Archivio | Maggio 2022

Gemma e Dante Alighieri

Si parla tanto di Dante, ma qualcuno si è mai domandato chi era sua moglie e quante ne ha dovute sentire a proposito di Beatrice?!

La moglie di Dante è una figura poco conosciuta, rimasta sempre nell’ombra, della quale anzi si è spesso ignorata l’esistenza perché completamente offuscata dalla presenza abbacinante e ingombrante della splendida Beatrice. Siccome gli esempi di perfezione spesso risultano antipatici e il Sommo Poeta è riuscito a renderla tale Beatrice ai nostri occhi, pur se in tutta la sua divina bellezza e ineffabilità, vorrei scoprire qualcosa di più di sua moglie, la sua legittima consorte, colei che lo ha sopportato per tanti anni con il suo carattere non facile (schivo e animoso) e la sua fissazione per Beatrice.

A vent’anni Dante sposa Gemma Donati, sua coetanea, e da lei avrà tre figli (il primogenito Giovanni è controverso): due maschi, Pietro e Iacopo che saranno i primi commentatori della Divina Commedia, e una femmina, Antonia, che si farà monaca a Ravenna con il nome di suor Beatrice.

Nessun amor c’ha nullo amato

Il matrimonio naturalmente non era stato d’amore perché i due erano stati promessi dalle famiglie  sin da quando erano due giovani adolescenti e l’unione era stata più un sodalizio d’affari. Quella di lei era una nobile casata che apportava lustro agli Alighieri. Fu stipulato un vero e proprio atto di instrumentum dotis, nel 1277, davanti a un notaio.

Possiamo immaginarci che lei si sia rassegnata a rimanere accanto al marito e soprattutto si sia dedicata a fare la madre. Secondo alcuni è possibile che non andassero molto d’accordo, Dante non parla mai di lei. Boccaccio sostiene che i due sposi, una volta cominciato il peregrinare del poeta, non si sono più riuniti, in una specie di separazione di fatto.

Gemma, la moglie di Dante: anzi vedova

Si ritorna a parlare di Gemma dopo la morte di Dante, quando la donna si rivolge alle autorità fiorentine per reclamare la parte della sua dote originaria dai beni confiscati al marito. Si era trasferita a vivere dal borgo di San Martino del Vescovo in quello di San Benedetto dove finirà i suoi giorni.

Sulla data della sua scomparsa non si hanno notizie certe se non che in un atto notarile del 9 gennaio 1343 il figlio Iacopo si dichiara suo erede.

Ne rimane il ritratto di una donna di grande dignità, che di certo aveva meno desiderio di protagonismo del suo consorte e sicuramente fortunata ad avere una nobile famiglia alle spalle.

Mrs Frances Trollope

Frances Milton Trollope, o Fanny, nacque a Stapleton, il 10 marzo del 1779, in un sobborgo di Bristol. Sposò nel 1809 l’avvocato Thomas Anthony Trollope non troppo felicemente. Numerose, ma meno fortunate, furono le gravidanze: dei suoi sette bambini rimasero in vita solo alcuni figli, di cui i più famosi sono Thomas Adolphus, che visse sempre accanto a lei, il più longevo, e Anthony, scrittore vittoriano di successo.

Frances era la figlia più giovane di Frances Gelsey Milton e William Milton, un ministro benestante. Sua madre morì poco dopo la sua nascita, lasciando il padre a crescere lei e i suoi fratelli da soli. Il reverendo Milton, un uomo ottimista educato a Oxford che si è molto divertito a studiare letteratura, scienza e matematica, diede a Frances e sua sorella Mary Milton la stessa educazione classica ricevuta dal fratello maggiore. Se sua madre fosse stata viva, è molto probabile che l’educazione di Frances sarebbe stata più improntata alla vita domestica come moglie e madre. Invece, Frances e Mary approfittarono dell’ampia biblioteca del reverendo e furono istruite in francese, italiano e latino, oltre a letteratura, arte e scrittura.

Frances è così cresciuta molto meglio della maggior parte delle giovani donne inglesi del suo tempo, un fatto che l’ha preparata per la sua futura carriera di scrittore. Insieme a suo fratello e sua sorella, ha ereditato la personalità allegra e rilassata di suo padre. Come nella vita successiva, Frances viaggiò spesso in gioventù; la famiglia aveva case a Heckfield e Bristol, e i bambini seguivano il padre durante i suoi numerosi viaggi anche in altre parrocchie. Altro fatto diverso dal solito, il reverendo Milton non aveva fretta di far sposare le sue figlie, sebbene la maggior parte delle donne all’epoca si sposasse giovane, e Frances era libera di fare ciò che le piaceva.

Nel 1802, fu lui a risposarsi e questo evento fu quello che spezzò l’unità familiare.

Frances e Mary si trasferirono a Londra l’anno successivo dove già viveva il loro fratello Henry, sia per sfuggire all’imbarazzo della vita con la matrigna, sia per le opportunità culturali offerte dalla capitale. I tre fratelli condividevano una casa, diventando rapidamente parte della scena sociale della nobiltà londinese, organizzando piccoli ricevimenti e serate e frequentando numerosi musei, teatri e altre attrazioni culturali di Londra.

Frances fu presentata a Thomas Anthony Trollope, un amico di suo fratello, nel 1808. Trollope era un giovane avvocato che aveva interessi intellettuali e un contegno calmo e serio. Nonostante la differenza caratteriale- Frances era una donna amante del divertimento e di buon umore – si interessarono l’una all’altra. Dopo un breve fidanzamento, si sposarono il 23 maggio 1809, Frances aveva 30 anni. Gli sposi rimasero a Londra, affittando una casa poco distante da quella che Frances aveva condiviso con suo fratello e sua sorella.

Nel corso dei successivi sette anni, Frances adempì il compito principale di una moglie inglese del XIX secolo dando alla luce cinque figli, quattro maschi- Thomas, Henry, Arthur e Anthony – e una femmina, Emily, che morì durante l’infanzia. Per accogliere questa famiglia in crescita, Thomas Anthony acquistò una fattoria vicino a Harrow nel 1816. Lì nacquero altre due figlie, Cecilia Trollope (Tilley) nel 1816, e una seconda Emily nel 1818.

Frances era chiaramente la forza trainante nella vita familiare della Illots Farm; insegnò a tutti i suoi figli, promuovendo in ciascuno l’amore per quelle stesse materie che aveva studiato con suo padre, in particolare la letteratura. Ogni bambino era incoraggiato a provare a scrivere e difatti Thomas si cimentò nei romanzi storici, mentre Cecilia scrisse dei romanzi ma il più noto dei figli di Frances fu Anthony Trollope al quale la fama dei suoi romanzi è valsa un posto come uno dei migliori romanzieri inglesi del XIX secolo.

Nel 1823 i Trollope si recarono a Parigi, dove Frances incontrò per la prima volta Frances “Fanny” Wright, una socialista utopica radicale con la quale entrò in amicizia. Durante la sua permanenza a Parigi, Frances teneva un diario delle persone e dei luoghi che incontrava; era il suo primo tentativo di scrittura e le sue osservazioni dettagliate rivelano un’intuizione acuta che le sarebbe riuscita utile nella sua vita professionale.

Al ritorno a casa la grave depressione economica che colpì l’Inghilterra e alcuni problemi di salute accusati da Thomas fecero completamente naufragare la situazione finanziaria della famiglia che si trasferì in una casa più piccola.

Nel 1827, Frances decise di partire per gli Stati Uniti, portando con sé i bambini più piccoli, per partecipare prima alla comunità utopica di Nashoba, fondata dalla sua amica Frances Wright, una comunità di attivisti sociali bianchi che cercavano di educare ex schiavi. Frances Trollope aveva deciso di aderire per diversi motivi: amava viaggiare, voleva disperatamente fuggire dai suoi problemi finanziari e dal marito amareggiato (che era contrario al viaggio), e credeva nel movimento abolizionista. Tuttavia, era totalmente impreparata alle dure condizioni di vita a Nashoba; fuggirono a nord verso Cincinnati che Frances aveva sentito descrivere come “l’Atene dell’ovest” , dove ebbe l’idea di creare un Cincinnati Bazaar. Ma anche questa iniziativa si concluse con un fallimento.

