Quante vite
accese
per il tempo di un fiammifero
il cui bagliore
spegne
un soffio distratto
Archivio | aprile 2015
Al porto
Mary Barton
Incontrare Mary Barton è un’esperienza forte, è come scoprire una voragine di dolore e sentirsene non solo toccati ma travolti. E’ il dolore dell’esistenza che in quanto esseri umani sentiamo in noi connaturato e avere radici profonde proprio nella nostra stessa anima.
Il primo romanzo di Elizabeth Gaskell non è solo un romanzo sociale ma un dramma corale composto di tante singole tragiche storie i cui singoli protagonisti si stagliano con il loro eroismo su uno sfondo desolato.
Le etichette non esauriscono la portata di questo affresco di vita dell’Ottocento dove la contrapposizione di classe, operai vs padroni, non assume i toni della rivendicazione sindacale propagandistica ma una dura realtà da accettare come la condizione umana con il sostegno della teleologia cristiana.
Le pagine sono profondamente segnate dal dolore che diventa esperienza catartica e totalizzante, motore e ispiratore dell’opera cui Gaskell si accinge per superare l’atroce sofferenza per la perdita del figlioletto di appena un anno. Disseminati lungo il racconto delle vicende di vendetta, di morte, di miseria dei suoi personaggi palpitano commenti strazianti di chi ha una precisa consapevolezza e conoscenza del dolore. Sembra perdere tutta la sua compostezza l’autrice nell’amaro sfogo: “Ma ci sono sventure a cui non si può sfuggire, che non hanno consolazione in terra. E di tutte le vacue, tristi, vuote frasi di falso conforto pronunciate da chi non vuole darsi davvero la pena di condividere le sofferenze altrui, quella che più mi esaspera è l’esortazione a mettersi l’animo in pace, “tanto non c’è più nulla da fare”. Ma credete che se ci fosse qualcosa da fare, qualcosa da sperare, io me ne starei qui, immobile a piangere? Non credete che sarei già all’opera? Per questo piango: perché non c’è più nulla da fare. La ragione che mi si dà per non piangere è quella appunto per cui piango. Datemi più nobili e più vere ragioni per accettare la prova che il Padre Celeste mi ha mandato, e io cercherò con sincerità e fede di rassegnarmi. Ma non beffatemi, non beffate chi soffre, con la frase: “Non ti affliggere: tanto non c’è più nulla da fare”. Qui non è più lei a parlare ma la madre straziata.
Il nucleo fondamentale dell’intreccio è la storia di Mary che dotata di una particolare bellezza viene contesa da due uomini: l’amico d’infanzia innamorato di lei da sempre e lo spavaldo signorotto, figlio di un padrone, che se ne è incapricciato. Basata su un impianto abbastanza ovvio e sviluppata anche attraverso espedienti narrativi piuttosto usati (quali la proposta di nozze dapprima rifiutata e poi ripensata) la vicenda si tinge di fosche tinte drammatiche nel momento in cui prospetta quelli che sono i rischi della mancanza di una figura di riferimento materna (la mamma di Mary muore quando lei è appena adolescente) e l’assecondamento della vanità femminile (Mary crede che con la sua beltà può aspirare a migliorare la sua posizione sociale). Le sporadiche apparizioni della zia Esther che si è ribellata ai consigli di modestia e morigeratezza della famiglia, ha seguito il suo seduttore ed è finita per la strada, valgono da continui avvertimenti sul baratro che può aprirsi a quelle ragazze rovinate che sono irrimediabilmente perdute.
Il finale però prevede un riscatto per tutti laddove Mary si riabilita con l’abnegazione di un amore coraggioso, ma solo in altri lidi può sperare in un futuro sereno. La morte intanto non ha fatto che mietere vittime riducendo alla stessa disperazione uomini che prima ancora di essere operai o padroni, erano padri e mariti. Applicare parole come il perdono e la fratellanza del messaggio cristiano alla feroce lotta protosindacale oggi risulta quanto mai utopistico ma nell’economia del libro sicuramente coerente e plausibile anche se a duro prezzo, e comunque non risolutivo.
Sicuramente il libro diventa un contributo ad una lettura diversa della contrapposizione sociale, pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità dei contrasti e del divario insanabile.