coniugale o del benessere domestico. Il padre, ammaliato dalla gioventù e dalla bellezza, e da quella parvenza di giovialità prodotta generalmente da gioventù e bellezza, aveva sposato una donna la cui scarsa intelligenza e la cui mente ristretta avevano, fin dall’inizio del matrimonio, messo fine a ogni affetto reale per lei. Rispetto, stima e fiducia erano svaniti per sempre, e tutti i suoi progetti di felicità domestica erano venuti a cadere […] Verso la moglie provava un’unica e molto scarsa gratitudine, quella di aver contribuito a divertirlo con la sua ignoranza e la sua stupidità […] Elizabeth, tuttavia, non era mai stata cieca di fronte alla sconvenienza del comportamento del padre come marito. L’aveva sempre osservato con dispiacere ma, rispettando le sue qualità, e grata per l’affetto che le dimostrava, si era sforzata di dimenticare ciò che non poteva non vedere, e di bandire dai propri pensieri quella continua violazione dei doveri coniugali e del decoro che, nell’esporre la moglie al disprezzo delle figlie, diventava così altamente riprovevole. Ma non aveva mai avvertito con la stessa forza di ora gli svantaggi che avrebbero di certo subito le figlie di un matrimonio così male assortito, né era mai stata così pienamente consapevole del danno che derivava da qualità così mal indirizzate; qualità che, se correttamente usate, avrebbero almeno potuto preservare la rispettabilità delle figlie, pur se incapaci di ampliare la mente della moglie.”4
Non dobbiamo dimenticare che anche personaggi positivi come Mr Darcy e il colonnello Brandon falliscono quando tentano di assumere un ruolo di sostituto genitoriale: pur essendo uomini assennati e
coscienziosi, non riescono ad impedire che le loro pupille, temporaneamente affidate a persone di fiducia, fuggano, o tentino di farlo, con seduttori senza scrupoli.
La Austen concede ai migliori fra questi padri di pervenire ad un’amara consapevolezza dei propri errori e facendo ciò ci offre una disamina dei valori umani essenziali.
Mr Bennet sa che la superficialità del proprio atteggiamento ha favorito gli errori commessi dalla figlia Lydia:
“Non dire nulla. Chi avrebbe dovuto soffrire se non io stesso? È successo per colpa mia, e devo essere io a pagare. ‘Siete troppo severo con voi stesso’, replicò Elizabeth. ‘Puoi ben mettermi in guardia contro un male del genere. La natura umana è così incline a cascarci! No, Lizzy, lascia che una volta nella mia vita mi renda conto di quanto sono da biasimare. Non temo di esserne sopraffatto. Passerà abbastanza presto.”5
Quando lo scandalo legato all’adulterio della figlia colpisce la famiglia, Sir Thomas è costretto a riflettere sulle proprie manchevolezze:
“Sir Thomas, il povero Sir Thomas, un genitore, e una persona consapevole degli errori della sua condotta come genitore, fu quello che soffrì più a lungo. Sentiva che non avrebbe dovuto permettere quel matrimonio, che i sentimenti della figlia gli erano noti a sufficienza per renderlo colpevole di aver dato il suo consenso; che così facendo aveva sacrificato l’integrità al vantaggio materiale, e che era stato spinto da motivi egoistici e da convenienze sociali […] Temeva che fossero mancati i principi, dei principi efficaci, che non avessero mai appreso in modo appropriato a governare le loro inclinazioni e i loro caratteri, usando quel senso del dovere che da solo può bastare. Erano state istruite in modo teorico sulla religione, ma non gli era mai stato chiesto di applicare quelle conoscenze nella pratica quotidiana. Distinguersi per eleganza e istruzione – gli obiettivi autorizzati della loro giovinezza – non poteva aver avuto nessuna influenza utile in quel senso, né effetti morali sulla mente. Le aveva volute condurre al bene, ma le sue preoccupazioni avevano riguardato le nozioni e i modi, non il carattere; e temeva che non avessero mai sentito parlare della necessità della rinuncia e dell’umiltà da nessuno che avrebbe potuto aiutarle a trarne giovamento. Deplorava amaramente una deficienza che ora non riusciva a comprendere come fosse stata possibile. Sentiva dolorosamente che, con tutte le spese e le cure per un’educazione attenta e dispendiosa, aveva cresciuto le figlie senza renderle consapevoli dei loro doveri primari, e senza conoscerne carattere e inclinazioni”6
Le eroine austeniane cercano riparo all’insufficienza morale o materiale del genitore sposando uomini che sono in grado di proteggerle economicamente (Darcy, Brandon, Wentworth) e di educarle alla saggezza (Henry Tilney, Knightley). Pur non sfuggendo, nel rispetto della verosimiglianza considerato il contesto storico-sociale dell’epoca, alla dipendenza dal principio maschile, le protagoniste dei romanzi di Jane Austen agiscono per il proprio benessere trovando uno spazio domestico che permetterà loro finalmente di vivere in serenità.