A proposito della sua esperienza americana pubblica, nel 1832, Domestic Manners of the Americans, (ben una decina d’anni prima delle American Notes di Dickens): Il successo fu immediato, da quel momento fino agli ultimi anni della sua vita continuò a scrivere diventando una delle autrici britanniche più lette e apprezzate. Oltre a ciò Frances realizzò 34 romanzi, sei reportage di viaggio, un saggio in versi.

Domestic Manners of the Americans era un saggio sullo stile di vita degli americani che ebbe un incredibile successo e che le permise di risollevare le sorti economiche della famiglia (a causa dei dissesti causati dal padre avvocato).

Frances Trollope di certo non si aspettava l’incredibile successo che ebbero le sue memorie americane in Inghilterra, non aveva intenzione di scrivere una satira sulla vita degli americani. Di fatto descrive quello che vede, che sente; racconta di un paese che considera alla rovescia rispetto al suo. Certamente lo fa senza mezzi termini, dall’alto del suo essere cittadina di un impero che domina il mondo, e schietta, senza pregiudizi ci rimanda immagine di una nazione ancora primitiva, carica di difetti e di colpe, ma anche di una straordinaria vitalità.

«Da quello che io ho scritto desumerete che io non amo l’America. Io non amo gli americani, non amo i loro principi ed i loro costumi e non mi piacciono le loro opinioni»

La Trollope fu anche autrice di opere di critica sociale, ed il suo Michael Armstrong: Factory Boy del 1840, fu il primo romanzo di denuncia sulle conseguenze sociali della Rivoluzione Industriale pubblicato in Inghilterra e dove si denuncia la pratica dell’uso di minori nelle fabbriche. A questo primo romanzo di denuncia seguirono Jonathan Jefferson Whitlaw, opera contro la pratica dello schiavismo, e The Vicar of Wrexhill sulla corruzione della casta ecclesiastica in Inghilterra. La sua opera più celebre fu la trilogia di romanzi della vedova Barnaby, e la sua abitudine di scrivere romanzi concatenati in serie venne poi ereditata da suo figlio Anthony.

La vedova Barnaby è un romanzo davvero singolare, lontanissimo dai cliché dell’epoca, per quanto concerne la sua eroina almeno.

Ci mostra chiaramente da chi il figlio ha ereditato humour e vocazione letteraria.

Una vedova piumata, scaltra, per nulla sprovveduta come le Clarissa e le Cecilia della situazione.

Certa del proprio fascino come poche, ricorda la Lady Susan austeniana che pensa solo a trovare una sistemazione per sé e la figlia ricorrendo a tutti i mezzi.

Il personaggio tratteggiato da Frances Trollope è molto più complesso e la sua storia parte da lontano per descrivere bene il contesto da cui proviene.

Dopo alcuni anni trascorsi in Inghilterra per Frances divenne ora di partire nuovamente e questa volta scelse l’Italia. Arrivò a Firenze la prima volta nel 1843 in compagnia di Thomas Adolphus per testare il clima della città, la piacque moltissimo e la scelse come sua residenza permanente. Quella curiosa famiglia di scrittori scelse di abitare in questa zona, Piazza Indipendenza e il Villino da loro occupato divenne per tutti noto come Villino Trollope.

Per i successivi sei anni, Frances godette di buona salute nonostante l’età che avanzava e, come sempre, continuò a pubblicare romanzi su base regolare, nove in tutto. Nel 1856, apparve il suo ultimo libro, Fashionable Life. Disse alla sua famiglia che alla fine, all’età di 77 anni, con 34 romanzi e 6 libri di viaggio alle spalle, stava posando la penna per sempre.

Villino Trollope era molto frequentato e tra gli ospiti vi fu Theodosia Gawonn, la quale, recatasi in viaggio con il padre, ebbe così modo di conoscere e poi sposare proprio Thomas rimanendo a vivere con i Trollope.

Theodosia Trollope pubblica la sua prima poesia nel 1839 e scrive articoli in diverse pubblicazioni tra cui Household Words edito da Charles Dickens. La sua poesia è stata lodata da Walter Savage Landor e paragonata a quella di Elizabeth Barrett Browning ma la stessa Barrett non ritiene il paragone giustificato, scrive infatti che la poesia di Trollope era “scorrevole e dolcemente scritta, senza traccia della cosa chiamata genio”.

Furono entrambe suocera e nuora che andavano d’accordissimo ad animare il salotto del Villino Trollope, frequentato da tutta la comunità inglese fiorentina e impegnato in favore del movimento risorgimentale italiano attraverso articoli di sostegno politico e la traduzione e diffusione di testi di attivisti italiani sulla rivista inglese Athenaeum.

Il sodalizio suocera e nuora proseguì anche nel riposo eterno perché furono sepolte l’una accanto all’altra nel Cimitero detto ‘degli Inglesi’ in Piazzale Donatello, Frances lasciò questa vita nel 1863 e Theodosia la seguì a breve giro (1865).

Il Villino Trollope non fu solo crocevia artistico perché frequentato da artisti come Charles Dickens e George Eliot, ma favorì anche un altro incontro sentimentale; qui nel 1860 (quando aveva 45 anni) Anthony Trollope conobbe Kate Field, una ventunenne americana di Boston. Tra loro ci fu subito un’intesa profonda, ravvivata quando due anni dopo si reincontrarono perché i Trollope andarono in America, e tollerata da Rose Trollope, che capiva la natura di quell’affetto sublimato tra suo marito e quella donna che forse cercava una figura paterna. Fu un amore non consumato, rimasto una spina nel fianco dello scrittore come per il protagonista di Troppo tardi per amare.

Dove Trollope con le sue 250 parole al giorno e tanto di servitore pagato appositamente per svegliarlo all’alba con una tazza di caffè, trovasse il tempo anche per seguire le proprie vicende sentimentali, non so. Di fatto la moglie Rose fu per lui una moglie modello, che gli fu vicina tutta la vita, l’unica persona che potesse leggere i suoi scritti prima che diventassero dei libri.

Quality Street di James Matthew Barrie

Sinossi

Quality Street” è una commedia in quattro atti ambientata in età napoleonica, scritta dal creatore del celebre Peter Pan, lo scozzese James Matthew Barrie. Messa in scena la prima volta nel 1901, narra di Miss Phoebe e del giovane medico Valentine Brown, di un grande amore, del tempo che passa inesorabile e di un dolce inganno…

Questa edizione flower-ed rappresenta la prima traduzione italiana dell’opera.

L’edizione è favolosa perché contiene moltissime illustrazioni originali di Hugh Thomson.

Recensione

Si tratta di una commedia agrodolce che parla delle occasioni perse, della guerra che interrompe bruscamente il normale fluire della vita quotidiana, anche nel tranquillo quartiere perbene di Halifax.

Il piccolo mondo di Quality Street ha le sue regole e il codice d’onore che Miss Susan e Miss Phoebe -lontane parenti delle sorelle Jenkins di Cranford- sono decise a osservare fino alla fine.

Il gioco di sguardi, allusioni, frasi non dette, scambi di persona, è sostenuto egregiamente dal genere scelto per questa commedia degli equivoci così squisitamente britannica.

A causa di un cattivo investimento le due sorelle perdono i loro risparmi e devono aprire una scuola per fanciulli abbastanza indisciplinati per mantenersi. Per niente al mondo Miss Phoebe accetterebbe una proposta di matrimonio per compassione e il suo orgoglio viene duramente messo alla prova quando dieci anni più tardi il capitano Brown la trova cambiata.

Ma come Wentworth viene affascinato dalla giovinezza di Louisa Musgrove, così la civettuola, presunta nipote di Miss Phoebe, Miss Livvy, ammalia il capitano Brown.

Non voglio svelare il finale che comunque riserva l’incertezza fino alle ultime pagine e lascia un gusto amaro sull’impietoso trascorrere del tempo:

Perché egli mi ha privata della più grande felicità che possa esserci nella vita di una donna. Non l’amore di un uomo -una donna può benissimo farne a meno – ma il suo proprio amore verso un uomo. Egli è indegno del mio amore; ecco perché posso essere tanto crudele.

Non è solo il fascino nostalgico dei bei tempi andati a percorrere queste pagine ma la grazia e il pudore con cui si proteggono i propri sentimenti e la propria dignità. Un’opera teatrale deliziosa.

Il titolo di questa pièce teatrale ha dato il nome a una famosa marca di cioccolatini per l’ingegnosa illuminazione di Harold Mackintosh, figlio del fondatore della fabbrica.

