Archivio | agosto 2017
Primavera senza sole di Maria Messina
Il piccolo grande incanto che opera Maria Messina è presto tracciato, con pochi, semplici e sapienti tocchi: la femminilità impregna questa storia a partire dal getto gentile di una penna leggera e immalinconita, che induce all’identificazione solleticando corde remote dell’animo.
Se questo è il tratto distintivo della scrittrice, che proprio qui palesa il suo debito con Verga, non può non colpire la rivendicazione d’appartenenza alla terra siciliana fatta rivivere attraverso ricordi d’infanzia.
Un racconto che, introdotto e racchiuso da un titolo in cui nonostante due termini di accezione positiva, l’attenzione è polarizzata sulla preposizione privativa centrale del “senza”, si avvia lento e inesorabile verso il compimento di un destino già segnato. L’idea evocata dal titolo non è solo quella di un grigiore logico e consequenziale -suggerito dalla circonlocuzione di una “primavera senza sole”-, ma rimanda all’innaturale scenario della mancanza di un elemento vitale, indispensabile alla fioritura, se non addirittura alla sopravvivenza delle speranze giovanili.
Già subito, con indefinita tenerezza, ci vengono dischiuse le imposte sulla semplice vita condotta da Orsola, che studia per prendere “la patente” per diventare maestra e allo stesso tempo dà lezioni ai cugini ricchi per assicurare favori alla propria famiglia indigente. È forse questo il germe della sua condanna alla perdizione in quanto viene additata come una ragazza troppo libera, mal vista, perché lo studio distingue e rende emancipati, liberi, troppo liberi di uscire, di frequentare maschi e femmine, di sapere, di conoscere.
Come schermati da una persiana, impariamo a coglierne impercettibili moti dell’animo tra un sussulto e una parola taciuta e attraverso i suoi occhi cerchiamo, nelle case che visita e che osserva, non la ricchezza, ma l’affetto che, più del cibo, nella sua, le viene negato.
Assistiamo quindi a uno strano parallelismo stabilito tra il cibo e l’affetto: il primo simboleggia (come per la roba di Verga) e stabilisce anche una certa differenziazione sociale, e di fatto su di esso si insiste per sottolineare la quantità e l’abbondanza in quanto espressione di benessere mancato nella casa di Orsola, laddove si registra la carenza di un altro elemento indispensabile in quella famiglia: l’affetto che faccia sentire amati e rinsaldi i legami familiari.
In questo libro si sente palpitare la vita dei vicoli siciliani colta e rappresentata attraverso vivide immagini che stimolano la percezione sensoriale; le scene di vita quotidiana nel “baglio” – gli scambi dal balcone con la canna, la nettatura del frumento, il pesce nel canestro, la ricamatrice sull’uscio – che proposte nella loro rassicurante ripetitività – come ciclico è l’arco di tempo che copre la storia – contengono già la loro vocazione all’immobilità che può diventare claustrofobica o reclusione (non a caso la protagonista del racconto Le pause della vita, Paola, sceglie la vita monastica come atto estremo di rinuncia alla vita).
Il grande pregio, fatto da una sottile arte di contrappunti, è quello di esprimere stati d’animo e indefinibili sensazioni accanto a descrizioni realistiche e immagini plastiche che assumono una loro corporeità alla vista e all’olfatto. Oltre a Orsola, è nella mimica facciale e gestuale e nella parlata che i personaggi manifestano i loro pensieri e modi di essere. Quelle frasi spezzate, lasciate a metà, nei dialoghi già mozzi e infarciti di espressioni gergali, li caratterizzano molto più delle loro descrizioni fisiche, che diventano solo accidentali.
All’uso della similitudine va riconosciuto il potere evocativo che rende tangibili emozioni e pensieri inconfessati sottraendoli all’indefinitezza di uno stato confusionale, inconsapevole, affermati così nella loro consistenza reale.
Donna Serafina respirava più liberamente, poi che la confessione scacciava i neri dubbi che le avevano offuscato la vista, così come il sole distrugge la nebbia che copre le montagne (p. 38)
E quell’amore frenato, vigilato dalla madre accorta, quell’amore che si manifestava negli sguardi furtivi, nel tono della voce, come un aroma che si sprigiona da una fiala chiusa… (p. 54).