Note:
1 Jane Austen, Emma, Garzanti 1965, p. 364.
2 Ivi, p. 99.
3 Jane Austen, Mansfield Park, Garzanti 1983, p. 205.
4 Jane Austen, Orgoglio e Pregiudizio, traduzione di Giuseppe Ierolli su http://www.jausten.it, pp. 253-54
5 Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio, op. cit., p.314.
6 Jane Austen, Mansfield Park, op. cit., pp. 472-75.
Nella New York di metà Ottocento, Charlotte è una madre nubile che rinuncia con dolore alla potestà della figlia Clementina, “Tina”, sperando così di assicurarle un futuro migliore. Dopo aver vissuto buona parte della sua infanzia in orfanotrofio, Tina viene accolta dalla ricca cugina della mamma, la vedova Delia Ralston, e le tre iniziano una convivenza dai delicati equilibri. L’angoscia di “zia” Charlotte e i dissidi interiori dell’altera Delia esploderanno in un crescendo narrativo con l’evolversi delle vicende sentimentali di Tina. In questo breve romanzo troviamo una Edith Wharton al meglio delle sue abilità letterarie. Lo sguardo ironico ma ricco di compassione per l’essere umano, i personaggi che provano a sgretolare le regole imposte dalla società, il coraggio di affrontare temi scabrosi per l’epoca e l’acuta capacità descrittiva della società del suo tempo si dispiegano qui in un romanzo densissimo. Il libro ebbe una vasta eco e ispirò nel 1935 lo spettacolo teatrale omonimo (adattamento di Zoë Akins, con cui vinse il Pulitzer per la drammaturgia) e nel 1939 un fortunato quanto osteggiato film con Bette Davis e Miriam Hopkins.
Quando leggi Edith Wharton protagonista diventa il non detto.
La scrittura diventa un insieme di indizi da decifrare per ricavare il senso della storia, al di là anche di quanto gli stessi personaggi vogliono dire e/o ammettere.
La penna si ritrae davanti all’insondabile mistero dell’animo umano e alla spessa coltre di apparenze che la società impone a salvaguardia del decoro e dell’onorabilità di certe buone famiglie.
Nella vecchia New York degli anni Cinquanta dell’Ottocento alcune famiglie predominavano, senza ostentazione e in agiatezza. I Ralston erano una di quelle.
L’argomento che l’autrice decide di trattare non è dei più semplici ma nemmeno lei lo affronta direttamente, a viso aperto. Un segreto indicibile serpeggia tra le mura di casa Ralston che nessuna delle due cugine osa pronunciare. Tutto quello che agli occhi della buona società newyorkese necessiterebbe di molte spiegazioni, è perfettamente chiaro come da farsi in privato, quando sono sole nella camera o nel salottino di Delia.
Il cambiamento era avvenuto il giorno in cui Charlotte, rannicchiata proprio su quel divano, aveva fatto la terribile confessione. Lì, per la prima volta, Delia, con un vago senso di esaltazione timorosa, aveva percepito le forze cieche della vita brancolare e gridare sotto i suoi piedi; ma quel giorno aveva anche capito di esserne esclusa, di essere destinata a vivere tra i fantasmi. La vita le era passata accanto, e l’aveva lasciata con i Ralston.