Nel 1890 infatti, John Mackintosh e sua moglie aprirono un negozio ad Halifax , dove crearono un nuovo tipo di dolce mescolando caramello duro con caramello che cola. Queste caramelle erano fatte con ingredienti locali poco costosi come latte, barbabietola da zucchero e uova. Hanno avuto un tale successo che nel 1898 hanno ampliato l’attività per costruire la prima fabbrica di caramelle al mondo. 

Alla fine degli anni ’30, la Gran Bretagna stava ancora risentendo degli effetti del crollo economico e Mackintosh si rese conto che in tempi di difficoltà economiche e di guerra, le persone bramano la nostalgia. I cioccolatini Quality Street erano, quindi, confezionati in barattoli dai colori vivaci con due personaggi che indossavano abiti dell’era Regency , conosciuti affettuosamente come Miss Sweetly e Major Quality, ispirati ai personaggi principali dell’opera teatrale di JM Barrie.

Oltre a essere stato portato in teatro innumerevoli volte, Quality Street è stato trasposto sul grande schermo due volte, in un film del 1927 interpretato da Marion Davies e in un secondo film del 1937, con Katharine Hepburn diventato Dolce Inganno in italiano.

Questo film è un gioiellino, un delizioso concentrato di grazia e ironia.

Nonostante sia in bianco e nero e la scenografia si concentri in poche inquadrature, il film è pienamente all’altezza del testo e i personaggi sono tali e quali a come si erano immaginati durante la lettura.

Le vicine Miss Willoughby, Miss Fanny e Miss Henrietta sono perfette nei panni delle zitelle pettegole e impiccione, Katharine Hepburn conquista con la sua eleganza e le sfumature delle sue emozioni, Miss Susan è esattamente uscita dalle pagine del libro, Patty il cui intervento è risolutivo, ancora più simpatica, se possibile.

Pur con qualche omissione (per esempio quella dell’investimento sbagliato) Dolce inganno si dimostra una commedia dolce amara, che unisce malinconia e romanticismo e un pizzico di bonaria malizia.

George Stevens paga il suo tributo all’opera originaria con una regia impeccabile, un ritmo brioso e costumi incantevoli. Più delle guerre napoleoniche sullo sfondo, a decidere le sorti delle signorine Throssel è il corteggiamento del capitano Brown. Katharine Hepburn lo fronteggia sdoppiandosi in Miss Phoebe e in Miss Livvy, da assoluta protagonista.

Un film consigliato e gradevolissimo!

Pompei: agosto 79 d.C.

Pompei: agosto 79 d.C. si erano da poco tenuti i Vulcanalia a Roma, quando il Vesuvio diede inizio a un tremendo e macabro spettacolo di orrore e morte.
Il vulcano, fino ad allora sopito, eruttò subissando di lava, lapilli e ceneri per tre lunghi e interminabili giorni gli abitanti di Pompei.
Pompei non fu l’unica città colpita. i fumi dell’eruzione e la lava raggiunsero anche le città vicine di: Stabia, Oplontis, fino a lambire Nocera e, sul versante opposto, Ercolano.

Avvisaglie
Un terremoto aveva già colpito la citta nel 62 d.C., quando diversi edifici erano crollati per poi essere ricostruiti.
La popolazione, conscia della presenza del vulcano, aveva nuovamente scelto di stabilirsi a Pompei.
Anche, nel 79 d.C. l’eruzione del Vesuvio venne preannunciata da scosse di terremoto.
In esse trovarono la morte diversi abitanti per via del crollo degli edifici a più piani che si ripiegavano su se stessi.
Pompei ridente colonia commerciale e non solo
Nell’anno dell’eruzione, Pompei ci appare al massimo del fulgore di quegli anni.

La città si presentava come una Roma in miniatura dove gli stessi cittadini romani venivano in villeggiatura a beneficiare del clima mite del mare.

E’ stato possibile ricostruire questo quadro generale grazie all’incredibile stato in cui la colata di lava ha fermato la vita di Pompei consegnandola alla Storia.

I primi ritrovamenti si hanno nel 1700 grazie al ritorno in voga dell’ amore per i classici e alla scoperta dei tesori che l’archeologia di quegli anni poteva donare.

Gli scavi furono ordinati e finanziati dal Re Carlo III di Borbone, che si mostrò estremamente geloso di questa sua impresa e dei tesori che il suolo vesuviano nascondeva ai più.

Lo studioso che decreterà la fama degli scavi di Pompei, Winckelman, dovette fare richiesta specifica e scritta al Re per poter visionare la zona dell’area archeologica.

Fra fine Settecento e inizio Ottocento cominciarono a formarsi le prime raccolte di reperti.

I reperti furono collocati prima alla Reggia di Portici e, poi, a Napoli nel Real Museo Borbonico, primo nucleo dell’attuale Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Grand Tourist a Pompei
Poco più tardi, nel 1786, Goethe, ammiratore di Winckelman, amante dell’archeologia, dell’arte e del paesaggio, durante il suo Grand Tour che lo portò fino in Campania, ebbe a dire:

“Domenica andammo a Pompei. Molte sciagure sono accadute nel mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posterità. Credo sia difficile vedere qualcosa di più interessante. Le case sono piccole e anguste, ma tutte contengono all’interno elegantissime pitture. La porta cittadina, con l’attiguo sepolcreto. Un posto mirabile, degno di sereni pensieri”.

Da allora infatti Pompei ed Ercolano entrarono di diritto e di prepotenza nell’itinerario del Grand Tour (che spesso si fermava a Roma) e si imposero nel panorama artistico degno di essere visitato, ritratto e immortalato sotto forma di schizzi e vedute. Infatti solo quando cominciano gli scavi ad Ercolano nel 1738 e a Pompei nel 1748 queste due località, con Napoli, furono incluse come tappe fondamentali nell’itinerario dei viaggiatori e con essi anche il resto del nostro Meridione.

L’Italia diventa luogo di eccellenza della classicità, e si conferma ancora una volta, museo a cielo aperto anche grazie anche alle continue scoperte archeologiche e all’immenso patrimonio di antichità rivelato dagli scavi di Pompei ed Ercolano.

Lord Byron definì Pompei e il Vesuvio, insieme al particolare arcobaleno delle Cascate delle Marmore, tra le meraviglie italiane degne di essere viste. Dickens rimase affascinato da un’emblematica visione, quando giunge in una mattinata di sole, passando per Capua e Napoli, fino a Ercolano e Pompei.

Pompei
L’ultimo giorno di Pompei, dipinto di Karl Pavlovič Brjullov del 1830-1833

Qui, tra le rovine del Tempo, oggetti e momenti casuali del passato remoto sono fissati per sempre nella pietra. Così nel grande mercato di Pompei, Dickens si ferma a contemplare il cono fumante del Vesuvio a distanza ravvicinata con la strana e malinconica sensazione di vedere il Devastato e il Distruttore nella stessa luce, serenamente raffigurati nel Sole.

Non a caso il caro vecchio dr. Samuel Johnson aveva detto:

“Colui che non ha viaggiato in Italia soffrirà sempre di un senso di inferiorità perché non avrà visto ciò che ogni uomo dovrebbe vedere”.

Un testimone illustre
Della grande eruzione, fu testimone diretto e illustre Plinio il giovane che trovandosi a Miseno (l’odierna Bacoli) con la famiglia, raccontò diversi anni dopo all’amico Tacito, di come vi perse la vita anche lo zio Plinio il vecchio (che lo aveva adottato) e che aveva armato una spedizione di soccorso dal mare verso Ercolano per aiutare una famiglia di amici.
“Mio zio si trovava a Miseno dove comandava la flotta. Il 24 agosto, nel primo pomeriggio, mia madre attirò la sua attenzione su una nube di straordinaria forma e grandezza. Egli aveva fatto il bagno di sole, poi quello d’acqua fredda, si era fatto servire una colazione a letto e in quel momento stava studiando. Fattesi portare le scarpe si recò su un luogo elevato da dove si poteva benissimo contemplare il fenomeno.
Una nube si levava in alto, ed era di tale forma ed aspetto da non poter essere paragonata a nessun albero meglio che a un pino”.


La spedizione di Plinio il vecchio
“A mio zio, che era uomo dottissimo, tutto ciò parve un fenomeno importante e degno di essere osservato più da vicino, per cui ordinò che si preparasse una liburnica (un tipo di nave leggera e veloce) offrendomi se volevo, di andare con lui.