In questo ristretto microcosmo matriarcale in cui l’unico affare sociale in cui confluiscono sforzi e sacrifici di macchinazioni e strategie è il matrimonio, l’unico bandito è l’amore che pure palpita dagli ingenui cuori giovanili ma è già destinato a soccombere:
Pensare all’amore quando in casa, spesso, non si prepara da mangiare, e quando non si ha un abito adattato alla stagione? Bella cosa sposarsi, quando si è poveri, per poi piange re e abbrutirsi tutta la vita dietro la miseria come sua madre! (p. 50).
Una concezione questa che richiama quella degli Amori senza amore del primo Pirandello e quel mondo di sentimenti negati da considerazioni materialistiche, opportunità mancate e sprecate.
Due volte la malattia coglie Orsola allo stremo delle forze; due volte la catarsi non può compiersi perché lo sfinimento è interiore, troppo profondo.
L’impronta verghiana è più evidente nel senso di tragicità e di abbandono: gli eventi apicali della storia vengono glissati, fatti immaginare con la drammaticità delle loro conseguenze, e anche il finale è lasciato sospeso, come se richiedesse un enorme sforzo da parte della stessa autrice.
“La vita è bella! Essere infelice, essere misera, essere l’ultima delle creature, ma vivere, ma potere ascoltare, poter vedere! È bello, vivere senza altro scopo che lo scopo di vivere, come le rose che si schiudono nelle albe estive, come le rondini che passano nel cielo del “baglio” e forse gridano di felicità… (p. 64).
Come non rimanere commossi dinanzi a una così accorata dichiarazione d’amore alla vita? In queste parole struggenti può sentirsi la voce vibrante della giovane Maria Messina che nel 1920 cominciava a pubblicare i suoi romanzi e ad affacciarsi alla speranza.
Primavera senza sole è il terzo titolo pubblicato da Edizioni Croce nell’ambito del progetto curato da Salvatore Asaro che, di questo volume in particolare, cura l’introduzione con una nota preziosissima e particolareggiata, di sostegno alla comprensione e alla decodificazione del testo. La copertina del romanzo è un capolavoro di estetica e semiotica: mentre veicola con immediatezza ed efficace impatto l’immagine di una giovane ragazza tutta candore e pensosità, predispone in un ideale invito grafico e cromatico alla lettura con le giuste aspettative.
I semi gettati non possono non germogliare in uno stimolante appetito di nuove conoscenze e approfondimenti sull’opera di Maria Messina, scrittrice delicata e concreta, semplice e complessa.
Sinossi:
Pubblicato a puntate su «L’Orma» di Napoli nel 1920 e accolto con grande consenso da parte della critica, Primavera senza sole ruota attorno alla figura di Orsola Armenis. La giovane protagonista, romantica e a tratti naïve, spera un giorno di diventare insegnante; ma intanto vive la sua esistenza attraverso il filtro dei romanzi che legge e degli amori più o meno clandestini delle sue compagne di scuola. Il padre è debole e demoralizzato, la sorella minore è frivola e immatura, e per questa ragione l’economia domestica ricade interamente su di lei e su sua madre. A causa della gestione sbagliata del patrimonio familiare, entrambe le donne si arrabattano per cercare di nascondere lo stato di semipovertà in cui gli Armenis sono costretti a vivere. In un pomeriggio di calura, con malcelata ritrosia, Orsola accetta le lusinghe dell’amore e allora inizia a temere di non riuscire più a realizzare i sogni di sempre – la ragazza dovrà ora scegliere se abbandonarsi alla voluttà o se continuare a spendere i suoi giorni nell’innocenza. Con un linguaggio modulato, Maria Messina dà forma a un universo apparentemente immobile ma in realtà colmo di riflessioni e punti di vista. Quelli che emergono da questo romanzo stratificato sono i tormenti e le rinunce di una ragazza che si appresta a diventare donna.
Un castello nella campagna romana. Leggenda del settimo secolo. Felice Calvi Flower-ed
Se girando i dintorni della campagna romana capitasse di imbattersi in un rudere abbandonato, niente ci stupirebbe di meno per quanto essa ne è disseminata.