La minaccia dello scandalo è sempre lì a ispirare una condotta irreprensibile.
Come facce di un prisma Delia, Charlotte e Tina riflettono e impersonano la vita che è stata, che avrebbe potuto essere e che sarà. La questione è sempre quella: cosa può fare una donna sedotta e abbandonata?
La più grande minaccia che si nasconde dietro a quel pericoloso sentimento che è l’amore. E per non incorrere nel biasimo della società, infligge a se stessa la più crudele delle prigioni: sacrificare la propria maternità.
Dopo la morte dell’adorato padre, la vita di Jane viene completamente stravolta. Mrs Davis, sposa in seconde nozze del defunto Mr Davis, la costringe a occuparsi delle mansioni più umili, trattandola alla stregua di una sguattera. Jane, priva di dote e prospettive, convinta di non poter suscitare l’interesse di alcun gentiluomo e decisa a costruire da sé il proprio futuro, trova lavoro come istitutrice nella scuola per orfani di lady Brooks. Una scelta che reputa felice, almeno sino a quando non partecipa a un ballo sotto mentite spoglie e scopre di non essere indenne al fascino genuino del Duca di Arundel e di desiderare per sé qualcosa di più dell’indipendenza. Ma può questo improvviso desiderio di felicità diventare davvero realtà? Bugie e mezze verità, un equilibrio precario tra ceti sociali differenti e la ricerca del lieto fine sono gli ingredienti di questo retelling in chiave storica, che richiama la celebre fiaba di Cenerentola.
RECENSIONE
“La ragazza in blu” è il primo volume – tutti autoconclusivi – di storie d’amore ambientate all’epoca della Reggenza, che fondono verosimiglianza storica a intrecci che conosciamo da sempre. Si tratta, infatti, di un retelling di Cenerentola: abbiamo la giovanissima Jane, protagonista che ha come antagoniste anche qui una matrigna e sorellastra, al posto della fata madrina ci sono l’altra sorella e la sua benefattrice, lady Brooks, e l’immancabile principe azzurro, che qui troviamo impersonificato nel Duca di Arundel. Un romance capace di accontentare i lettori amanti delle atmosfere magiche che fanno sognare, ma anche chi non disdegna un romance storico con balli in maschera, duchi e duchesse, aitanti salvatori e fanciulle in difficoltà.
La ragazza in blu è un romance perfetto che prende in prestito la fiaba di Cenerentola per conquistare anche il lettore più disilluso.
Aveva dovuto trasferirsi nella stanza del personale, rinunciare ai suoi abiti più belli, quelli confezionati con le pregiate sete che commerciava suo padre, e sfruttare quelli già vecchi che rammendava di continuo.
D’altronde si sa, il plot della fiaba è l’ideale come base di una storia romantica, e ancora meglio se si tratta di una storia arricchita da un determinato contesto storico, una trama più sviluppata e nuovi personaggi.
La storia di Cenerentola si sa, è un classico senza tempo ma in questo caso l’autrice sa combinare gli elementi fantasiosi con quelli più verosimiglianti mantenendo costante il ritmo narrativo.
Con delle piccole variazioni sul tema, una protagonista poco arrendevole e un affascinante Duca in cambio del Principe, nonché una piccola folla di amici molto simpatici, assistiamo a un finale molto movimentato. Lady Edith è un’amica insostituibile, tanto quanto una premurosa fata madrina!
Lord Byrd, Duca di Arundel, è in cerca della ragazza con l’orecchino di perla, fuggita prima che potesse rivelare il suo nome. La giovane lady può chiedere di essere ricevuta a Crastle Place, mostrando il gemello dell’orecchino che, al momento si trova in possesso di Sua Grazia.
Per chi ama sognare a occhi aperti ma senza dare nulla di scontato. Molto carina la grafica e l’impaginazione che segna ogni capitolo con la mitica carrozza.