Risposi che preferivo studiare: era stato lui stesso, infatti, ad assegnarmi qualcosa da scrivere. Mentre usciva di casa gli venne consegnato un biglietto di Retina, moglie di Casco, la quale, spaventata dall’imminente pericolo (perché la sua villa stava in basso e ormai non v’era altra via di scampo che montare su una nave), lo supplicava di liberarla da una situazione così tremenda.

Mio zio allora modificò il suo piano e compì con eroico coraggio quel che si era accinto a fare per ragioni di studio. Diede ordine di mettere in mare le quadriremi e vi salì egli stesso con l’intenzione di correre in aiuto non solo di Retina, ma di molti altri, perché quell’amenissima costa era fittamente popolata.

In gran fretta si diresse là, da dove gli altri fuggivano, navigando diritto tenendo il timone verso il luogo del pericolo con animo così impavido da dettare o annotare egli stesso ogni nuova fase e ogni aspetto di quel terribile flagello, come gli si veniva presentando allo sguardo.

Già la cenere cadeva sulle navi tanto più calda e fitta quanto più esse si avvicinavano; già cadevano anche pomici e pietre nere, arse e frantumate dal fuoco; poi improvvisamente si trovarono in acque basse e il lido per i massi rotolati giù dal monte era divenuto inaccessibile.

Egli rimase un momento incerto se dovesse tornare indietro. Poi, al pilota che lo consigliava, disse: ‘La fortuna aiuta gli audaci; drizza la prora verso la villa di Pomponiano a Stabiae!’.”

La villa di Pomponiano a Stabia
Stabia è dall’altra parte del golfo e la nave di Plinio deve aggirarlo per raggiungere l’amico Pomponiano che lo aspetta in fibrillazione, avendo preparato armi e bagagli per scappare.

Ma Plinio giunge con “aspetto di persona serena”, lo calma e lo tranquillizza; si fa invitare a entrare nella villa dove viene condotto prima in bagno per rinfrescarsi e poi a tavola (sic).

La tranquillità di Plinio è tanta che mentre gli altri stanno alzati tutta notte senza chiudere occhio, lui dorme e ronfa sonoramente:

“Poi si mise a dormire, e dormì veramente poiché la respirazione, molto grave e sonora per la grossezza del corpo, era udita da tutti coloro che passavano davanti alla porta della sua camera.

Svegliato venne fuori e si unì a Pomponiano e agli altri.

Si consultarono se dovessero rimanere in casa o tentare di uscire all’aperto: per frequenti e lunghi terremoti la casa traballava e dava l’impressione di oscillare in un senso o nell’altro come squassata dalle fondamenta.

Stando all’aperto v’era da temere la caduta dei lapilli e pomici, anche se queste ultime sono leggere e porose.

Alla fine confrontati i pericoli, fu scelto quest’ultimo partito. Prevalse in mio zio la più ragionevole delle due soluzioni, negli altri invece il più forte dei timori. Si misero dei cuscini sul capo e li legarono con fazzoletti: e questo servì loro per protezione contro le pietre che cadevano dall’alto”.

Pompei: La fine


Sempre Plinio racconta gli ultimi istanti di vita dello zio e della sua disperata impresa:

“Mentre altrove faceva giorno, colà era notte, più oscura e più fitta di tutte le altre notti, sebbene fosse rischiarata da fiamme e bagliori.

Fu deciso di recarsi alla spiaggia per vedere da vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma il mare era ancora pericoloso perché agitato dalla tempesta.

Allora fu steso un lenzuolo per terra e mio zio vi si adagiò sopra, poi chiese più volte acqua fresca da bere. In seguito le fiamme e un odor di zolfo annunciatore del fuoco costrinse agli altri di fuggire e a lui di alzarsi. Si tirò su appoggiandosi a due schiavi, ma ricadde presto a terra.

Secondo me, l’aria troppo impregnata di cenere deve avergli impedito il respiro ostruendogli la gola, che per natura era debole, angusta e soggetta a frequenti infiammazioni.

Quando il giorno dopo tornò a risplendere (era il terzo da quello che egli aveva visto per l’ultima volta), il suo corpo fu trovato intatto, illeso, coperto dalle medesime vesti che aveva indosso al momento della partenza; l’aspetto era quello di un uomo addormentato, piuttosto che d’un morto”.

Pompei

Volete approfondire? Ecco alcuni spunti:
Viaggi letterari in Italia di Romina Angelici

50 lettere. Plinio il Giovane
Queste tremende giornate vengono ripercorse con particolare accuratezza nel romanzo storico di Stefania De Prai che ringrazio per lo spunto offertomi:
Lo schiavo di Pompei


Matilda di Mary Shelley

Il romanzo fu pubblicato per la prima volta nel 1959 da Elizabeth Nitchie dopo essere stato rinvenuto fra vecchie carte. La precedente edizione in italiano è del 2005, Marsilio Editori, per la traduzione di Marisa Billi.

Oggi viene pubblicato dalle Edizioni 13 Lab Milano (che si ringrazia per la gentilezza).

Sinossi

Di fronte alla propria morte imminente, Matilda scrive all’amico Woodville una lettera di addio nella quale racconta la propria vita, partendo dall’infanzia e arrivando fino al tragico presente in cui la lettera viene redatta. Il flashback narrato da Matilda si snoda per lo spazio e per il tempo, raccontando, in primis, la gioventù del padre e l’incontro tra questi e la giovane madre. Dal loro amore profondo e sincero nasce Matilda che, a causa di alcuni eventi tragici, sarà costretta alla ricerca di un’armonia che mai riuscirà a ottenere. I temi principali di questo breve romanzo (il rapporto tra padre e figlia, la solitudine, la fragilità della felicità desiderata dall’uomo) riflettono quanto Mary Shelley stava vivendo al momento della stesura, avvenuta nell’estate del 1819, qualche mese dopo la morte per malaria del figlio dell’autrice, William Shelley, deceduto a Firenze il 7 giugno dello stesso anno.

L’autrice

Figlia del saggista William Godwin e della filosofa e intellettuale radicale Mary Wollstonecraft, Mary Shelley nacque il 30 agosto del 1797 a Londra. Alcuni giorni dopo il parto, Mary Wollstonecraft morì e fu William Godwin a occuparsi della neonata figlia. La casa del padre era un ambiente stimolante dal punto di vista intellettuale, perché diversi intellettuali ed esponenti del romanticismo, come William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge, facevano spesso visita a William Godwin; inoltre Mary ebbe accesso alla biblioteca del padre.

Nel 1814 Mary incontrò lo scrittore Percy Shelley di cui si innamorò. I due fuggirono in Francia, sebbene Percy Shelley fosse già sposato con Harriet Westbrook, e viaggiarono per l’Europa. Nell’estate del 1816, Mary Shelley iniziò a lavorare alla stesura di Frankestein, pubblicato anonimo due anni più tardi.

Lo stesso anno, la coppia si spostò in Italia, dove prima la figlia Claire e poi il figlio William morirono. L’avventura italiana della coppia fu segnata da un’altra tragedia: nel 1822, durante un viaggio in barca da Livorno a Lerici, l’imbarcazione su cui Percy Shelley viaggiava fu colpita da una tempesta e lo scrittore morì affogato.

Rimasta soltanto con il figlio Florence, Mary Shelley continuò la propria attività di scrittrice pubblicando L’altro uomo nel 1826 e dedicandosi alla cura e alla pubblicazione delle opere del marito.

Morì nel 1851.

Recensione

In una landa isolata dal mondo la giovane Matilda decide di scrivere, in punto di morte, una lettera confessione al suo amico poeta Woodville, per rivelargli il terribile segreto che da anni nasconde. La lettera, suddivisa in due parti, comincia con la storia della vita di Matilda; racconta di come la sua nascita abbia portato alla morte della madre Diana a causa di complicazioni dovute al parto, e di come il padre (di cui mai viene rivelato il nome) l’abbia abbandonata ad una sua sorellastra perché si sentiva incapace di crescere una figlia senza la sua amata moglie. Matilda cresce così sentendosi abbandonata da tutti (ma senza dimenticare una sua accurata formazione culturale) e soprattutto non amata (nemmeno sua zia le voleva bene), questo fino a quando, all’età di 16 anni, il padre si ripresenta a casa con l’intenzione di rimediare al torto fatto alla figlia prendendosi cura di lei. Comincia così quello che Matilda stessa definisce il momento più bello della sua vita: suo padre è tornato, le vuole bene e trascorreranno insieme il resto della loro vita. Questo stato di grazia dura però poco, il padre infatti comincia improvvisamente a ignorare e respingere la figlia, gettando Matilda nella più cupa disperazione. Ben presto viene svelato il motivo di questo suo strano comportamento: il padre si è infatti innamorato della sua stessa figlia, arrivando perfino a considerarla come la sua defunta moglie, Diana; affermerà infatti:

“Diana le ha dato la vita; lo spirito di sua madre è stato trasferito in lei, e lei dovrebbe essere come Diana per me.”