E se voi, girando di là gli sguardi per gli spazi incirconscritti l’anima non vi si ritrae sgominata per fremito impercettibile, non siete nati a comprendere il linguaggio del creato e a respirare il soffio armonioso delle aure sue
Più fortuna avremmo nel trovare un venerando custode di quelle antiche vestigia desideroso di tramandarne ancora una volta la memoria con la sua nenia instancabile che va ripetendo ai muschi e ai rovi. E almeno nel volgere di quel breve e tristemente consistente racconto verremmo a conoscere le vicende di cui quei resti di un castello diroccato sono stati teatro: Un castello nella campagna romana. Leggenda del settimo secolo.
Felice Calvi scrive a metà dell’Ottocento mettendo a frutto, in questo primo esperimento, le sue conoscenze di studioso di Storia iniziando da quella antica, quella immediatamente successiva alla caduta del Sacro Impero Romano, tra barbarie e degenerazioni.
Questa drammatica leggenda, ambientata nel 610 dopo Cristo, seppure sullo sfondo di passioni, crimini e nefandezze varie, ritaglia un piccolo antro in cui riecheggiano i teneri accenti di una storia d’amore tra Silvio, il poscritto di Amalfi di oscuri natali, e la bella Graziana. Nessuna storia d’amore che si rispetti non è tale se non è contrastata e secondo quello che sarà un modulo invalso fino a Renzo e Lucia, a distruggere la felicità dei due giovani promessi è in questo caso il dissoluto Senatore, Quinto Giordano, altro esemplare del campionario infinito dei più o meno Innominati della storia.
(Silvio) La adolescenza travolta così come burchiello sobbalzato perdutamente dai cavalloni dell’oceano, senza trovare un’isola che lo raccolga, né uno scoglio in cui fracassandosi si sperda per sempre. Parco di speranze che temeva lontane troppo, indomabile nel combattimento, tenace nel disinganno, mesto nelle gioie. A venzette anni, nella pienezza della gioventù, si sentiva già vecchio.
Ma non è tutto, a muoversi e intorbidire le acque, facendo il lavoro sporco entro questo strano triangolo, è il bravo scellerato Genserico, insaziabile mercenario, che come una pedina impazzita perpetra crimini, rapimenti, tradimenti e atrocità di ogni sorta.
Una lingua italiana aulica e volgare allo stesso tempo, che nella sintassi e nei costrutti cerca di rispecchiare la storicità della sua fonte, anche nelle aspre sonorità, pare essersi preservata intatta per narrare lo spaccato di un mondo, di un’epoca dimenticati da Dio, dove l’unica legge che impera sui rapporti umani è quella del più prepotente, sprezzante di ogni diritto altrui, dalla libertà alla vita.
L’infimo Senatore, fa rapire dalle mura possenti del palazzo del padre la vergine Graziana di cui si è incapricciato, tanto più che il coraggioso Silvio ha già sventato i suoi loschi programmi una volta, sottraendola alla protezione e all’affetto dei suoi genitori e gettando su di lei l’ombra della rovina perpetua.
Non tutto va però secondo i piani dell’empio senatore che non ha fatto i conti con la sprezzante resistenza della fanciulla e con l’infido voltafaccia di Genserico che per salvare la propria pelle non esita a buttarsi dalla parte di Silvio. Sarà poi Genserico, campione di tante malefatte, a suggellare la tragedia svelando i segreti di cui la sua mano è stata artefice e complice iniqua.
Il clangore delle armi, le scorribande nelle foreste e nei luoghi più impervi, gli assalti temerari al castello, tanta efferatezza di scenari e di contorno, sono smussati da quelle brevi e fuggevoli parentesi dell’incontro d’amore tra Silvio e Graziana, destinate a ingentilire i toni del racconto e a permearlo della stessa malinconia che avvolge i ruderi de Il castello nella campagna romana.
