
L’anima semplice. Suor Giovanna della croce
Matilde Serao
13lab_editore
Trama
Dopo trentacinque anni di vita claustrale nel Monastero di Suor Orsola Benincasa, le monache dell’Ordine delle Trentatré si vedono costrette a rompere il giuramento e a far ritorno nel mondo a causa di un provvedimento dello Stato che determina la requisizione dei beni ecclesiastici. Siamo a Napoli e Suor Giovanna della Croce, appena sessantenne, si ritrova spogliata della vita monacale, costretta a soggiornare a casa della sorella e a sopravvivere con una misera pensione passatale dal Governo che la porterà a cercare dei piccoli impieghi, nonostante l’età avanzata, per poter tirare avanti. In questo romanzo, però, non viene solo narrata la storia di Suor Giovanna della Croce, ma la storia di una Napoli povera e di uno Stato che non si preoccupa affatto delle donne sole. In queste pagine vengono tratteggiate le vite di diverse figure femminili: un’adultera scoperta dal marito, una madre impazzita dopo aver dato alla luce il primogenito, un’altra che, invece, si sfianca ogni santo giorno per poter dare al figlio la possibilità di studiare medicina e, infine, una giovane ragazza la quale, nonostante non abbia nulla a che fare con l’Ordine Ecclesiastico, vive una vita da reclusa a causa del fidanzato troppo geloso e violento ma che non vuole assolutamente lasciare, convincendosi che “Il maltrattamento è prova di bene” anziché rischiare di tornare a vivere per strada. Quella della Serao è una narrazione capace di entrare nel cuore di chi legge attraverso una scrittura che possiamo per certi versi definire verista. Il clou del romanzo, però, lo si trova nell’ultimo capitolo dove il contrasto tra povertà e alta società viene maggiormente evidenziato e dove vediamo la nostra protagonista ridotta, ormai, a essere l’ombra di se stessa in attesa di una morte che potrà finalmente liberarla da tutto il male di questo malato mondo.
Recensione
La lettera indirizzata allo scrittore e saggista francese, Paolo Bourget, e messa a prefazione del libro dall’autrice ne costituisce il manifesto poetico. In essa esprime infatti l’intenzione autoriale di non voler raccontare storie d’amore, di gioventù e di bellezza che sono caduche e fallaci ma di quegli uomini e quelle donne attraversati da sentimenti più profondi, più inguaribili, degni di pietà e perdono.
Che grande cosa è il dolore, mio amico e mio Maestro, come è solenne ed ampio, come è uniforme e maestoso, come è semplice e pure svariato, come è alto, sempre, e come afferra tutti i cuori, tutte le anime, in un sol soffio tragico e tragicamente le solleva e alla medesima altezza! Che grande cosa è il dolore, poiché esso solo è comune a tutti gli esseri umani, poiché esso solo li unisce, li affratella, li salda, in una simpatia universale!
A epigrafe del primo capitolo sono stati riportati i versi del III Cantico del Paradiso di Dante riguardanti Piccarda, figlia di Simone Donati e sorella di Forese e Corso, giovinetta pia e religiosissima, che entrò in convento farsi monaca e ne fu poi strappata per essere data in moglie dal fratello Corso a Rossellino della Tosa, un esponente dei Guelfi.
Il ritratto che Matilde Serao tratteggia di Suor Giovanna della Croce è il ritratto dolente di un’anima pia, semplice e ingenua che strappata alla protezione del convento claustrale viene gettata nel mondo a sperimentarne gli orrori e le bassezze.
Ospitata inizialmente dall’avida sorella che crede di sottrarle la dote, viene scacciata e sottoposta a una discesa agli inferi nella miseria e nella povertà più umilianti, senza però perdere la sua dignità e vacillare nella fede.
La chiusura del convento da parte del Governo è una vera e propria violenza perpetrata ai danni di un gruppo di donne che avevano abbandonato la vita secolare e che nel cuore sono rimaste ancora bambine. Con la purezza e l’inesperienza dell’età infantile suor Giovanna viene privata della sua identità e restituita al mondo come Luisa Bevilacqua: un nome in cui non si riconosce più, una famiglia a cui non sente più di appartenere.
Privata quindi di un’identità, di un sostentamento, ridotta alla povertà e agli stenti, la ritroviamo in un dormitorio affaticata e sofferente, impossibilitata anche a riposare, e poi a elemosinare un pasto alla mensa dei poveri nel giorno di Pasqua e a piangere lacrime amare sul suo crudele destino.
Insieme a lei vediamo sfilare tanti altri poveri, derelitti, sfortunati esseri umani che la fortuna “ha gittato all’estremo posto della vita”. Un’umanità di mendicanti, chi timido chi sfacciato, chi orgoglioso e chi disperato, accomunati dall’umiliazione.
L’autrice volge il suo sguardo pietoso verso quelle anime semplici, sfortunate, completamente disfatte dalla vita, con una prosa spoglia, solida ed efficace, senza orpelli e fronzoli e un’immediatezza espressiva che induce inevitabilmente a riflettere.

Matilde Serao (1856-1927) è una delle più celebri intellettuali italiane, candidata sei volte al premio Nobel per la letteratura ed è stata definita da Heny James la Zola italiana proprio per l’impronta naturalista che imprime ai suoi racconti, spaccato della società medio-borghese e proletaria di Napoli.