Confessato questo suo incestuoso segreto alla figlia, decide di mettere fine alla sua esistenza e riesce nell’intento prima che la figlia possa impedirglielo.

All’inizio, quando il ricordo della precedente gioia contrastava con la mia presente disperazione, diedi sollievo all’oppressione che avevo nel cuore con parole, gemiti e sospiri strazianti: ma la mia natura si stancò e questo dolore ancor più violento diede spazio a un flusso id lacrime di passione ma mute: sembrava che la mia anima intera si dissolvesse nel pianto.  

Inizia così la seconda parte della storia: Matilda, a causa del dolore per la perdita del padre e sentendosi macchiata per quell’amore proibito provato dal padre, decide di ritirarsi in un luogo isolato  per potersi nascondere da tutti. Vive così due anni in completa solitudine, fintanto che incontra Woodville, unica persona con la quale riuscirà ad instaurare un rapporto umano dopo il padre. Il racconto della sua storia termina con la morte per tisi di Matilda, che termina la lettera congedandosi da Woodville.

Mary Shelley inviò il manoscritto al padre William Godwin per sottoporlo a revisione prima di un’eventuale pubblicazione. Il padre definì il romanzo “disgustoso e detestabile”, aggiungendo inoltre che, se mai fosse stato pubblicato, “avrebbe dovuto esserci una prefazione per preparare la mente dei lettori e impedire che fossero tormentati dal timore che da un momento all’altro l’eroina potesse cadere” (dal diario di Maria Gisborne, 8 agosto 1820). Si rifiutò inoltre di restituire il manoscritto alla figlia, nonostante le continue richieste di quest’ultima e le intercessioni di Maria Gisborne, amica di entrambi.

Molti critici hanno spesso letto l’opera come un’autobiografia, soprattutto per ciò che concerne i tre personaggi principali che rappresentano rispettivamente William Godwin, Mary Shelley e Percy Shelley. La trama in sé per sé in ogni caso non è autobiografica. Le analisi della prima stesura di Matilda, intitolata The Fields of Fancy, rivelano che Mary Shelley prese come punto di partenza per il romanzo il racconto incompiuto di Mary Wollstonecraft intitolato The Cave of Fancy, nel quale la madre di una giovane ragazza muore in un naufragio. Come accade alla stessa Mary Shelley, Matilda finisce con l’idealizzare la madre perduta. 

Secondo Janet Todd la mancanza della figura materna nelle pagine finali dell’opera suggerisce l’idea che la morte di Matilda renda il personaggio una cosa sola con la madre, permettendole un’unione con il padre morto.  La critica Pamela Clemit resiste alla semplice lettura autobiografica dell’opera, suggerendo l’idea dell’artificio letterario di “Mathilda”, spiegando così l’instabile narrazione nello stesso stile del padre (come succede all’elemento dell’inseguimento nell’opera Caleb William di Godwin e nel Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley). Il primo curatore dell’opera, Elizabeth Nitchie, evidenzia che l’opera pecca di “verbosity, loose plotting, somewhat stereotyped and extravagant characterization” ma che esalta “feeling for character and situation and phrasing that is often vigorous and precise”.Il romanzo può anche essere letto come la metafora di ciò che succede ad una donna quando, ignorante di tutte le conseguenze, segue il proprio cuore restando però dipendente dal proprio benefattore, incarnato da una figura maschile.

La lettera che Matilda affida all’amico Woodville e Mary Shelley al mondo è un inno accorato all’amore e al perdono. Matilda, eroina romantica dotata di una sensibilità fuori dal comune e nobili sentimenti, è consumata dal dolore per il peccato putativo del padre il cui ricordo la strazia e al cui perdono anela.

In un crescendo di prosa lirica forbiti di citazioni colpiscono, tra gli altri poeti inglesi, i riferimenti espliciti alla Divina Commedia Dantesca che in questo contesto offre la opportuna visione escatologica esistenziale.

La drammaticità è espressa con vigorosi accenti propri della tragedia greca e tradotta nella contrapposizione forzata tra l’eroina vittima e artefice che si staglia nella sua solitudine contro il coro.  

La ripetizione  anaforica della parola “Ahimè!” sottolinea il climax in un crescendo esclamativo.

La ricerca dell’isolamento, di ritirarsi in un luogo sperduto, in un bosco o nella brughiera, dove trovare riparo e simbiosi nella Natura, è ben rappresentata nella cover che appartiene a una precisa scelta editoriale. La grafica ha proprio lo scopo di esaltare la fuga di Matilda dalla vita comune e cercare e trovare unico conforto nella scrittura che è doppiamente salvifica perché nel recarle sollievo la purifica.

E veniamo al titolo di quest’opera. Perché Matilda?

Matilda è un personaggio del poema dantesco, che appare nel Paradiso Terrestre  al Canto XXVIII del Purgatorio: è descritta come una giovane e bella donna, che passeggia sulla riva del fiume cantando e cogliendo dei fiori. Dante si rivolge a lei paragonandola a Proserpina (paragone puramente letterario) al momento del rapimento da parte di Plutone e pregandola di avvicinarsi, invito che la donna raccoglie accostandosi alla riva e abbassando gli occhi con pudore virginale.

Matilda prosegue il suo canto pieno d’amore, recitando il versetto iniziale del Salmo XXXI (Beati quorum tecta sunt peccata, «Beati coloro i cui peccati sono stati coperti dal perdono») e iniziando a costeggiare il fiume in direzione opposta alla corrente

La figura di Matelda è una delle più enigmatiche del poema, essendo assai discusso sia il suo valore allegorico, sia la sua eventuale identificazione storica (il suo nome viene fatto una sola volta quasi alla fine del Purgatorio, in XXXIII, 119). Sulla consistenza reale del personaggio sono state fatte svariate ipotesi, identificandola con la contessa Matilde di Canossa, con la monaca benedettina Matilde di Hacehnborn (morta nel 1298 e autrice di libri spirituali), con Matilde di Magdeburgo (anch’essa autrice di opere ascetiche); è stata accostata anche a varie donne della Vita nuova per i molti echi stilnovisti nella sua descrizione, come la «donna gentile» o altre donne del seguito di Beatrice (nessuna di queste ipotesi sembra convincente o sostenuta da validi argomenti).

Più probabile che Matilda sia esclusivamente figura allegorica, rappresenti cioè la felicità primigenia dell’uomo prima del peccato originale, riconquistata faticosamente dalle anime dopo il percorso di espiazione, che è congruente con il luogo in cui la donna appare.

Proprio a questa duplice valenza di peccato-perdono Mary Shelley ha voluto fare riferimento scegliendo di dare questo nome alla sua eroina.

Dipinsi nella mia mente un gradevole fiume come uno di quelli sui quali Dante descrive Matilda mentre raccoglie i fiori, che sempre scorre:

bruna, bruna

sotto l’ombra perpetua, che mai

raggiar non lascia sole ivi, né Luna.

Con straordinaria lucidità Matilda si congeda dai vivi e conclude il suo canto di morte con una prosa di notevole liricità.

La mia morte si avvicina e tu non sei vicino a vedere il mio spirito prendere il volo e svanire. Non rimpiangere questo momento: la morte è terribile per i viventi. E’ una di quelle avversità che feriscono anziché purificare il cuore perché è una miseria così intensa che rafforza e sbiadisce i sentimenti.

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La Pace di Tolentino – Le pretese del Bonaparte

Il 19 febbraio 1797 a Tolentino Napoleone Bonaparte e i plenipotenziari di Pio VI avevano firmato la pace passata alla storia come “Pace di Tolentino

Con essa, per la prima volta, il patrimonio di S. Pietro veniva intaccato: Napoleone infatti pretese Avignone, il Contado Venassino, le Legazioni di Bologna, Ferrara, delle Romagne, l’occupazione di Ancona, 31.000.000 di lire, la cessione di opere d’arte, manoscritti, preziosi, etc.