Graziana non rispose, ma singhiozzava dolorosamente; asciugate le lagrime sollevò le larghe pupille al firmamento: miriade di astri nuotanti nel ciel bruno ora sfavillavano, or sembrano togliersi allo sguardo indagatore degli uomini. Una fulgida stella cadde dall’alto, strisciò rapidissima sull’orizzonte e disparve nello spazio dell’immagine -viva immagine delle illusioni della vita! Forse per questo risveglia nei riguardanti una amaritudine segreta -e vuole un sospiro.
http://www.flower-ed.it/index.php?route=product/product&path=59_81&product_id=144
Un po’ meno che angeli, di Barbara Pym, edizioni Astoria
Estremi rimedi, Thomas Hardy, Fazi
Si tratta del primo romanzo pubblicato da Hardy (dopo essersi visto rifiutare il primo che aveva composto) e contiene elementi autobiografici molto evidenti. Gli uomini di questa storia svolgono tutti, chi più chi meno, la professione di architetto, studio a cui si avviò Hardy per i primi anni della sua carriera e le cui conoscenze tradisce quando si sofferma ad analizzare in modo particolareggiato e tecnico la struttura e la conformazione degli edifici.
La trama della storia è costruita con una precisione degna di tutti gli strumenti di calcolo dell’architetto e raccontata giorno per giorno, ora per ora -e frazioni-, come se fosse stata registrata su un taccuino di appunti.
L’impalcatura che la sostiene è un meccanismo a incastro molto avvincente, una specie di thriller psicologico che, sebbene obbedisca alle leggi di mercato che all’epoca richiedevano storie sensazionalistiche o noir, contiene descrizioni paesaggistiche e caratterizzazioni dei personaggi tipiche di Hardy.
Da buon architetto, ha dotato il suo racconto di una buona struttura portante, con meticolosa misurazione ha dosato gli ingredienti tipici del romanzo gotico fregiandolo di citazioni dotte, e ha abbellito il tutto con una facciata molto suggestiva.
Sebbene aleggi un senso di mistero e di dramma imminente, questo romanzo è molto lontano dai successivi più cupi, -il narratore si fa vivo talvolta, anche con ironia- e più disponibile ad ammettere un lieto fine.
Piacevolmente disteso davanti a lei a sud c’era il canale della Manica che rifletteva un azzurro molti gradi più intenso di quello del cielo sovrastante punteggiato in primo piano da una mezza dozzina di piccole imbarcazioni di varia attrezzatura con le vele che avevano sfumature che variavano dall’estremo biancore al marrone rossiccio; e i colori reali e variabili erano doppiamente mutevoli per i raggi del sole calante (cap. 2, Vol. I).
Forse durante l’amore, l’unica gioia che può veramente essere definita simile al paradiso è quella che trionfa immediatamente dopo la fine del dubbio e prima della riflessione, all’alba del sentimento (cap. 3, Vol. I).
Come la natura ai tropici, con gli uragani e la susseguente vegetazione lussureggiante che cancella le devastazioni, Miss Aldclyffe risarciva poi le sue esplosioni con eccessi di generosità (cap. 8, Vol. I)
La Three Tranters Inn, un edificio medievale dai molti frontoni, costruito quasi interamente in legno, gesso e paglia, si ergeva sul ciglio della strada, quasi di fronte al sagrato della chiesa, ed era collegato a una serie di cottage sulla sinistra da fabbricati dal tetto di paglia. Era un esempio insolitamente caratteristico e bello della genuina taverna sulla strada dei giorni passati… (cap. 8, vol I).
Perlustrò la casa dal tetto alla cantina alla ricerca di un’altra traccia… Rientrando vide una cuffia, vi balzò sopra piena di zelo e scoprì che era la sua… (cap. 1, vol II).
Due occhi azzurri
Al di là, c’erano simili pendii ed erba simile, e poi il sereno mare impassibile, visibile fino a un’ampiezza di metà dell’orizzonte, che incontrava lo sguardo con l’effetto di una vasta superficie concava, come l’interno di un vascello azzurro. In lontananza si ergevano rocce isolate, ghermite alla base da un collare di schiuma, che ripeteva nel suo biancore il piumaggio di un’infinita moltitudine di gabbiani, volteggianti con inquietudine all’intorno
(Due occhi azzurri, Thomas Hardy, Fazi editore, p. 40).