Quando per pochi giorni l’impavido Corso era calato nelle Marche fermandosi in Ancona, aveva mandato commissari di finanza in varie città, compresa Fermo, per imporre contribuzioni, buoi, cavalli, vestiario, scarpe.

Pace di Tolentino

Piazza del Popolo – Fermo

A Fermo vennero in due: uno, il commissario d’Antien, che si comportò da gentiluomo; l’altro arrivò il 21 febbraio scortato da sei dragoni.

I Fermani insorsero anche se Napoleone era ad portas, spaventava l’idea che i suoi soldati, preceduti dalla loro fama di dissacratori e rapinatori, sarebbero venuti a commetterne di tutti i colori.

Al cospetto di Napoleone

Si pensò quindi di inviare ambasciatori a Napoleone per chiedere scusa a nome della città e dello Stato, complimentarsi per le folgoranti e sfolgoranti vittorie e cercare così di evitare l’incursione dell’esercito francese a Fermo.

Napoleone era tornato da poco a Tolentino, se ne stava seduto davanti al caminetto a Palazzo Torri quando gli fu annunciato l’arrivo dei due delegati fermani, che erano il conte Giacomo Brancadoro e il conte Vincenzo Porti.

L’ospite, ventottenne, al culmine della gloria per le recenti vittorie,  li accolse bruscamente tanto che  i due furono presi da timore reverenziale al punto che –narrano le cronache del tempo- riuscirono a balbettare solo alcune parole. Il loro insuccesso però non finì lì.

Al ritorno, a bordo delle carrozze, si imbatterono nelle truppe del Generale Rusca che, alla testa dei soldati francesi, saliva già verso S. Elpidio (odierna Sant’Elpidio a Mare).

Gli Elpidiensi tesero degli agguati,  si ebbero scariche di fucileria e i ribelli si asserragliarono nel convento dei cappuccini, furono assediati e si ebbe una carneficina.

Conti in fuga

Il Conte Porti riuscì a darsi alla fuga insieme ad altri due delegati (il conte Eugenio Savini e Vincenzo Cordella) che Fermo, non avendo più notizie dei primi, aveva inviato a rincalzare l’opera persuasiva presso l’implacabile condottiero francese.

Il Conte Brancadoro fu decisamente sfortunato: nella confusione e nella mischia venne scambiato per giacobino e ucciso dagli insorgenti, tra i quali anche alcuni suoi contadini. Molte furono le vittime della battaglia di S. Elpidio. Se possibile, ancora di più inutili perché, pochi giorni prima, era stata firmata la pace.

Il corpo del Brancadoro fu riportato a Fermo e sepolto in S. Francesco dove una lapide ne rievoca le gesta:  andò in Ancona “et immines Gallorum copias reconciliationis causa Anconam adiisset” e fu ucciso dai conterranei elpidiensi.

Pace di Tolentino
Vuoi approfondire? Ecco alcune fonti

Gabriele Nepi, Curiosità storiche su Fermo e il fermano, UTEFE, 1996, Grottammare

David G. Chandler, Le campagne di Napoleone, vol. I, 9ª edizione, Milano, BUR, 2006

Enciclopedia Treccani

La battaglia di Tolentino

Fermo: 825 d.C. sede di una delle prime Università d’Italia

Fermo università

L’antica università di Fermo risale addirittura all’anno 825 quando l’imperatore Lotario I istituì per tutta l’Italia 9 Studia Generalis.

Fermo deve ad uno dei Carolingi, cioè all’imperatore Lotario (795-855), nipote di Carlo Magno, la fondazione dello studio generale, Università del tempo, avvenuta nell’anno 825.

In tutta Italia ve n’erano soltanto nove: Torino, Ivrea, Civitale del Friuli, Pavia, Cremona, Vicenza, Verona, Firenze, Fermo. Come si vede, Firenze e Fermo erano i soli bacini di utenza per l’Italia centrale.

Nel capitolare di Lotario, emanato a Corte Olona, si specifica tra l’altro che dovevano recarsi a studiare a Fermo tutti quelli del ducato di Spoleto, ducato vastissimo che comprendeva Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo spingendosi fino al ducato di Benevento.

Ce ne dà notizia Ludovico Antonio Muratori in Rerum Italicarum Scriptores e lo documentano i Monumentiae Germaniere Historica.

Nello specifico, Fermo fu preferita a Spoleto: “In Fermo et de spoletinis civitacibes conveniant”: a Fermo si rechino anche quelli delle città del ducato di Spoleto, il cui territorio era estesissimo e abbracciava Marche, Umbria, Abruzzo e buona parte del Lazio.

Lo Studium divenne sempre più famoso tanto che il 16 gennaio 1303 Bonifacio VIII, prima di istituire l’ università di Roma –esattamente tre mesi prima-, si occupò ancora di quella di Fermo per introdurre uno studio generale come quello di Bologna con le facoltà di Teologia, Diritto Canonico e Civile e Lettere ed ogni altra lecita facoltà.

Gli studenti e i lettori godono di tutti i privilegi e le immunità di cui usufruiscono sia i docenti che i discenti dell’università di Bologna e coloro che conseguiranno la licentia docenti hanno facoltà di insegnare sia a Fermo che in qualsiasi altra università.

Fermo università

Callisto III il 26 giugno 1455 confermava l’università di Fermo “auctoritate apostoline” e le concedeva un sussidio da defalcarsi dalle tasse da versare alla Curia di Roma e  nel 1500 si contavano 1200 studenti frequentanti,  provenienti da ogni parte d’Italia e d’oltralpe: tra di essi si distinguevano per la particolare affluenza i tedeschi.

Dopo un periodo di decadenza di qualche decennio, la riportò all’antico splendore Papa Sisto V che si era laureato a Fermo e ne era stato Vescovo dal 1571 al 1577.

Vorresti approfondire? Ecco qualche fonte

Gabriele Nepi, Curiosità storiche su Fermo e il fermano, UTEFE, 1996, Grottammare.

De Minicis, Intorno alla piscina epuratoria in Fermo, Fermo, 1846

Maria di Champagne e l’amore cortese

Maria di Francia, o Maria di Champagne, 1145-1198, ha un complicatissimo albero genealogico alle spalle, ramificato anche attraverso rapporti di consanguineità,  ma quelle che saltano all’occhio sono le sue parentele con nomi famosi dell’epoca: era la sorellastra del re di Francia Filippo Augusto ma anche del re d’Inghilterra, Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senzaterra. Se avete visto Robin Hood dovreste ricordarveli.

La reggenza di Maria

Quello che a noi interessa è che, in un periodo storico come quello medievale dove la donna poco contava, in realtà Maria assunse per due volte la reggenza della contea governata da suo marito, conte di Champagne: una prima volta quando questi si assentò per un pellegrinaggio a Gerusalemme e una seconda quando anche il figlio primogenito Enrico partì per le Terra Santa diventando re di Gerusalemme anche se per poco.

Una corte illuminata

Forse è proprio grazie alla sua esperienza e alle sue doti che ella ispirò i primi componimenti di poesia cortese.

Amante della letteratura lei stessa, presso la corte di Maria di Champagne trovarono un ambiente particolarmente congeniale alla celebrazione degli ideali cavallereschi, poeti e artisti.

Maria di Champagne

Chrétien de Troyes

Il più famoso compositore alla corte di Maria di Champagne fu Chrétien de Troyes, originario della stessa regione francese, attivo tra il 1160 e il 1190, autore di 5 romanzi in versi in lingua d’oil e di materia bretone che hanno come protagonisti i leggendari cavalieri della Tavola Rotonda di re Artù: Erec ed Enide, Cligés, Lancillotto o il cavaliere della carretta, Ivano o il cavaliere del leone, Perceval o il racconto del Graal.

Lancillotto

Il romanzo più celebre di Chrétien de Troyes è Lancillotto o il cavaliere della carretta.

Vi si racconta della prigionia a cui la regina Ginevra, moglie di re Artù, è costretta dal crudele barone Meleagant.

A liberarla accorre Lancillotto, che per amore è disposto ad affrontare le prove più rischiose come quelle più umilianti acconsentendo a salire sulla carretta dell’infamia, riservata ai delinquenti e ai condannati a morte, pur di superare le prove che lo conducono dalla sua Ginevra.

L’incontro con Ginevra

Ed ecco infine che Lancillotto arriva al castello. Saluta il Re che lo accoglie con grandissima gioia e lo accompagna dalla regina. Questa volta lei non distoglie lo sguardo. Riceve il cavaliere senza nascondere tutta la sua felicità. Discorrono a lungo di tutto ciò che dà loro piacere. La materia non manca. Amore ne dà loro in abbondanza.

L’Amore cortese

Chrétien de Troyes è l’autore che sa articolare in un sistema di valori di grande efficacia fantastica e narrativa l’universo ideologico del mondo della corte, fondato sui valori della cavalleria, dell’amore e della cortesia e fu proprio la corte di Maria di Champagne a ispirarlo.

Viaggio nell’Austria di Maria Teresa

Maria Teresa d’Austria si impone nel panorama politico europeo settecentesco, fondamentalmente maschilista, come unica  donna sovrana.

Grazie al padre, Carlo VI che in mancanza di eredi maschi, aveva fatto approvare la Prammatica Sanzione che permetteva a una figlia femmina di succedergli, Maria Teresa salì al trono alla sua morte, avvenuta per intossicazione da funghi o incidente di caccia, nel 1740.

L’eredità di Maria Teresa non fu riconosciuta da diversi stati tedeschi, che, spalleggiati dalla Francia e dalla Spagna, precipitarono l’Europa centrale in quella che fu nota come guerra di successione austriaca.

Le nozze di Maria Teresa d’Austria

Maria Teresa era già stata data in sposa, quattro anni prima (1736) a Francesco Stefano di Lorena che divenuto arciduca di Toscana l’aveva condotta in Italia. Aveva infatti dovuto firmare un trattato segreto con l’imperatore in base al quale rinunciava alla Lorena (per tacitare  la Francia).

Nonostante le nozze fossero strumenti politici e giochi di potere per stipulare alleanze convenienti, in questo caso le aspettative di Maria Teresa vennero largamente ricompensate.

Ebbero ben sedici figli di cui dieci raggiunsero l’età adulta e si rivelarono poi ottimi alleati della madre nella Grande Scacchiera di giochi dinastici.

Con i legami matrimoniali contratti dai suoi numerosi figli Maria Teresa seppe estendere l’influenza austriaca in Italia (Maria Amalia divenne duchessa di Parma sposando Ferdinando, figlio di don Filippo; Maria Carolina fu regina di Napoli in seguito alle sue nozze con Ferdinando IV; Ferdinando sposò Maria Beatrice Vittoria d’Este, erede del ducato di Modena) e cercò di garantire amichevoli relazioni con la Francia e la Spagna (Maria Antonietta sposò il delfino, poi Luigi XVI; Leopoldo, prima granduca e poi imperatore, Maria Luisa, figlia di Carlo III re di Spagna).

La successione al trono

Rientrata alla corte di Vienna Maria Teresa si trovò di fronte a una situazione politica e finanziaria disastrata e per quasi tutti i suoi quarant’anni di regno fu assillata dalle guerre: la sua fu un’arte di compromessi e precari equilibri in cui seppe dare prova di tenacia e forza di carattere, non sempre in accordo con il coniuge.

Francesco Stefano era più esperto di affari che di operazioni militari il cui comando venne affidato al fratello di lui, Carlo Alessandro, nel frattempo divenuto cognato dell’arciduchessa Maria Teresa, avendone sposato la sorella Maria Anna. Il loro matrimonio sarà sfortunato perché Anna morirà dopo aver partorito il suo primogenito morto.

Quando anche Francesco Stefano viene a mancare il 18 agosto 1765, mentre sono a Innsbruck a festeggiare il matrimonio di Leopoldo, Maria Teresa d’Austria divide il potere con il figlio Giuseppe nonostante le diverse visioni politiche.

La reazione alla vedovanza è violenta: Maria Teresa fu devastata dal dolore, rinunziò a gioielli e altri ornamenti, tagliò i capelli corti, pose tende nere alle sue stanze, indossò abiti neri per il resto della sua vita e, infine, si ritirò dalla vita pubblica, al punto da trascorrere ogni anno l’intero mese di agosto e il diciottesimo giorno di ogni altro mese reclusa da sola nelle sue camere; lei stessa scrisse di riconoscersi appena e di essere diventata, senza l’amore del marito, come un animale, priva della ragione.

Sovrane illuminate

Ci sono alcune coincidenze che saltano agli occhi tra le vicende di Maria Teresa d’Austria e un’altra sovrana illuminata, la regina Vittoria.

Entrambe longeve, prolifiche, vedove inconsolabili, hanno cambiato il destino del loro Paese infondendogli un sentimento di stabilità e certezza.

Dovevano essere state dotate entrambe di energie gigantesche per affrontare tutte le questioni dei rispettivi imperi e contemporaneamente procreare e allevare nove figli in ventiquattro anni Victoria, sedici in ventotto anni Maria Teresa (che ne portò undici a vita adulta e due figlie al trono, tra Maria Antonietta, quella delle brioches, che andò a Parigi e vi perse la testa).

Se entrambe  avevano sicuramente un forte orgoglio dinastico e una volontà di ferro, a caratterizzare lo spirito di Maria Teresa è stato un potente istinto materno che la portò anche a pensarsi come madre dei suoi sudditi, o di terre da cui la definizione di “Landesmutter”, sovrana madre di terre.

Le riforme teresiane

Maria Teresa aveva uno sviluppato senso della giustizia, capacità organizzativa, fede nella forza dell’unità familiare e dello Stato. Si devono alla sua attenta lungimiranza la compilazione di un Codice Teresiano, la regolamentazione scolastica, la riforma del sistema sanitario.

«Il popolo va tolto dall’ignoranza, ad esso va data istruzione al fine di poter migliorare la propria condizione, essere utile a se stesso, allo Stato, alla prosperità della collettività»

Diverse furono le riforme volute da Maria Teresa in Lombardia, dove governava suo figlio Leopoldo, tra cui l’istituzione di un catasto teresiano e una embrionale riforma scolastica,  e nella capitale del Ducato, Milano, la ricostruzione del teatro ducale che diverrà Teatro alla Scala, la fondazione della Pinacoteca e dell’Accademia di Brera.

La costruzione della Villa Reale di Monza fu voluta dall’imperatrice quale residenza estiva per suo figlio Leopoldo grazie alla salubrità dell’aria e all’amenità del paese, e al fatto di evidente significato simbolico di trovarsi sulla rotta che collegava direttamente Milano e Vienna.

L’imperatrice consorte Maria Teresa fece ampliare l’esistente e costruire quella che poi fu una vera reggia, e che sotto la direzione dell’architetto Nikolaus Pacassi diventò la sua residenza: la fiabesca reggia di Schonbrunn. 

La serie tv su Maria Teresa D’Austria

Maria Teresa è stato dedicato un film storico in due parti, di due stagioni, disponibile su RaiPlay.

Maria Teresa, figlia primogenita di Carlo VI d’Austria, sin da fanciulla, rivela un’indole ribelle e determinata. Innamorata da sempre del duca di Lorena, Francesco Stefano, non si dà per vinta finché non le viene concesso di sposarlo, ma nonostante l’intensità del suo amore, la giovane non dimentica di dedicarsi, con un interesse e un accanimento inusuali per una donna dell’epoca, agli studi di storia politica, che le consentiranno di regnare degnamente alla morte del padre. Bellissimi la scenografia, i costumi e la ricostruzione storica.

https://www.treccani.it/enciclopedia/maria-teresa-d-asburgo-imperatrice/

https://www.viaggio-in-austria.it/maria-teresa.html

https://www.schoenbrunn.at/it/a-proposito-di-schoenbrunn/il-castello

http://www.unarosadoro.com/mariateresa.html

Maria Teresa d’Austria

Louisa May Alcott in Italia

Al termine del racconto Borse da viaggio di Louisa May Alcott riassume tutti gli eventi a cui ha assistito durante il suo secondo viaggio in Europa tra il 1870 e 1871:

Tre donne, profondamente diverse in tutto, erano vissute felicemente assieme per dodici lunghi mesi, avevano viaggiato senza nessuna protezione per terre e mari, avevano sperimentato due rivoluzioni, un terremoto, un’eclissi, un’inondazione, senza andare incontro a perdite, senza disavventure, senza liti o disappunti degni di nota.

Ebbene sì, perché durante la loro permanenza sul vecchio continente le sorelle Louisa e May Alcott e la loro amica Alice Bartlett sono testimoni di questi grandi avvenimenti storici.

Si erano imbarcate a New York, il 1 aprile 1870 sul piroscafo francese Lafayette che le portò oltreoceano dopo ben 10 giorni di traversata.

Louisa rimase chiusa nella sua cabina per tutto il periodo in attesa che il mal di mare e il brutto tempo  le dessero tregua. Arrivati nel bacino di Brest, si stabilirono per un periodo in Bretagna con l’intento di visitarla.

A giugno le tre americane si spostarono verso sud attraversando Blois fino a Bex, una località vicino a Vevey, dove si fermarono nel confortevole Hotel del Bains.

La guerra franco-prussiana

Il 15 luglio 1870 Napoleone III dichiara guerra alla Prussia. La Svizzera è un porto sicuro ma le conseguenze della guerra si fanno sentire anche lì.

La guerra lungo il Reno sta portando truppe di viaggiatori in Svizzera per cercare rifugio, e tutte le grandi città sono piene di gente che fugge dalla Germania. Quindi, quando agosto sarà finito, proseguiremo verso l’Italia e troveremo un posto caldo per il nostro inverno. In qualsiasi momento ventiquattrore ci portano nel Sempione, quindi sediamo a nostro agio e non ci preoccupiamo per la vecchia Francia e per la Prussia. Si dice che la Russia abbia aderito alla guerra, ma l’Italia e l’Inghilterra non si intrometteranno, quindi possiamo fuggire verso entrambe in caso di pericolo.

Così Louisa tranquillizza i genitori a casa.

Purtroppo agosto le ritrova ancora in Svizzera, hanno solo cambiato albergo stabilendosi alla pensione Paradiso di Vevey, per la posta e i soldi si appoggiano in Inghilterra da dove è più sicuro farsi recapitare il necessario.

Le notizie sui giornali parlano di una situazione molto brutta in cui versa la Francia, si dice che la Principessa Clotilde di Savoia sia passata da Ginevra con molti bagagli, fuggendo verso l’Italia, che la settimana precedente una vettura con gli stemmi imperiali sia passata vicino Vevey, di notte, e sembra fosse Matilde Bonaparte con altri reali, in fuga da Parigi.

I giornali ci dicono che i francesi hanno perso due grandi battaglie, i prussiani sono a Strasburgo e Parigi è sotto assedio. I giornali sono anche pieni di messaggi teatrali da parte dei francesi al popolo, in cui chiedono loro di presentarsi e lasciarsi massacrare per “La Patrie”, e sobri e freddi rapporti dei prussiani. Io sto dalla parte dei prussiani, perché hanno simpatizzato per noi nella nostra guerra, mentre il vecchio Napoleone no. Immagino che otterrà un disastro, e se lo merita. Evviva la vecchia Prussia!

I combattimenti continuano tra francesi e prussiani senza esclusione di colpi e in una guerra in cui non si riescono a intravedere spiragli. È una Louisa preoccupata quella che scrive a casa il 10 settembre 1870:

Dal momento che tutta l’Europa sembra andare incontro alla distruzione, prima che questo accada, mi affretto a scrivere qualche riga. Intendiamo oltrepassare le Alpi la prossima settimana, se il tempo e la guerra lo permetteranno perché ci teniamo a vedere Milano e i Laghi, anche se dovessimo tornare indietro senza uno sguardo su Roma. Il Papa sta cominciando a rianimarsi, e Italia, Inghilterra e Russia sembrano pronte a unirsi alla guerra ora che la Francia è in crisi. Pensa a Parigi bombardata e distrutta come Strasburgo.

Poi la resa di Napoleone lascia intravedere qualche speranza ma le ragazze dovranno attendere la presa di Roma per fare il loro ingresso in Italia.

Finalmente in Italia!

Sappiamo che l’8 ottobre sono sul lago di Como e che nella seconda metà di ottobre visitano Milano, Parma, Pisa, Bologna e Firenze.

Il 10 novembre arrivano a Roma dove prendono in affitto un appartamento di Piazza Barberini che si affacciava sulla fontana del Tritone.

Il placido soggiorno delle americane fatto di lezioni di disegno, gite fuori porta e visite ai musei, viene bruscamente interrotto dalla notizia, la mattina del 28 dicembre 1870, dell’inondazione del Tevere. Il fiume aveva cominciato a straripare nella parte sud della città, la gente che viveva appena fuori le mura era annegata e nel Ghetto la situazione era drammatica.

Senza fare alcun accenno all’eclissi solare totale del 22 dicembre, la Alcott racconta che la piena raggiunse i diciassette metri e sembrava di essere a Venezia: le strade erano allagate, la gente cercava di mettersi in salvo scendendo dalle case con per mezzo di scale a pioli, alcuni rimanevano affacciati dai balconi non sapendo cosa fare; Piazza del Popolo era un lago, dalla prova del Popolo aperta, entrava un torrente fangoso, trascinando verso il Corso mucchi di fieno, tronchi d’albero e animali annegati.

I soldati erano mobilitati e lavoravano di buona volontà per mettere in salvo quanta più gente possibile e di consegnare del cibo agli affamati e ai bisognosi, mentre i preti assistevano alla scena considerandola una punizione divina per il trattamento reso al Papa con la presa di Roma e rifiutandosi di pregare per il popolo.

La visita del Re

Un altro grande evento si aggiunse alla lunga lista di quelli che le tre turiste poterono annoverare e cioè la visita del re Vittorio Emanuele alla città di Roma e alla popolazione colpita dall’alluvione.

Era atteso per il dieci gennaio, ma quel cuore gentile non poté aspettare, e appena la strada fu praticabile, giunse con 300.000 franchi in mano per aiutare i suoi poveri romani. Arrivò alle 4 del mattino e, sebbene non fosse atteso, la notizia si propagò per la città e una gran folla uscì con le torce per scortarlo fino al Quirinale.

 Louisa rimase molto colpita dal gesto e dai modi del Re d’Italia al quale trova si addicesse l’appellativo di “Re Galantuomo”:

Vittorio Emanuele uscì e s’inchinò al suo popolo che non stava più in sé dalla gioia. Era vestito in borghese, forte, bruno e militaresco, non così brutto come lo facevano i ritratti, sebbene non fosse davvero un Apollo.

Dopo un breve e pittoresco soggiorno ad Albano, le americane lasciano l’Italia alla volta di Londra. A maggio Louisa si imbarca da sola per fare ritorno a casa.

Borse da viaggio

Il libro del 1872, Shawl Straps o Borse da viaggio,[1] ripercorre le tappe del viaggio fatto l’anno precedente: dallo sbarco in Bretagna, al passaggio per Parigi, fino all’arrivo in Italia con un intermezzo svizzero. Il Duomo di Milano paragonato a un immenso dolce di nozze e il campanile di Giotto a Firenze a una scatola da lavoro sono solo alcune delle curiose osservazioni di questo singolare trio di viaggiatrici prima di giungere a Roma dove trascorrono l’inverno per poi proseguire per Londra. Il bilancio è positivo e il libro si conclude con un caloroso invito alle consorelle americane a mettersi in viaggio anche loro, armate solo di coraggio, buonsenso e gentilezza, e che si traduce presto in dichiarazione patriottica:

Care Amanda, Matilda e Lavinia, perché rimandare? Non aspettate nessun uomo, prendete i vostri risparmi e spendeteli in qualcosa di meglio che le raffinatezze di Parigi, i gioielli di Ginevra o le reliquie di Roma. Portate a casa bauli vuoti, se volete, ma la testa piena di idee nuove e più grandi, di cuori più ricchi di quella cordialità che rende tutto il mondo più gentile…

…portate a casa nel nuovo continente, la grazia, la cultura e la salute che farà delle donne americane quello che adesso vorrebbero essere: le più coraggiose, le più intelligenti, le più felici e le più affascinanti donne del mondo.

 

Bibliografia

Angelici Romina, Non ho paura delle tempeste. Vita e opere di Louisa May Alcott, Flower-ed, Roma, 2018.

Cavalieri Raffaella, “Piccole donne in viaggio”, saggio contenuto in Borse da viaggio di Louisa May Alcott, Robin edizioni, Torino, 2020.

Saxton Martha, Louisa May Alcott, una biografia di gruppo, Jo March edizioni, 2019, Città del Castello, pagg. 281-288

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